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L’hate speech: figlio dell’indifferenza

Liliana Segre
Liliana Segre

Abstract

L’articolo, partendo dall’istituenda Commissione “Segre” pone in esame il fenomeno dei discorsi razziali (o hate speech). In particolare si rilevano le difficoltà nel perseguire giuridicamente tali casi perché considerati come espressione della libertà di pensiero. In realtà costituiscono anello di una catena che porta alla commissione di atti di violenza e di discriminazione.

The article analyzes the phenomenon of hate speech. Do hate speeches represent a manifestation of freedom of thought or do they cause damage and violence? Can the law do something?

 

Indice:

Introduzione

L’analisi del fenomeno dei discorsi razziali

Come lottare contro l’hate speech

L'indifferenza è più colpevole della violenza stessa.

                                                                                                            È l'apatia morale di chi si volta

dall'altra parte: succede anche oggi

verso il razzismo e altri orrori del mondo.

La memoria vale proprio come vaccino contro l'indifferenza.

Liliana Segre

 

 

1. Introduzione

Ci sono valori, la persona in questo caso, che mantengono sempre lo stesso peso specifico: che non varia a seconda di chi ne parla; che non può essere accresciuto o diminuito a seconda che si tratti di un connazionale o di uno straniero, magari proveniente da un paese povero; che la persona sia amica o nemica, ideologicamente consonante o dissonante. Invece accade ancora, in casa, in Italia.
Ci sono mancate prese di posizione che uccidono: la verità in primis, ma anche la storia, la libertà, l’uguale dignità di ogni uomo che nasce e cammina su questa condivisa terra. E, quando avvengono all’interno delle istituzioni più alte dello Stato, come il Senato è, lo feriscono gravemente.

La mozione che ha visto come prima firmataria la senatrice a vita Liliana Segre sull’istituzione di una “Commissione straordinaria per il contrasto dei fenomeni di intolleranza, razzismo, antisemitismo e istigazione all’odio e alla violenza” è passata con 151 voti, ma tuona il silenzio dei 98 senatori astenuti, un terzo, tutti di una parte politica, il centro destra.

L’astensione è stata figlia di un pensiero diverso, ossia della non condivisione di una Commissione che vegli su razzismo, antisemitismo, istigazione all’odio e alla violenza, in quanto potrebbe risultare strumento limitativo della libertà d’espressione, di quel diritto umano e costituzionalmente sancito dall’articolo 21 (“Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto ed ogni altro mezzo di diffusione, vietando però, […] le manifestazioni contrarie al buon costume) e denunciandone, quindi, il pericolo “censorio”.

Secondo alcuni sarebbe sufficiente, per la lotta a questi fenomeni, la vigente legge “Mancino[1] (legge del 1993 n. 205) ad oggi il principale strumento legislativo che l'ordinamento italiano offre per la repressione dei crimini d'odio.

Ma le disposizioni della legge si applicano solo in caso di “propaganda d’idee fondate sulla superiorità o sull'odio razziale o etnico, ovvero istiga a commettere o commette atti di discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi”.

Il fenomeno attuale e oggetto dello studio da parte della Commissione speciale, risulta essere invece più preoccupante perché più nascosto, divenendo anticamera di un manifesto odio razziale o istigazione a commettere atti di discriminazione e molto spesso ridotto, banalmente, ad una semplice battuta: il discorso razziale (o hate speech).

 

2. L’analisi del fenomeno dei discorsi razziali

Un discorso razzista si può interpretare come un discorso finalizzato a promuovere odio nei confronti di certi individui o gruppi, impiegando epiteti che denotano disprezzo nei confronti di quel gruppo a causa della sua connotazione razziale, etnica, religiosa, culturale o di genere. Estendendo il significato, si può ricomprendere qualsiasi atto configurante un’istanza di comunicazione espressiva, tra cui ad esempio l’ostentazione di particolari simboli, o il tenere un comportamento comunicativo che veicoli, in maniera non verbale, un messaggio del tenore sopra indicato.

