L’inesigibilità dell’adozione e dell’attuazione del modello organizzativo
In altri termini: quid iuris se l’ente non ha adottato o non ha attuato il modello organizzativo per fatti e circostanze non riconducibili ad una sua “colpevole inerzia”, ma ad impedimenti oggettivi ed insuperabili?
Gli esempi possono essere molteplici:
- il fatto di reato è stato commesso poco tempo dopo l’entrata in vigore del reato-presupposto e l’ente non ha avuto nemmeno il tempo di deliberare sull’adozione del Modello;
- l’ente tempestivamente si è adoperato per aggiornare il modello, ma il fatto di reato si è comunque verificato prima dell’adozione formale dello stesso;
- il fatto di reato si è verificato dopo l’adozione formale del modello, ma entro un lasso di tempo tale da non potersi, seriamente, parlare di effettiva attuazione del modello stesso (la quale, come è noto, richiede flussi informativi, formazione del personale, audit, applicazione del sistema disciplinare ecc.)
Tutte queste situazioni – che non si possono nemmeno definire “casi-limite” – sono caratterizzate dalla mancanza formale o sostanziale del modello: da tale mancanza deriva l’impossibilità per l’ente di usufruire dell’esenzione di responsabilità.
L’istituto dell’inesigibilità: l’aggiornamento di una vecchia questione?
Secondo l’elaborazione dottrinale l’inesigibilità indica quella particolare situazione, in base alla quale un soggetto, per cause indipendenti dalla propria volontà, si trova nell’impossibilità assoluta di ottemperare ad un determinato precetto normativo.
La nozione in esame ha trovato ampia elaborazione nell’ambito della dottrina civilistica, relativamente alla problematica dell’adempimento delle obbligazioni.
Nel rapporto obbligatorio, infatti, il rigore delle conseguenze collegate all’inadempimento è mitigato dal principio secondo cui ad impossibilia nemo tenetur, principio che evidenzia l’esigenza di adeguare il diritto alla realtà effettiva (Giacobbe).
La dottrina penalistica tradizionale qualifica l’inesigibilità quale causa (extralegale) di esclusione della colpevolezza.
In particolare, si sottolinea che essa non esclude l’antigiuridicità del fatto, quanto piuttosto la rimproverabilità del comportamento criminoso al soggetto: di conseguenza, verrebbe meno l’esigenza di applicare la sanzione, in quanto non può essere formulato un giudizio di riprovevolezza nei confronti del soggetto autore del comportamento.
È interessante notare come la giurisprudenza abbia fatto talvolta ricorso al principio di inesigibilità per temperare il rigore delle norme, quando, per specifiche circostanze concrete, l’applicazione della sanzione penale non appariva equa.
Così, ad esempio, in una sentenza di merito si è esclusa la configurabilità del reato di associazione per delinquere di tipo mafioso in una fattispecie nella quale alcuni imprenditori si sono trovati a svolgere la propria attività in una zona ad alta densità mafiosa.
È stata, altresì, esclusa l’ipotesi di reato nei confronti di un sindaco che aveva gestito una discarica di rifiuti solidi urbani in assenza dell’autorizzazione regionale (Giacobbe).
In tali fattispecie il giudizio di non colpevolezza ha trovato fondamento nella considerazione che, in entrambe le ipotesi, il soggetto non si era liberamente determinato a porre in essere il comportamento delittuoso, ma vi era stato “costretto dalle circostanze”.
Parte della giurisprudenza e della dottrina - pur nella consapevolezza della mancanza, nel nostro ordinamento, di un espresso riferimento normativo all’istituto dell’inesigibilità - ne individua il fondamento nella previsione dello stato di necessità (articolo 54 Codice Penale).
La prevalente giurisprudenza manifesta, invece, un atteggiamento di chiusura:
“Il principio della non esigibilita` di una condotta diversa - sia che lo si voglia ricollegare alla ratio della colpevolezza riferendolo ai casi in cui l’agente operi in condizioni soggettive tali da non potersi da lui “umanamente” pretendere un comportamento diverso, sia che lo si voglia ricollegare alla ratio dell’antigiuridicità riferendolo a situazioni in cui non sembri coerente ravvisare un dovere giuridico dell’agente di uniformare la condotta al precetto penale - non può trovare collocazione e spazio al di fuori delle cause di giustificazione e delle cause di esclusione della colpevolezza espressamente codificate, in quanto le condizioni e i limiti di applicazione delle norme penali sono posti dalle norme stesse senza che sia consentito al giudice di ricercare cause ultralegali di esclusione della punibilità attraverso l’analogia juris (Cass. sez. VI, 31 maggio 1993, n. 973, PM in proc. Bove)”.
