Legalità formale e concreta offensività: ovvero, l’insostenibile concezione attuale della disciplina dell’abnormità e i suoi correttivi in prospettiva
L’individuazione delle caratteristiche identificative delle sanzioni processuali atipiche anima la giurisprudenza più accorta da decenni. L’intento del presente contributo è quello di porsi da ponte tra le istanze del diritto vivente e le insopprimibili e indifferibili esigenze di trasposizione dei concetti e degli assunti contenuti nei più importanti arresti all’interno di norme di legge, alla luce di una rinnovata concezione del principio di legalità.
Indice
1. L’abnormità quale spia delle disfunzioni del potere giurisdizionale: elementi di interpolazione degli schemi processualpenalistici con la sistematica amministrativa
2. Requisiti positivi e negativi dell’abnormità: ricerca di unità di intenti nella giurisprudenza sul tema
3. Il paradigma Di Battista-Toni: la ricerca di direttive comuni e concordi per l’identificazione dell’abnormità e i segnali della crisi dell’approccio tradizionale
4. Il “passaggio a Nord-Ovest” verso una nuova tassatività sanzionatoria
5. Prospettive de iure condendo in tema di abnormità processuale
1. L’abnormità quale spia delle disfunzioni del potere giurisdizionale: elementi di interpolazione degli schemi processualpenalistici con la sistematica amministrativa.
Seppur non si tratti di un tema che infiamma attualmente il dibattito giuridico al pari di più urgenti questioni e battuti sentieri, la tematica delle sanzioni processuali atipiche desta più di una riflessione ogniqualvolta torni alla ribalta tramite una pronuncia delle Corti.
Ciò risulta ancor più vero se si inserisce codesta tematica nel quadro complessivo delle “agitazioni” giuridiche odierne, in cui è patente la crisi dei vecchi schemi formalistici e presuntivi a favore del fiorire dell’approccio sostanzialistico e concreto nell’applicazione ed interpretazione della legge. Qualora, come nel caso di specie, difetti anche il dato positivo della disposizione, il livello di entropia del sistema si accresce esponenzialmente.
È il caso della sanzione dell’abnormità, intesa quale impiego del potere giurisdizionale extra ordinem vel ultra vire.
Parafrasando, può bollarsi di abnormità ogni provvedimento dell’autorità giudicante che si presenti completamente avulso dagli schemi processuali tipici o che, pur appartenendovi in astratto, risulta impiegato in una situazione che non ne consentirebbe l’espressione. A conti fatti, il concetto in esame sembra nutrirsi, senza neppur pretesa di dissimulazione, della stessa linfa che alimenta il concetto di carenza di potere nel diritto amministrativo. Invero, se l’abnormità cd. strutturale, espressa dai casi in cui il provvedimento assume forma e contenuto privi di cittadinanza nel panorama processualpenalistico, riveste le fattezze della carenza di potere in astratto, ovverosia della totale esclusione in radice della sussistenza del potere espresso in capo a chi lo ha esercitato, l’abnormità cd. funzionale, riconosciuta in caso di mistificata applicazione della procedura, ricalca lo schema del cattivo uso di potere, inteso quale deviazione del suo impiego dalla previsione di legge.
Ciò detto, è evidente come la questione dell’abnormità non rimanga ristretta nei vincoli e nelle maglie del processo penale, finendo per esserne problematica domestica involgente profili sistemici di ben più ampio respiro.
In effetti, la qualificazione in termini di abnormità finisce per compiere una valutazione circa la dosimetria del potere giurisdizionale e delle sue modalità di impiego in concreto. Si tratta di un vero e proprio “riscontro di legalità” dell’attività del giudicante, non collegata ad automatismi rigidi ma ad una ponderazione di effetti e ad un bilanciamento di interessi non sempre di immediata evidenza. Inoltre, con l’abnormità non si giunge ad indicare una sola accezione di errato impiego della potestas iudicandi ma una serie di sfumature non sempre segnalate adeguatamente e nei termini giusti. In realtà è un vero e proprio paradigma, quello che si svela dinanzi all’interprete più attento, che giunge da un massimo grado di “offensività” rappresentato dall’abnormità strutturale “pura”, ossia quella che prevede una vera e propria manipolazione degli schemi processuali in termini sconosciuti alla legge, e, transitando attraverso fenomeni di abuso o eccesso, giungono ad un impiego errato che impongono una sorta di actio quanti minoris sull’operato del giudice.
