La libertà sindacale: percorso normativo nelle costituzioni pre e post-unitarie

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La libertà sindacale: percorso normativo nelle costituzioni pre e post-unitarie
 

“La storia giuridica della libertà sindacale in Italia è iniziata molto prima che esistesse il sindacato”.[1] Nei principi dell’ideologia borghese ritroviamo il corollario dell’abolizione dell’ordinamento corporativo ed il divieto di qualsiasi organismo intermedio, posto tra lo Stato ed il cittadino.[2] L’art. 399 della Costituzione Napoletana richiama il divieto individuato nella legge Le Chapelier, ove si sancisce l’abolizione di ogni limite alle libertà di iniziativa privata; inoltre, si aboliscono i privilegi, le maestranze e le corporazioni.

È necessario distinguere tra divieto di costituire e di mantenere in vita le corporazioni e la libertà di associazione e riunione. Condorcet sostiene che: “la libertà di associazione, logico corollario del generale diritto di libertà dell’individuo, non può non essere annoverata tra le attribuzioni basilari della persona; utile strumento per migliorare l’esercizio della libertà individuale di opinione e scelta”.[3] Esiste un limite a tale libertà e consiste nel non poter dar vita a corporazioni o associazioni contrarie all’ordine pubblico. Allo stesso modo, lo Stato deve garantire a ciascun cittadino il diritto di riunirsi, ma non si possono costituire riunioni con la partecipazione di lavoratori appartenenti ad un solo mestiere. Le riunioni dei lavoratori che non permettono l’esercizio della libera iniziativa economica rientrano in quelle disposizioni costituzionali che sanzionano lo scioglimento di “ogni attruppamento”.[4] 

Con il passare del tempo il divieto delle Corporazioni si risolve nella criminalizzazione delle coalizioni di lavoratori. Nell’Italia unita le Corporazioni saranno sciolte con la l. 1797 del 1864. Nel codice penale Napoleonico del 1810, l’art. 415 punisce con il carcere da uno a tre mesi ogni accordo tra operai, anche solo tentato o appena alle fasi iniziali, volto “a far cessare o impedire il lavoro in uno stabilimento, oppure a non consentire di trattenervisi prima o dopo un determinato orario, e più in generale a sospendere, impedire o rincarare i lavori”. Tale norma è posta come modello delle successive disposizioni in materia dei regni preunitari.  Il primo codice italiano a recepire tale norma è quello di Maria Luigia nel ducato di Parma e Piacenza nel 1820. 

Pur tuttavia, tale disposizione è più snella della norma francese. Nel medesimo codice, all’art. 482, si punisce “qualunque accordo per parte degli operai, il quale senza ragionevole causa tenda al sospendere, impedire, o rincarare i lavori […], sempreché l’accordo abbia avuto un principio di esecuzione”.[5]

 Nell’art. 481 dello Strafgesetz di Francesco Giuseppe del 1852, vigente nel territorio italiano sottoposto all’Austria, “i concerti fra lavoratori nelle miniere e fucine, fra lavoratori artigiani, fra garzoni, servi […] col rifiutarsi di comune accordo a lavorare” sono sottoposti alla semplice contravvenzione, mentre i “Caporioni” sono puniti con l’arresto da otto giorni a tre mesi. Infine, nei codici penali della penisola non si fa alcun riferimento agli accordi tra operai. Ad esempio, nel codice di Ferdinando I del 1819 nel Regno delle Due Sicilie o in quello di Gregorio XVI del 1832 per lo Stato Pontificio si reprimono solo le forme di associazionismo di tipo politico, che si manifestano come società segrete.                          

Il codice penale, quello del Regno di Sardegna del 1859, esteso dopo l’unificazione in tutta l’Italia (tranne che in Toscana, ove si applica il  più liberale codice di Leopoldo II del 1853) sanziona “tutte le intese degli operai allo scopo di sospendere, ostacolare o far rincarare il lavoro senza ragionevole causa”.[6] Inoltre, nel liberismo puro, l’associazionismo è un ostacolo inammissibile alla libertà di azione nel mercato, ossia nel rapporta tra domanda e offerta nella formazione del salario dei lavoratori.

Tre, dunque, sono le linee direttrici: lo scioglimento delle corporazioni; la libertà di associazione e di riunione, purché conformi all’ordine pubblico; il divieto della coalizione ad agire al fine di mutare le regole di lavoro. L’art. 32 dello Statuto Albertino riconosce “il diritto di adunarsi pacificamente e senz’armi, uniformandosi alle leggi penali che possono regolarne l’esercizio nell’interesse della cosa pubblica”.