La visione più moderna dell’inesigibilità
La dottrina che ha approfondito l’argomento (Fornasari, Il principio di inesigibilità nel diritto penale, Padova, 1990) è pervenuta alle seguenti conclusioni:
1. la visione più moderna dell’inesigibilità ne evidenzia la natura di “strumento di delimitazione dei doveri giuridici incombenti sui consociati”: in altri termini, il legislatore può esprimere fino ad un certo punto il giudizio di disvalore su una determinata condotta (in astratto) e deve rinunciare ad un ulteriore approfondimento, affidando al giudice l’onere della concreta delimitazione della latitudine degli obblighi di azione o di astensione imposti dalla legge in riferimento alle particolari circostanze del caso sottoposto al giudizio;
2. l’operatività dell’istituto in questione si confronta con l’altro principio fondamentale della certezza del diritto e determinatezza della fattispecie: si ricorre all’inesigibilità quando, per circostanze eccezionali, risulta problematica una perfetta sovrapposizione tra fattispecie normativa e fattispecie reale (quaestio iuris e quaestio facti);
3. i criteri di concretizzazione del comportamento esigibile devono afferire ai requisiti di una specifica condotta, relazionata alla specifica situazione di fatto in cui essa si è verificata
4. secondo alcune posizioni il principio della inesigibilità è di rilevanza costituzionale (ai sensi dell’articolo 27 comma 3 Costituzione: Fiorella). Secondo Vassalli “se dunque la colpevolezza è in ogni sua forma esigibilità di un comportamento diverso, non si riesce a comprendere come un comportamento in concreto inesigibile possa essere considerato colpevole e fonte di punizione”.
I valori costituzionali in gioco
Ad avviso di chi scrive l’esclusione dell’esimente in ipotesi caratterizzate da incolpevole omessa adozione/attuazione del modello organizzativo presta il fianco a serie censure di incostituzionalità, concernenti la violazione della presunzione di non colpevolezza, del principio di colpevolezza, del principio di uguaglianza e del diritto di difesa.
Procediamo con ordine.
Come è stato puntualmente affermato, l’onere della prova della colpevolezza dell’imputato è il “precipitato tecnico” della presunzione di non colpevolezza di cui all’articolo 27 comma 2 Costituzione (Paulesu).
Secondo la migliore dottrina, gravare l’imputato di oneri probatori non è di per sé incostituzionale, se però l’esercizio di tali oneri è effettivo.
Nelle ipotesi sopra indicate – vale a dire in caso di impossibilità oggettiva di adottare/attuare il modello - l’inversione dell’onere della prova potrebbe essere ritenuta incostituzionale in quanto sostanzialmente coincidente con una presunzione assoluta ed insuperabile di colpevolezza.
Nelle situazioni menzionate la possibilità di prova contraria da parte dell’ente è radicalmente insussistente.
In secondo luogo consentire l’affermazione di responsabilità (per colpa organizzativa) di un ente in situazioni caratterizzate dall’impossibilità oggettiva di adozione dei modelli significherebbe violare il principio di responsabilità per fatto proprio colpevole sancito dall’articolo 27 comma 1 Costituzione, secondo l’interpretazione fornitane da parte della Corte Costituzionale.
Inoltre potrebbe profilarsi pure la lesione del diritto di difesa ex articolo 24 comma 2 Costituzione in quanto nel procedimento l’ente non avrebbe alcuna chance di dimostrare di non aver potuto adottare il modello: in altri termini il Decreto Legislativo 231 offrirebbe, in certe situazioni, una falsa possibilità di “difendersi provando”.
Infine si potrebbe rilevare pure una violazione del principio di ragionevolezza delle scelte punitive (il quale trova fondamento nell’articolo 3 Costituzione) laddove si considerassero allo stesso modo – sanzionandole – due società, entrambe prive dei modelli, ma una solo delle due per propria colpa.
In breve: nella categoria generale delle condotte “mancata adozione modello” ce ne sono alcune che per circostanze eccezionali non assurgono alla medesima gravità di altre che non hanno incontrato tali circostanze.
In un processo ex Decreto Legislativo 231 potrebbe essere eccepita o rilevata d’ufficio l’illegittimità costituzionale degli articoli 6 e 7:
- per contrasto con l’articolo 27 comma 1 Costituzione, nella parte in cui non prevedono che l’ente possa andare esente da responsabilità nelle ipotesi in cui, per impossibilità oggettiva, non abbia adottato ed attuato il modello organizzativo;
- per contrasto con l’articolo 27 comma 2 Costituzione, nella parte in cui sanciscono una presunzione assoluta di responsabilità laddove l’ente non possa dimostrare di aver adottato e attuato il modello nelle ipotesi di impossibilità oggettiva;
- per contrasto con l’articolo 24 comma 2 Costituzione, nella parte in cui non consente all’ente di difendersi dimostrando di essere stato nell’impossibilità oggettiva di adottare il modello organizzativo;
- per contrasto con l’articolo 3 Costituzione, nella parte in cui non distingue, ai fini del riconoscimento dell’esimente, tra ente che non abbia adottato e attuato il modello per fatto proprio colpevole ed ente che non abbia adottato il modello per impossibilità oggettiva.