Tramite la ricostruzione schematica fin qui esposta, è evidente come si possa giungere a due ordini di conclusioni.
Una lettura differente, eversiva ma non sovversiva, consente un’opera di razionalizzazione non ininfluente per la migliore comprensione di come operi e cosa sia l’abnormità. Questo vale soprattutto nel senso di incasellare in categorie, semplificanti ma non banalmente semplificatrici, le ipotesi di invalidità e violazione di legge.
In secundis, la razionalizzazione comporta la valutazione della vera ratio dell’abnormità che, lungi dal costituire ultima speme di censura di un provvedimento ingiusto o illegale, risulta avere un’autonomia concettuale che la identifica quale rimedio all’utilizzo latamente disfunzionale del potere giurisdizionale.
Quanto sinora detto non è di certo frutto della fantasia, oltremodo smisurata, di chi scrive: la ricognizione dei risultati a cui è giunta una giurisprudenza ultraventennale sul tema consente di giungere a tale ricostruzione, apparentemente azzardata e certamente coraggiosa, ma perfettamente in linea con quanto scritto nei fiumi di sentenze sulla tematica. È di certo arduo ipotizzare che vi sarà, ora come in futuro, un riconoscimento esplicito dell’interpolazione denunciata in epigrafe; è tuttavia palese e fuor di confutazione che gli schemi logico-matematici importati dal diritto amministrativo e dalla pubblicistica consentono di leggere in modo agevole e più schematico assunti tra loro tutto sommato concordi.
Per giungere al vero cuore della questione, occorre dar conto di ciò che, in sintesi, è giunta ad affermare la giurisprudenza di legittimità in questi decenni, all’affannosa ricerca di risultati che, come si dirà in seguito, potrebbero raggiungersi, tramite un montaliano autodafè, anche per via legislativa.
2. Requisiti negativi e positivi dell’abnormità: ricerca di un’unità di intenti nella giurisprudenza sul tema
Come evidente, l’actio finium regundorum compiuta dalla giurisprudenza non si è limitata alla sola esplicitazione “in positivo” delle ipotesi di abnormità. Di fatti, lo sforzo compiuto per dettare delle linee guida a più riprese enunciate nelle sentenze di Cassazione hanno riguardato tanto il riconoscimento di cosa costituisce provvedimento abnorme quanto di ciò che abnorme non può essere.
In primo luogo, la definizione dell’abnormità è stata condotta secondo caratteristiche che ne evidenziano l’appartenenza all’ordo processum. In particolare, è abnorme il provvedimento che risulti impugnabile. Sembrerebbe condursi una palese inversione dei termini del ragionamento: l’effetto diviene caratteristica qualificante. In realtà, l’impugnabilità, ragionando in ottica sistematica, evidenzia l’esistenza del provvedimento e la possibilità di un suo incasellamento nel corso processuale. In altri termini, un atto abnorme è pur sempre un atto giuridico e processuale; che poi ne difettino i presupposti di emanazione o la possibilità della stessa, pur in presenza di astratti presupposti, non importa.
Inoltre, per essere abnorme il provvedimento deve segnalare l’uso, l’abuso o lo scorretto impiego di poteri inesistenti in astratto o in concreto, tali da comportare delle conseguenze effettive sul procedimento penale nel suo complesso. Ciò segnala la necessità di una concreta offensività e dell’adattamento ortopedico della sanzione allo scenario in cui si manifesta, soprattutto perché, nel suo nomen funzionale, l’abnormità, più che segnalare la sola illegalità dell’azione del giudice, comporta degli effetti di non poco conto. Essi possono riassumersi in due diverse ipotesi, entrambe connesse ad un unico effetto analizzato dalla giurisprudenza più accorta: indebita regressione del procedimento e stasi irrimediabile dello stesso, situazioni eliminabili solo per il tramite del compimento di un atto invalido. Questo particolare aspetto sarà analizzato in seguito e, a parere dello scrivente, costituisce il massimo punto di elaborazione conseguito in via ermeneutica, fulcro di una serie di considerazioni di gran momento sui possibili futuri scenari normativi.
