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La gestione penale del conflitto di interessi: tutela del penalmente rilevante e prospettive normative - II Parte

La gestione penale del conflitto di interessi: tutela del penalmente rilevante e prospettive normative - II Parte
La gestione penale del conflitto di interessi: tutela del penalmente rilevante e prospettive normative - II Parte

Abstract

Codesto articolo si pone in conseguenza e a completamento della prima parte pubblicata sulla Rivista il 12 aprile scorso, analizzando l'incriminazione del privato che orienti la gestione dell'amministrazione pubblica nel singolo caso secondo l'interesse proprio o di terzi.

 

Indice

1. La disciplina incriminatrice per il privato

2. Conclusioni

 

1. La disciplina incriminatrice per il privato

Capitolo a parte si apre con riguardo all’ipotesi di reato del privato contro la pubblica amministrazione. Anche in questo caso, l’esigenza è sempre quella di una rinnovata super-protezione dell’interesse pubblico e dell’amministrazione come soggetto di diritto fondamentale. Occorre evidenziare che il privato, avvalendosi di mezzi di offesa, non forzatamente eclatanti, può dirottare l’interesse curato dall’amministrazione nel senso di favorire i propri interessi.

L’isolamento di un diverso titolo di reato per il privato sembra, all’apparenza, creare degli attriti con la previsione del comma 3 della disposizione in materia di delitti dei pubblici ufficiali.

In realtà, la differenza è notevole in quanto è necessario che il soggetto abbia la qualifica richiesta ma la utilizzi nel proprio privato, mentre per il reato oggetto di attuale disamina il delitto colpisce il privato, in quanto tale sprovvisto di qualifiche pubblicistiche. La carenza segnalata non è però sintomo di minore offesa: il privato ha maggiore possibilità di disporre di canali di finanziamento, di occultare risorse e di orchestrare un’attività di influenza massiva sull’amministrazione, al fine di deviare gli obiettivi reali, a fronte di quelli istituzionali, nonché di orientare l’attività di organi differenti rispetto a quelli imposti. Occorre tener presente che, in ogni caso, questa non è una presunzione assoluta o un’inferenza obbligata.

Il dato costante, che può emergere dall’isolamento di tale fattispecie rispetto a quella di corruzione propria (articolo 319 codice penale) è che ogni condotta che ricada sotto l’ombrello della nuova norma incriminatrice deve prescindere dallo scambio proprio della corruzione, il do ut des tra utilità e atto dell’ufficio, o atto contrario all’ufficio. Sta in questo l’elemento distanziatore tra il microsistema-corruzione e la nuova fattispecie.

Infatti, considerando l’impianto normativo dei delitti contro la pubblica amministrazione in modo complessivo, si può ipotizzare che le fattispecie a concorso necessario della corruzione impongano una maggiore attenzione, sotto alcuni profili, alla situazione del privato. È un’affermazione controcorrente, forse aporica nel suo contraddire le esigenze di sistema, ma che a ben vedere riflette l’intentio legis.

I reati in questione non tutelano primariamente la libera autodeterminazione del soggetto destinatario di prerogative pubblicistiche ma il buon andamento e l’imparzialità dell’amministrazione pubblica, anche da offese private. L’ulteriore obiezione, che può nascere dal fatto che è dedicato un titolo apposito ai reati del privato, non regge laddove si faccia riferimento proprio al concorso necessario.

Sulla base delle considerazioni condotte, per il privato si dovrebbe parlare di “influenza illecita sull’amministrazione pubblica”. Non si parla di corruzione (almeno, non solo di ipotesi corruttive, le quali riemergono a fronte della comparazione tra fattispecie e della qualificazione del fatto) ma di un concetto più ampio di azione illecita e non corrisposta sugli organi amministrativi. È distante la fattispecie del traffico di influenze illecite, a cui sembra avvicinarsi per l’assonanza terminologica.