Alcune precisazioni
Incide sulla tematica in esame la qualificazione della natura della responsabilità dell’ente?
Non v’è dubbio che la tensione con i principi costituzionali menzionati sarebbe evidente ove si ritenesse la stessa una responsabilità penale vera e propria; non così in caso di ricostruzione nel senso della natura amministrativa della responsabilità de qua.
La questione meriterebbe altro approfondimento, ma, in ogni caso, è sufficientemente pacifico che i principi costituzionali di garanzia si applicano alla “materia punitiva” (quale sicuramente è quella ex Decreto Legislativo 231), anche se non strettamente penale.
Incide sulla tematica in esame la qualificazione del (la mancata adozione/attuazione del) modello come fatto costitutivo dell’illecito dell’ente o come elemento impeditivo della responsabilità dello stesso?
La dottrina più attenta ha evidenziato come l’inesigibilità può incidere sul fatto tipico (nella teorica del reato omissivo): in breve, può verificarsi “un’anomalia nella situazione di fatto” che diventa un ostacolo rilevante quando si è tenuti ad un certo comportamento (Fornasari).
L’inesigibilità, inoltre, può rilevare nell’ambito della colpevolezza.
Il dovere di diligenza che fonda il reato colposo si scinde in due aspetti: dal lato oggettivo esso deve considerarsi violato già quando non si rispetta una regola generalizzata valida per un certo tipo di agente; da quello soggettivo esso è invece violato in quanto non si sia in presenza di particolari condizioni che, ad illecito già integrato, escludono la colpevolezza perché consentono di variare (verso il basso) la misura di diligenza normalmente richiesta.
L’esigibilità può concorrere, pertanto, a delimitare il dovere di diligenza nel suo aspetto soggettivo, precisando meglio la struttura della colpa (Fornasari).
Incide sulla tematica in esame la circostanza che l’adozione del modello non è obbligatoria?
Sul punto specifico ha avuto modo di soffermarsi l’ordinanza cautelare emessa da Tribunale Napoli, G.I.P. Saraceno, 26 giugno 2007, di cui si riportano testualmente i passi rilevanti:
1. “Tutti i modelli, inoltre, risultano intempestivi sotto il profilo della loro adozione, siccome di molto successivi al dies a quo della condotta delittuosa presupposta, rilevante ai fini della responsabilità amministrativa e in corso di esecuzione sin dalla seconda metà dell’anno 2001”.
2. “Priva di pregio è, infatti, l’argomentazione sviluppata dalla difesa, con cui si sostiene che sarebbe astrattamente ipotizzabile una responsabilità delle indagate solo a partire dall’adozione dei rispettivi modelli di organizzazione, non essendo concretamente esigibile nei loro confronti una maggiore tempestività di quella dimostrata, avuto riguardo ai necessari tempi tecnici per l’elaborazione dei codici e per il loro iniziale necessario rodaggio”. Benchè il decreto legislativo non contenga alcuna disposizione che individui un termine entro il quale consentire agli enti di uniformarsi alle nuove disposizioni, dotandosi dei rispettivi modelli, ragioni di ordine logico ed alcuni testuali spunti normativi, dovrebbero precludere la possibilità di fondare l’imputabilità dell’impresa sulla mancata adozione di modelli quando fosse dimostrabile che la mancata adozione non sia dipesa da colpa, ma da oggettiva impossibilità.
3. “In difetto di una testuale ed esplicita previsione, appare opinabile ricorrere a "ragioni di buon senso" per colmare l’asserita lacuna del dato normativo con il rischio di un pericoloso relativismo nell’individuazione del termine di c.d. tolleranza, della cui determinazione, peraltro, dovrebbe farsi carico, di volta in volta, il Giudice chiamato a valutare l’esigibilità di comportamenti più tempestivi di quelli in concreto adottati”.
4. “Ma soprattutto sfugge che il legislatore, pur avendo inteso ancorare il rimprovero dell’ente alla mancata adozione ovvero al mancato rispetto di standards doverosi e, dunque, a motivarlo all’osservanza degli stessi, non ha previsto il modello organizzativo come adempimento obbligatorio, al quale l’ente sia sempre e comunque tenuto, ma come mero onere che l’ente stesso ha interesse ad assolvere per prevenire e paralizzare gli effetti della commissione di reati da parte delle persone fisiche che agiscono al suo interno. Trattandosi di onere che la persona giuridica è portata ad assolvere nel suo stesso interesse e non in adempimento di un obbligo normativo, è del tutto ragionevole la mancata previsione di un termine di c.d. tolleranza per consentire alle imprese di tenere un comportamento, del tutto libero, viceversa, sia nel an che nel quando”.