Proseguendo, si scorge l’ultimo (ma non per importanza) dei requisiti comuni di tutte le ipotesi: l’esercizio illecito dei poteri da parte del giudicante. Chi esprime l’atto abnorme deve essere il giudice e solo egli, in modo contrastante o divergente rispetto a quanto la legge gli assegna in dotazione.
Transitando nell’ottica negativa, anche in questo caso si è cercato di comprendere cosa non può costituire provvedimento abnorme.
Sotto il profilo soggettivo, come già accennato poc’anzi, l’abnormità è prerogativa (non certo lusinghiera) dell’attività del giudice. Invero, seppur anche la parte pubblica risulti dotata di poteri di impulso e direzione (latu sensu intesa), essa non può esprimere un atto con valore di provvedimento che abbia gli stessi requisiti dell’atto giudiziale strettamente tale.
Sul versante oggettivo, si possono svolgere due considerazioni che riassumono le varie sottolineature della giurisprudenza sotto il comune ombrello dell’approccio di concreta offensività. In primis, non può considerarsi abnorme il provvedimento connotato da favor nei confronti dell’imputato, dunque che preveda un surplus di garanzie procedimentali, in quanto mancherebbe una legittimazione omnimode utile o strumentale a far valere le proprie ragioni in sede impugnatoria. Allo stesso modo, non può profilarsi una forma di abnormità laddove dal provvedimento viziato non emerga alcuna prospettiva lesiva per la parte sottoposta a procedimento. Anche in questo caso, seppur con un necessario giudizio prognostico a monte, difetterebbe la raison d'être della censura dell’atto. In entrambi i casi profilati, laddove il provvedimento operi oltre il richiesto o senza alcuna possibilità di lesione futura, va negata l’esistenza di un vizio atipico.
Quanto visto, parimenti in positivo e in negativo, delinea una fattispecie sanzionatoria che emerge da un giudizio differenziale a due variabili, sostanziantisi in correttezza del potere impiegato e concreta offensività del provvedimento viziato. In nuce, dunque, è già presente l’intenzione, comune a tutta la giurisprudenza, di giungere a definire l’abnormità quale sanzione tale solo se in concreto pregiudizievole, una caratteristica confermata da quanto si dirà in seguito e che costituisce la stura per giungere alle conclusioni, caratterizzate dall’intento (si anticipa sin d’ora) di giungere ad una rivisitazione della tassatività e della legalità in ottica innovativa e disancorata da polverosi anacronismi.
3. Il paradigma Di Battista-Toni: la ricerca di direttive comuni e concordi per l’identificazione dell’abnormità e i segnali di crisi dell’approccio tradizionale
È scontato, di questi tempi e nel nuovo assetto di potere che si è creato tra legislazione e diritto vivente, che la problematica dell’interpretazione e formulazione delle linee guida sull’abnormità processuale abbia vissuto passaggi significativi attraverso pronunce delle Sezioni Unite.
La questione, per decenni sottaciuta secondo la linea di pensiero che il codice del 1930 aveva dettato, ossia quella (sunteggiando) dell’insabbiamento in relazione a tutte le sanzioni che non costituissero nullità, è stata, a dire il vero, a più riprese riportata agli onori della cronaca (giudiziaria) attraverso una serie di arresti che sono giunti ad uno snodo cruciale negli anni ’90. A seguito di un contrasto sorto in seno alle sezioni semplici e a seguente ordinanza di rimessione (in materia di regressione del procedimento ad opera del giudice del dibattimento a seguito di restituzione degli atti al giudice per le indagini preliminari), la Suprema Assise ha condensato le linee guida sul riconoscimento dell’atto abnorme nella sentenza Di Battista del 1997, evidenziato un triplice ordine di presupposti che il giudice dell’impugnazione (dunque, la Cassazione) è tenuto a verificare per valutare l’abnormità dell’atto vagliato.