A complicare ulteriormente la nozione di linguaggio dell’odio contribuisce il suo corrente riferimento sia ai discorsi che contengono e/o esprimono i sentimenti di disprezzo del locutore verso certe categorie di persone, sia a quelli che vengono giudicati “odiosi” da chi ascolta, nel senso di deplorevoli e spregevoli, anche indipendentemente dallo stato mentale ed emotivo e dalle intenzioni comunicative di chi li ha espressi. Si pensi al tale che dica che gli omosessuali sono persone malate provando per essi una genuina compassione, a quello che affermi che alle donne “piace esser prese con la forza” pur avendo tutt’altro che in odio il genere femminile, a chi creda sul serio che i neri siano meno intelligenti dei bianchi e sostenga che perciò essi necessitano di speciali tutele giuridiche, o al negazionista sinceramente convinto che i resoconti sulla Shoah siano troppo atroci per essere veri. Inoltre, negli ultimi anni i problemi maggiori sono determinati da quelle forme di discorso razzista che non producono un danno diretto, ma conseguenze più sottili e indirette.

A questo proposito, un argomento ricorrente è che in questi casi non verrebbe prodotto un danno, ma qualcosa di più inconsistente, come un’offesa, una forma di fastidio o di disgusto, una reazione indignata derivante dalla consapevolezza che esistono opinioni diverse ed eventualmente repellente, asserendo, quindi, che si tratta di una legittima manifestazione della libertà del pensiero. Tutto ciò ha una strategia ben precisa: il danno rappresenta una lesione d’interesse verso cui è giustificata la risposta del diritto, l’offesa, invece, determina una serie di stati mentali a cui però non è possibile applicare una sanzione.

Far giungere quotidianamente il proprio messaggio d’odio, non punibile perché offensivo e non dannoso, determina due risultati: la sicurezza di non essere perseguiti giuridicamente e la garanzia che gli effetti di quelle parole si radichino nelle persone che credono di esprimere semplicemente la propria opinione.

Il discorso razzista crea il danno ed è costitutivo di una forma di classismo sociale. Il classismo genera, per natura, discriminazione che trova la propria radice nel variegato universo dei discorsi razzisti, i quali ultimi a loro volta diventano tanto più aggressivi e lesivi se circolano in un ambiente già ben disposto a dare credito alle idee di subordinazione tra gruppi sociali. Si deduce, dunque, che per affermare che il discorso razzista abbia effettivamente l’effetto di creare o legittimare un rapporto di subordinazione sociale su basi razziali occorre che tale discorso provenga da una fonte riconosciuta come autoritativa nella società, e che sia condiviso dalla società nel suo complesso, o almeno da una sua significativa maggioranza.

Risulta, inoltre, evidente che il fattore dell’indifferenza (di molti) alimenta questo clima. perché, ricollegandomi al ragionamento iniziale, i danni non sono necessariamente o direttamente legati ad atti di violenza fisica ma sono, piuttosto, danni prodotti da parole che sono purtroppo meno suscettibili di una reazione da parte non solo della giustizia ma anche dell’opinione pubblica. Il discorso razzista, infatti, può indurre nelle sue vittime depressione, profonda disistima di sé, impossibilità di frequentare determinati luoghi per paura di incorrere in esperienze umilianti. Nella dimensione individuale ciò determina un danno giuridicamente perseguibile (il “danno esistenziale o morale” ampliamente dibattuto dalla giurisprudenza a partire dall’articolo 2059 del Codice civile).

Sul piano sociale il discorso razzista produce danni su individui determinati, trattando certe persone come bersaglio continuo di odio e di disprezzo, agevolando e legittimando la commissione di atti di violenza e di aggressione nei confronti di quelle persone. L’effetto sociale del linguaggio dell’odio porterebbe gli individui colpiti a sentirsi isolati in un ambiente sempre più ostile o quantomeno di diffidenza nei loro confronti, ponendoli in una situazione più faticosa affinché la loro voce possa essere ascoltata e presa sul serio nell’arena pubblica. Non solo, ma in un contesto del genere essi sono indotti al silenzio per paura che agli insulti razzisti seguano aggressioni fisiche.