Il problema di fondo che si intende affrontare e risolvere è diverso. Il pubblico ufficiale, l’incaricato di pubblico servizio o anche il semplice dipendente sfruttano la posizione di superiorità accordata dall’ordinamento e dall’appartenenza all’apparato burocratico; con tale condotta non si vuole evidenziare una maggiore propensione a delinquere ma solo la maggiore offensività e gravità di una tale condotta). Infatti, l’abuso della posizione garantisce la consumazione dell’iter criminis. Dal canto suo, il privato non dispone dell’autorità pubblicistica per imporre coattivamente il rispetto di un dato comando ma, paradossalmente, le maggiori risorse economiche e l’appoggio di un sodalizio criminale possono garantire in astratto un potere di influenza e deviazione dell’azione amministrativa.

Inoltre, ciò che si intende porre in evidenza è il fatto che il privato può sfruttare anche il fattore dell’appoggio alla criminalità organizzata. La disposizione, nel testo di seguito riportato, tende a coprire tale ipotesi al comma 2, poiché si integra, tramite rinvio espresso, l’aggravante del metodo mafioso. Infine, si può rilevare l’esclusione dalla cornice edittale delle ipotesi di estorsione (e, in via interpretativa) dell’estorsione aggravata, da trattare in modo puntuale e secondo un regime diverso. Infatti, non è qui richiesto una condotta o un modo di esplicarsi della condotta ben preciso.

Articolo 346-ter - Influenza illecita sull’amministrazione pubblica - “1. Chiunque, al di fuori delle ipotesi di cui all’articolo 629, esercita un’attività diretta ad indirizzare gli organi e gli uffici della pubblica amministrazione a compiere atti, non necessariamente contrari alla legge, ai regolamenti o ai doveri d’ufficio, che soddisfino interessi privati dell’autore del reato, di natura patrimoniale o personale, propri o altrui, avvalendosi anche di pressioni, violenza o minacce, è punito con la reclusione da 5 a 12 anni.

Ai casi previsti dal comma 1 si applica l’articolo 323-bis, secondo comma, terzo periodo, quarto e sesto comma. Fatto salvo il risarcimento del danno, chi commette il fatto è obbligato alla riparazione secondo la disciplina dell’articolo 322-quater." 

Quid riguardo a tale intervento? Il consistente rimando, operato dal secondo comma, in favore della disposizione dell’articolo 323-bis del codice penale segna la volontà di uniformare la disciplina sul piano degli effetti sanzionatori con diversa intensità di risposta, stante la cornice edittale mitigata. Si tratta però di uno scostamento di poco conto, che permette di conservare intatto il sistema di strumenti processuali a disposizione per l’accertamento giudiziale della condotta.

La differenza apprezzabile è quella che definisce la condotta principale del comma 1.

La clausola di riserva dell’inciso iniziale consente di differenziare la fattispecie in questione dall’estorsione “ordinaria”, aspetto che non è presente nella disposizione sulla concussione (articolo 317 codice penale), vista la specifica qualifica del soggetto attivo differenzia la concussione del privato da quella del soggetto pubblico, senza necessarie distinzioni letterali. Al contrario, nel contesto di una condotta di pressione con prospettazione di un male ingiusto e fine di ottenere un vantaggio a qualsiasi titolo, la differenza tra le norme dell’articolo 629 del codice penale e quella dell’articolo 346-ter del codice penale diviene labile.

A qualificare in senso particolare l’influenza illecita è l’oggetto che motiva la condotta del soggetto agente o, più precisamente, la specificità del vantaggio che si intende ottenere, ossia il “dirottamento” dell’agere amministrativo verso fini diversi per la soddisfazione di interessi propri. Sembra richiedersi un duplice ed inscindibile dolo specifico che sovraintende ad un duplice evento necessario. La necessaria realizzazione di due fatti, e non di uno solo, specifica la condotta estorsiva in senso lato e la distanzia dalla fattispecie di base dell’articolo 629 del codice penale.