In primo luogo, il giudizio deve involgere la sussistenza del potere giudicante in capo al giudice a quo. Successivamente, è necessario verificare l’inconciliabilità del potere come esplicato con i principi di fondo dell’ordinamento. Infine, occorre valutare l’effetto che l’atto comporta (stasi irrimediabile, indebita regressione), di norma pregiudicante l’intero corso del procedimento. In merito a ciò, con acume degno delle migliori pronunce, la Corte sottolinea come la patologia sia dotata di virulenza non sottovalutabile in quanto, a ben vedere, la produzione di un provvedimento stravagante richiede, per la sua rimozione, il compimento di un atto altrettanto collocantesi al di fuori degli schemi (nullo, nella specie), postulando un nesso di derivazione necessaria che sembra (senza confermare ciò) avvicinare pericolosamente l’abnormità ad una sorta di nullità di secondo grado, connotata da maggiore carica offensiva. In realtà, l’acquisizione della Cassazione è fondamentale nel constatare la “plurioffensività” del provvedimento abnorme, relativa tanto a profili di illegittimità immediatamente percepibili quanto alla possibile rovina del procedimento in prospettiva.
L’impianto così congegnato si conserva praticamente intatto anche con l’avvento del nuovo Millennio. Testimonianza ne è proprio un nuovo arresto della Suprema Corte, avvenuto con la sentenza Toni del 2009, la quale ha sostanzialmente riconfermato il trittico di condizioni richieste dalla pronuncia, seppur con una minore (si conceda ciò) sensibilità giuridica nell’affrontare le conseguenze della produzione del provvedimento abnorme sotto ogni profilo. La vera innovatività della sentenza si coglie nei profili di contorno che hanno dato conto di un’influenza consolidata ed incontrovertibile di alcuni aspetti nel discorso giuridico, peraltro fondamentali nel discorso de qua, appalesati dall’affermazione per cui l’abnormità “più che rappresentare un vizio dell’atto in sé [fuoriuscendo dal recinto della tassatività] rappresenta uno sviamento della funzione giurisdizionale, la quale non risponde più al modello previsto dalla legge ma si colloca al di là del perimetro entro il quale è riconosciuta dall’ordinamento.”. In un contesto di pensiero come quello segnalato da tale affermazione, si intravede limpidamente un nuovo corso che prende in considerazione elementi nuovi e che spinge a valicare le angustie in cui la tematica ha sempre versato.
In particolare, è evidente come tanto la riforma costituzionale del giusto processo, sul versante interno, quanto le spinte comunitarie e convenzionali, sul versante esterno, abbiano formato un coacervo di elementi differenziali rispetto al passato che richiedono un diverso approccio alla materia (recte, tanto a codesta quanto al resto dell’ordinamento), approccio che si rende ancor più peculiare nel caso di istituti di creazione giurisprudenziale privi di appiglio normativo. Scema, senza ombra di dubbio, la legalità formale nella sua concezione tradizionale, allorché si utilizzino formule che contemplano un riconoscimento per principi dell’illegalità del provvedimento, più che per stretta previsione normativa con limitato margine di manovra.
4. Il “passaggio a Nord-Ovest” verso una nuova tassatività sanzionatoria
Le istanze flessibilizzatrici che ogni istituto di matrice extra-legislativa recano con sé sono dotate di una dirompenza difficile da contenere, tanto più qualora rappresentino un tentativo di rimediare, in consonanza con i principi generali, ai deficit dell’ordinamento positivo.
L’istituto dell’abnormità, così come le altre forme di invalidità atipiche ed altri concetti giuridici privi di una disposizione di riferimento, rappresenta un tentativo di innovazione che va ben oltre la semplice esigenza del caso concreto. Nella materia di riferimento, invero, la previsione di ulteriori forme di sanzione per gli atti e i provvedimenti processuali paga lo scotto del confronto con il principio di tassatività, corollario della legalità formale (articolo 13, 23 e 25 Costituzione) cristallizzato nel duplice profilo statico (articolo 177 codice di procedura penale) e dinamico (articolo 568 codice di procedura penale), in modo apparentemente escludente e limitante. Eppure, la previsione di sfumature di illegittimità dei valori processuali non è acquisizione recente e, come già detto, sovversiva ma si inserisce nel discorso delle Corti e della dottrina con disarmante naturalità e un pizzico di trascuratezza.
Ciò posto, è sicuro che non occorre “metter mano” ai fondamenti del sistema nel suo complesso? Ci si riferisce proprio al principio di tassatività. Occorre comprendere, in altri termini, se lo stesso possa ritenersi attuale e se possa avere (o abbia ancora) una cittadinanza nel panorama giuridico, perlomeno nella problematica delle sanzioni processuali.