Da tale norma si escludono le adunanze in luoghi pubblici, od aperti al pubblico [… ] intieramenti soggetti alle leggi di polizia”. Dunque, lo Statuto si “fermava al riconoscimento esplicito del solo diritto di riunione e non anche di quello di associazione, che nei primi tempi non sempre fu pacificamente ammesso per analogia”.[7] Col passare del tempo il diritto di associazione fu ammesso.[8] 

In realtà lo Statuto aggiunge poco rispetto a ciò che si è formato alla fine del Settecento, poiché sia il diritto di costituire delle associazioni sia il diritto di riunione costituiscono un corollario dei diritti di libertà, a patto di non frapporsi alla libera determinazione individuale o di non turbare l’ordine pubblico. Nasce una forma di repressione, quasi esclusiva, delle associazioni segrete o politicamente sovversive dell’ordine monarchico, poiché considerate repubblicane o socialiste. Ma ben presto si inizia a colpire anche il nascente associazionismo dei lavoratori, poiché ritenuto sovversivo.       

“L’associazionismo operaio si fa strada, in pratica, quasi clandestinamente”.[9]  Nell’Italia del 1864 una legge, la n.1797, dispone lo scioglimento delle corporazioni. “In Italia, quindi, si vietano le corporazioni addirittura settant’anni dopo Le Chapelier, quando nel resto d’Europa ormai si va in senso contrario e i divieti associativi sono man mano rimossi”.[10] Le ragioni che spingono il parlamento a disporre ciò sono varie: si vuole estendere all’Italia intera un divieto posto dalla Regia patente di Carlo Alberto del 14 agosto 1844; inoltre, si vuole colpire alcune e specifiche corporazioni portuali di natura cattolica, poiché troppo invadenti da uno Stato laico.[11] Tale legge mette in evidenza l’esigenza di trasformare le corporazioni in associazioni, liberamente costituibili, purché rispettose dell’ordine pubblico. Fino al 1880 circa, la legislazione liberale si muove, da un lato, manifestando favore nei confronti dell’associazionismo controllato, come quello mutualistico, dall’altro, manifestando opposizione a qualsiasi forma di turbamento collettivo delle condizioni di lavoro.

[1] In “La libertà sindacale nel mondo: nuovi profili e vecchi problemi. In memoria di Giulio Regeni.” Editoriale scientifica. A cura di A. Baylos Grau e L. Zoppoli, Napoli. In specie L. Gaeta, p.  250.

[2] Uno dei primi atti della Rivoluzione francese è la legge Le Chapelier del 1791, che proibisce le corporazioni ed ogni coalizione tra lavoratori, in Gran Bretagna un provvedimento simile è il Combination Act del 1799.

[3] In “La libertà sindacale nel mondo: nuovi profili e vecchi problemi. In memoria di Giulio Regeni.” Editoriale scientifica. A cura di A. Baylos Grau e L. Zoppoli, Napoli. In specie L. Gaeta, p. 252

[4] Per ulteriori approfondimenti si vedano le seguenti disposizioni: “art. 367 Cost. Cisalpina I, art. 361 Cost. Ligure, art 355 Cost. Romana, art. 360 Cost. Cisalpina II, art. 410 Cost. Napoletana”.

[5] La principale innovazione era costituita dalla formula della “ragionevole causa”, ripresa peraltro dall’art. 359 del progetto di codice penale per il Regno Italico, elaborato nel 1809 da una commissione presieduta da Gian Domenico Romagnosi, ma non andato in porto avendo Napoleone alla fine imposto il suo codice”. In “La libertà sindacale nel mondo: nuovi profili e vecchi problemi. In memoria di Giulio Regeni.” Editoriale scientifica. A cura di A. Baylos Grau e L. Zoppoli, Napoli. In specie L. Gaeta, p. 253

[6] Art. 386 cp del Regno di Sardegna del 1859

[7] Pene Vidari, I diritti fondamentali nello Statuto Albertino, in Romano, Enunciazione e giustizi abilità dei diritti nelle carte costituzionali europee, Giuffrè, 1994, p. 62

[8] “Fu ammesso grazie anche al r.d. 26 settembre 1848, n. 796, che, abrogando gli artt. 483-486 del codice penale sardo, aveva abolito – perché “contraddicente allo Statuto Fondamentale” – la necessità di autorizzazioni preventive alla costituzione di associazioni, dando di fatto via libera alla possibilità di costituirne”, In “La libertà sindacale nel mondo: nuovi profili e vecchi problemi. In memoria di Giulio Regeni.” Editoriale scientifica. A cura di A. Baylos Grau e L. Zoppoli, Napoli. In specie L. Gaeta,  p. 255.

[9] “La libertà sindacale nel mondo: nuovi profili e vecchi problemi. In memoria di Giulio Regeni.” Editoriale scientifica. A cura di A. Baylos Grau e L. Zoppoli, Napoli. - L. Gaeta,p.256.

[10] La libertà sindacale nell’ambito della più generale libertà di associazione. L’esperienza di sei paesi a confronto. Napoli. Edizioni Scientifiche Italiane, 1988

[11] Si ricordi che nel momento in cui fu emanata tale legge, Roma era sottoposta al governo del papa re e lo sarà fino alla breccia di Porta Pia del 20 settembre 1870; innumerevoli furono le leggi emanate dallo stato italiano al fine di ridimensionare, sotto ogni aspetto, il ruolo dello Stato pontificio.