Dunque, allorquando le pressioni o la violenza perpetrate si limitino ad ottenere un vantaggio in via diretta, si integrerà una semplice condotta estorsiva che, è evidente, non potrà ragionevolmente porsi contro la pubblica amministrazione, stante anche l’esistenza di diverse fattispecie che offrono copertura penale per la condotta di aggressione privata alla pubblica amministrazione (esempi lampanti sono dati dagli articolo 340 del codice penale, relativi all’interruzione di pubblico servizio, o le disposizioni economiche e contrattuali degli articoli 353-356 codice penale).

Secondo dato è il termine “indirizzare” in luogo di “orientare” presente nella disposizione precedentemente analizzato. La differenza si coglie nel diverso modo di atteggiarsi del soggetto agente. Se nell’articolo 323-bis del codice penale chi commette il reato agisce dall’interno della pubblica amministrazione, in modo da operare in prima persona la deviazione dei fini dell’attività amministrativa, in questa diversa ipotesi il privato influenza dall’esterno l’apparato amministrativo, al fine di compiere, anche sullo sfondo dell’attività legale dell’amministrazione. Per questo, la condotta del privato può risultare ancora più effimera e di difficile valutazione. Il cerchio si chiude. Infatti, la predisposizione di pene aspre, come detto, è strumentale all’utilizzo di mezzi investigativi e procedurali, primo fra tutti le intercettazioni, che consentono l’emersione di mezzi di prova altrimenti inafferrabili. La giustificazione risiede nell’elevata offensività di una condotta pur velata, nascosta, diretta alla manipolazione dell’interesse pubblico.

Terzo aspetto è la congiunzione “anche”, che sta a significare come la condotta del privato può anche prescindere da mezzi di offesa immediatamente percepibili come tali e differenziando ulteriormente la fattispecie de quarispetto all’estorsione ordinaria. Non è necessaria la puntuale violenza, perpetrata con i soliti strumenti, per provocare la coazione del soggetto interno all’amministrazione. La disposizione, non immediata nel comprendere tutte le possibilità di estrinsecazione della pressione indebita, si presenta come una clausola che fa salva qualsiasi modalità di offesa, tenendo presente la necessita del giudizio sull’idoneità dell’azione offensiva.

La fattispecie si “appoggia” all’analoga disposizione diretta al pubblico ufficiale, per ciò che concerne le identità nel trattamento sanzionatorio. All’atto della punizione, infatti, la distinzione soggettiva perde di significato, soprattutto alla luce della necessità di reprimere il medesimo nucleo di condotte e di tutelare lo stesso bene giuridico.

La pena principale elevata, da accostare a quella contenuta nella fattispecie dell’articolo 322-quinquies, sovraintende a necessità di politica criminale, in rottura con il passato e in soluzione di continuità con un microsistema, quello dei reati dei privati contro l’amministrazione pubblica, connotati da sempre da una presunta minore offensività per la disparità genetica tra i soggetti dell’ordinamento, una disparità di forze che viene irrazionalmente presunta. È evidente un problema di anacronismo, di arretratezza nella valutazione delle potenzialità delittuose del privato cittadino, perlopiù organizzato con altri, nell’offendere gli interessi e le strutture che sovraintendono la cura della res publica.

 

2. Conclusioni

In ordine alle fattispecie de iure condendo (auspicato), è evidente come la necessità sia quella di chiusura del sistema. Il capo dei delitti contro la pubblica amministrazione rappresenta una delle sezioni della disciplina penale più marchiata da tentativi più o meno riusciti di riforma ma ciò non ha esaurito il complesso delle ipotizzabili condotte offensive. La spiegazione delle carenze può essere ricondotta a due ordini di fattori.