 

3. Come lottare contro l’hate speech

Attualmente il linguaggio d’odio risulta essere uno dei fenomeni maggiormente problematici soprattutto perché non circoscritto, dal momento che l’utilizzo costante dei social media e dei social network permette a tutti di esprimere tutto generando una difficoltà nella distinzione tra danno determinato da un insulto e opinione costruttiva.

Dinanzi a ciò si vorrebbe che il diritto facesse qualcosa al riguardo. Tuttavia le possibili soluzioni giuridiche sono altamente controverse, e sono dipendenti dal contesto (storico, sociale) di riferimento; inoltre, richiedono inevitabilmente qualche tipo di limitazione di un bene prezioso come la libertà di espressione. I casi che sicuramente meritano una repressione giuridica sono quelli in cui il discorso razzista si attua tramite insulti diretti, o comunque con condotte comunicative che hanno come conseguenza atti di violenza (intesi questi sia come istigazione a commettere atti di violenza verso le vittime del discorso razzista, sia come reazioni violente delle vittime del discorso razzista): in questi casi si può ritenere soddisfatto il principio del danno con la relativa sanzione. Ma l’intervento giuridico non ha solo una forma repressiva e sanzionatoria.

La sanzione potrebbe (il condizionale è d’obbligo) solo limitare e gestire il sintomo. Norberto Bobbio, infatti, parlava della funzione “promozionale” del diritto: le campagne di sensibilizzazione, lo studio dettagliato della storia e dell’educazione civica, una politica dell’inclusione. Strumenti, dunque, che permetterebbero di combattere dal principio questo fenomeno.

La Commissione  straordinaria per il contrasto dei fenomeni di intolleranza, razzismo, antisemitismo e istigazione all’odio e alla violenza (che sarà costituita da 25 senatori e presieduta, si spera, dalla senatrice a vita) è stata istituita per questo fine. Studiare il fenomeno dell’hate speech, svolgere un importante ruolo di stimolo. Potrà infatti controllare e sollecitare l’attuazione delle leggi e delle convenzioni relativi ai fenomeni di intolleranza, e promuovere iniziative e campagne di sensibilizzazione sia a livello nazionale che internazionale.

E, naturalmente, la stessa figura di garanzia della senatrice Liliana Segre, vittima ancora oggi dell’odio, servirà a sottolineare l’autorità e l’influenza della Commissione. Autorità e influenza che sono necessarie per vincere l’indifferenza; “tutto comincia da quella parola. Gli orrori di ieri, di oggi e di domani fioriscono all’ombra di quella parola […] perché quando credi che una cosa non ti tocchi, non ti riguardi, allora non c’è limite all’orrore” (Mentana E., Segre L., La memoria rende liberi. La vita interrotta di una bambina della Shoah, BUR Rizzoli, 2018).

[1] La "legge Mancino" si colloca all'interno di un complessivo quadro normativo volto a sanzionare le condotte riconducibili al fascismo e al razzismo. Le principali fonti normative al riguardo sono le seguenti:

  1. la XII Disposizione transitoria e finale della Costituzione della Repubblica Italiana, al primo comma, stabilisce che "È vietata la riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista";
  2. in attuazione della predetta Disposizione, la Legge 20 giugno 1952, n. 645, in materia di "Norme di attuazione della XII disposizione transitoria e finale (comma primo) della Costituzione", all'art. 1, precisa che si ha riorganizzazione del disciolto partito fascista quando una associazione, un movimento o comunque un gruppo di persone non inferiore a cinque persegue finalità antidemocratiche proprie del partito fascista:
  • esaltando, minacciando o usando la violenza quale metodo di lotta politica,
  • propugnando la soppressione delle libertà garantite dalla Costituzione,
  • denigrando la democrazia, le sue istituzioni e i valori della Resistenza,
  • svolgendo propaganda razzista,
  • ovvero rivolge la sua attività alla esaltazione di esponenti, principi, fatti e metodi propri del predetto partito,
  • compie manifestazioni esteriori di carattere fascista;
  1. la Convenzione internazionale sulla eliminazione di tutte le forme di discriminazione razziale, aperta alla firma a New York il 7 marzo 1966, è stata recepita dall'ordinamento italiano con legge 13 ottobre 1975, n. 654.