Ebbene, la problematica finisce per essere dotata di criticità minori di quante se ne potrebbero prospettare, in quanto la revisione della tassatività classicamente intesa è una diretta conseguenza del consolidamento dei principi finora esposti. La crisi dell’approccio formale è segnalata a più voci e in più campi quale promanazione dell’evoluzione dell’ordinamento, un percorso seguito dalla coscienza giuridica nel senso che “il rispetto dei precetti di legge cede il passo al criterio di offensività concreta del vizio quale condizione della sua rilevanza” (GIARDA). Del resto, a ben vedere, è lo stesso ordinamento a fornire il grimaldello che scardina quella che ormai può considerarsi una “menzogna del diritto”. L’arnese è offerto dal canone di ragionevolezza ripreso in pressoché ogni interpretazione normativa e timidamente posto alla base, negli ultimi tempi, della legislazione. Si tratta di un principio che fa il paio e costituisce presupposto di tutti gli approccio sostanzialistici che consentono alle disposizioni quell’adattamento sociologico e logico che ne consente la sopravvivenza al rischio di vetustà.
In che termini intendere l’interpolazione tra sanzioni processuali e ragionevolezza? Essenzialmente, si tratta di fornire, da un lato, una maggiore discrezionalità, sub specie di prerogativa di ponderazione, all’organo giudicante e, dall’altro, nel tentativo di salvaguardare (perlomeno parzialmente) il principio di legalità, giungere alla formalizzazione normativa della sanzione dell’abnormità secondo un certo grado di elasticità, pur sempre controllata.
Per capire da cosa deve essere guidato il controllo, è sufficiente far riferimento proprio al concetto di incidenza dei vizi sul corso del procedimento e sulla correttezza dell’accertamento penale, tanto sul versante pubblicistico quanto in merito alle istanze di chi viene sottoposto a procedimento, sulla base della considerazione per cui “se le forme processuali sono un valore, lo sono in quanto funzionali alla celebrazione di un giusto processo, i cui principi non vengono compromessi da una [sanzione] in sé irrilevante o inidonea a riverberarsi sulla validità processuale” (LA ROCCA).
Si tratta di una sfida che tenta di salvare l’ordinamento dalla sua auto-rottura, fenomeno che si consuma da decenni nel silenzio sulla problematica e nella sorda opera del legislatore.
5. Prospettive de iure condendo in tema di abnormità processuale
Giungendo a chiudere il cerchio delle riflessioni sinora condotte, occorre vergare qualcosa di costruttivo, gettare le fondamenta di una proposta che poggi su acquisizioni illuminate da una rinnovata consapevolezza dell’ordinamento e dalla necessità di porre rimedio ad una situazione, francamente insostenibile, di antinomia giuridica.
Per questo, condensare le linee guida della codificazione dell’abnormità appare un passo necessario, seppur ipotetico e, per ora, cittadino dell’Iperuranio. Invero, rifuggendo il passaggio dal diritto positivo alla law in action pura, il recupero a sistema della sanzione atipica dell’abnormità comporterebbe indubbi benefici, a più livelli.
Sul piano sistemico, terminerebbe la distonia tra appalesata dalla previsione pretoria di istituti che necessiterebbero, per Costituzione, di una copertura formale. Sul piano dell’opportunità, la cristallizzazione di una disposizione gioverebbe non solo nel senso di fornire un armamentario maggiormente chiaro al giudice ma consentirebbe di agire in materia, scindendo nettamente l’abnormità dalle figure di confine (su tutte, la nullità) e ponendo la parola fine sulla querelle relativa alla linea di demarcazione tra le due figure.
Sotto tal ultimo profilo, è evidente come la chiara distinzione tra nullità quale sanzione dell’illegittimità degli atti e abnormità quale sanzione dell’illegittimo esercizio del potere giurisdizionale consentirebbe il transito verso una maggior certezza del diritto, nonostante la necessità, nel secondo caso, di codificare categorie dai confini mobili. Tale caratteristica non discende solo dalla casistica copiosa in tema ma anche dalla stessa natura della sanzione. L’impiego del potere da parte del giudice in forma illegittima segue tante e tali sfumature da richiedere un vaglio concreto sulla base di tracce, indizi, spie legislative pur sempre frammentarie, sussidiarie, che intervengano all’uopo e si interfaccino necessariamente con la ponderazione concreta effettuata dal giudice nel riconoscimento del vizio.