In primis, viene in rilievo il fenomeno della legislazione politica. Si tratta di un lemma che può aprire a molteplici fraintendimenti. Distanziandosi dal concetto di politica legislativa, ciò che si intende dire è che le influenze politiche sottese alla produzione normativa costituiscono, inevitabilmente, un ostacolo all’efficienza e alla serietà della prevenzione e della repressione. Sarebbe ostico, o più precisamente impossibile affrontare il problema della scorretta gestione dello strumento legislativo, delle interferenze indebite e delle inefficienze della politica. È sufficiente affermare che sono stati sperimentati eccessi opposti sul tema. Esempio di riforma soprattutto politica è costituita dalla legge n. 86 del 1990, motivata da un’esigenza di ristrutturazione del sistema in vista di impegni internazionali dell’Italia che hanno coinvolto, nello stesso periodo, settori differenti dell’ordinamento (un esempio è la legge sullo sciopero nei servizi pubblici essenziali, n. 146 dello stesso anno), una riforma insoddisfacente che ha necessitato di ulteriori correttivi sulla breve distanza.

In modo diametralmente opposto, si presenta la recente legge anticorruzione del 2012, frutto del tentativo tecnocratico del Governo che ha concluso la XVI Legislatura. Un testo oscuro, particellato e frazionato, di difficile comprensione e poco risolutivo sul tema, eccettuato qualche sporadico intervento necessario (come la scissione della condotta concussiva).

Dove risiede la giusta misura? Come si può evincere, la strada da seguire è quella degli interventi mirati che puntino a coprire le condotte più subdole. In fondo, è di ciò che si disquisisce: il “male” della legislazione recente è quello della poca attenzione prestata alla precisione con cui si affrontano le particolari esigenze offerte dall’evoluzione sociale.

In secondo luogo, anche laddove si superassero le influenze diverse da quelle relative alla cura diretta degli interessi della collettività, gli ostacoli si possono ricondurre alle disfunzioni della politica legislativa e ai recenti diktat in materia penale. Le ipotesi formulate remano controcorrente rispetto alle istanze di depenalizzazione, circoscrizione ed attenuazione del trattamento punitivo accompagnata alla trasformazione in sanzioni amministrative o, come di recente, pecuniarie civili. La previsione di norme incriminatrici dotate di elevati limiti di pena, con applicazione di pena pecuniaria cumulativa e aggravamento sanzionatorio al verificarsi di particolari condizioni della condotta rappresentano necessità che attivano una serie di conseguenze, sul piano sostanziale e processuale. Il tutto ha come obiettivo la certezza del diritto e della pena, anche se, realisticamente, non per l’intero di quanto prospettato.

In entrambi i casi, gestione infedele e influenza illecita rappresentano un correttivo pervasivo e includente, non ispirato ad una semplice superfetazione della tutela penale.

La prima, rilevante conseguenza è la copertura penale dei casi di conflitto d’interesse immediato (da parte del pubblico ufficiale, dell’incaricato di pubblico servizio e del dipendente) e mediato (tramite “influenza” sull’amministrazione), oltre alla sanzionabilità di una serie di attività di contorno rispetto alle condotte di corruzione e abuso d’ufficio, oltre che delle fattispecie di cui all’articolo 336 del codice penale (violenza o minaccia a un pubblico ufficiale) e di intermediazione illecita, come il millantato credito (articolo 346 codice penale) e traffico di influenze illecite (articolo 346-bis codice penale).

Un’operazione di tal fatta sembrerebbe essere null’altro che una moltiplicazione delle norme incriminatrici in aperto conflitto con le recenti acquisizioni. In realtà, la visione è a più ampio spettro, di impronta sistemica. Oltre al mutamento di approccio legislativo già trattato, l’ulteriore esigenza che si intende propugnare è quella della maggiore coesione e coerenza dell’impianto normativo. Occorre pensare al sistema penale come ad un meccanismo che funziona al concerto di tre elementi: fattispecie incriminatrice, utilizzo degli strumenti di indagine più appropriati, esistenza di garanzie processuali idonee a garantire la definizione rapida del giudizio sulla responsabilità. Un primo passo utile nel senso è rappresentato proprio dalla definizione di norme sostanziali valide e idonee a rispettare le “speranze” di effettività della sanzione in sede processuale.

 

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