Dunque, è necessario che l’approccio normativo in merito all’abnormità segua delle linee di riferimento nuove, innovative e, come accennato, eversive, nel senso di concedere maggior spazio ed importanza a valori che, seppur non sconosciuti a livello di diritto vivente, non risultano accolti nella legislazione, tanto per ragioni di politica legislativa quanto per principi di legislazione politica. Ciò che appare certa è l’antinomia e lo scostamento, non più accettabili, tra valori della lex posita e del diritto delle Corti, tale da produrre una sostanziale auto-rottura dell’ordinamento in una materia, quella delle sanzioni processuali e quindi della correttezza dell’agere processuale, che coinvolge, al contempo, gli interessi pubblicistici e quelli individuali e fondamentali del sottoposto al procedimento.
Per concludere, occorre proporre un dato normativo di massima (seppur, allo stato attuale, albergante nel solo Iperuranio), di cui si fornirà breve chiosa in chiusura. La proposta è quella che segue:
Articolo 178-bis – Casi di abnormità:
Fuori dai casi previsti dalla disposizione precedente, ogni provvedimento adottato violazione della legge processuale e dei principi generali dell’ordinamento inerenti l’attività giurisdizionale è colpito da abnormità, qualora:
a) sia adottato da giudice non legittimato all’esercizio del potere espresso;
b) si ponga in contrasto con le norme ed i principi che regolano l’esercizio del potere medesimo;
c) comporti la regressione del procedimento, al di fuori dei casi in cui è consentito dalla legge, o determini una paralisi dell’attività processuale superabile solo attraverso il compimento di un atto nullo ai sensi degli artt. 178, 179 e 180 del presente codice.
Deve considerarsi non legittimato all’esercizio del potere decisorio o ordinatorio, ai sensi della lettera a) del comma 1, il giudice che adotti il provvedimento nel caso in cui:
a) sia privo di tale potere per disposizione di legge;
b) abbia emesso il provvedimento fuori dai casi consentiti dalla legge;
c) abbia emesso un provvedimento che comporti una deviazione dagli schemi processuali previsti dalla legge;
d) abbia emesso un provvedimento che, pur astrattamente compatibile con gli schemi processuali previsti dalla legge, presenti una finalità da quest’ultima non consentita.
È fatta salva l’applicazione dell’articolo 2, lettera ff), del decreto legislativo 23 febbraio 2006, n. 109, come modificato dalla legge 24 ottobre 2006, n. 269, per la determinazione delle sanzioni disciplinari a carico del giudice che abbia emanato il provvedimento affetto da abnormità che sia stato riconosciuto tale con decisione irrevocabile.
Come si può apprezzare, viene riproposta una schematizzazione delle varie sfumature del vizio, fino a contemplare le varie ipotesi di uso e abuso del potere. Due gli aspetti che richiedono necessariamente alcuni chiarimenti.
In primis, si recupera l’approccio della Di Battista sotto il profilo del riconoscimento della forza dirompente dell’abnormità all’interno del procedimento. Ciò anche per ragioni di opportunità e, per l’appunto, ragionevolezza. La produzione di provvedimento abnorme comporta un’azione conseguente in senso obbligato, nulla o passibile di tale sanzione.
Da ultimo, occorre spiegare il terzo comma della produzione giuridica riportata. La previsione di sanzioni disciplinari a carico del giudice emittente, nelle forme e nei modi di legge, si collega al riconoscimento di un dato di fatto che involge anche il discorso sull’impugnazione del provvedimento abnorme. Pur non essendo questa la sede per approfondire la questione, deve darsi conto di come, in realtà, il procedimento di impugnazione volto a censurare l’abnormità non sia altro che un processo contro un magistrato e che, distanziandosi dalla precedente ottica del ricorso per cassazione omnimode, si deve giungere ad ammettere l’opportunità di modellare l’impugnazione dell’abnormità sulla falsariga di un procedimento che richiede le garanzie di competenza previste dalla legge in tema.