Ad avviso di chi scrive, la circostanza che l’adozione del modello sia un onere per evitare l’ascrizione di responsabilità non inficia quanto fino ad ora sostenuto.
Non sembra “giusta” una legge che consente, sulla carta, una via d’uscita all’ente, ma poi non tiene conto che in certe circostanze – non imputabili all’ente - quella via è a priori sbarrata.
Non appare risolutiva l’obiezione secondo la quale spetterebbe, di volta in volta, al giudice individuare il periodo di tolleranza, con la possibilità di “arbitrio interpretativo”.
A ben vedere, non dovrebbe trattarsi di una mera individuazione temporale, ma del prudente apprezzamento delle ragioni che hanno reso inesigibile – non semplicemente difficile – l’adozione preventiva del modello (o la sua effettiva attuazione).
E’ appena il caso di aggiungere che tale prova dovrà essere particolarmente rigorosa, per evitare tentativi di elusione.
Restiamo ancora dal lato del giudicante.
Di fronte alla commissione di un reato-presupposto e all’assenza formale di un modello, il giudice non potrebbe far altro che ritenere integrato il criterio soggettivo di imputazione ex articoli 6 e 7, anche se accertasse univocamente la diligenza e la tempestività della società?
E’ proprio in questi casi che potrebbe essere sollevata questione di illegittimità costituzionale.
Nelle situazioni in cui il giudice si trova impossibilitato, in virtù del tenore testuale del Decreto Legislativo 231, a dichiarare l’esenzione di responsabilità per mancanza del modello non dovuta a colpa dell’ente, ben potrebbe (anzi dovrebbe) ritenere la questione rilevante e non manifestamente infondata e rimetterla alla Corte costituzionale.
Il dictum della Corte potrebbe essere di natura additiva, sancendo l’incostituzionalità degli articoli 6 e 7 Decreto Legislativo 231 nella parte in cui non prevedono che l’ente non risponde nelle ipotesi di omessa adozione/attuazione del modello organizzativo dovuta ad impossibilità oggettiva.
La definizione giudiziale di condotta inesigibile
Quali parametri utilizza il giudice per definire una condotta come esigibile o meno?
Innanzitutto deve esaminare la rilevanza dell’anomalia della situazione di fatto e, pertanto, dei motivi per cui il soggetto non ha tenuto il comportamento doveroso.
Deve poi accertare l’esistenza di un determinato grado di proporzionalità tra gli interessi in gioco (quelli tutelati dalla norma e quelli eccepiti dall’interessato).
Riassuntivamente il giudice dovrà valutare:
- la tempestività dell’ente nell’attivarsi per valutare l’adozione del modello (o il suo aggiornamento ad nuove fattispecie di reato);
- la tempestività dell’adozione vera e propria;
- la tempestività e l’impegno profuso dall’ente nel mettere in opera (id est: attuare effettivamente) il modello adottato;
- il tempo trascorso dall’entrata in vigore del reato presupposto per cui è processo;
- eventuali circostanze che hanno impedito l’adozione del modello.
Non va infine dimenticato che il concetto di impossibilità oggettiva del comportamento omesso deve essere riferito ad un comportamento di una persona giuridica, che agisce per il tramite di più persone fisiche e attraverso sistemi decisionali e operativi articolati temporalmente e spesso anche logisticamente.
Un ulteriore profilo di irragionevolezza del sistema dei modelli organizzativi
Sotto altro profilo si è evidenziata una possibile lesione del principio di ragionevolezza (rilevante ex articolo 3 Costituzione) nel sanzionare una società priva del modello anche in casi in cui l’accertamento dei fatti dimostri che nessun modello avrebbe impedito il reato verificatosi.
“La lettera c) dell’articolo 6-1°co. Decreto Legislativo n.231/01 prevede infatti che i modelli siano stati aggirati dall’amministratore infedele ed è ovvio che la prova di ciò non la si può fornire se i modelli non erano stati adottati; ma, portando avanti il ragionamento su questi binari, si può porre l’ipotesi (tutt’altro che estrema nella pratica) di una società sprovvista dei modelli ove però appare chiaro (per il contesto e le modalità concrete di commissione del reato) che nessun sistema di prevenzione interno avrebbe potuto impedire all’amministratore di commettere il reato (si pensi al caso che costui negozi fuori dagli uffici della società una tangente con un pubblico ufficiale in grado di far vincere una gara d’appalto alla società e che ne paghi il prezzo attingendo da proprie disponibilità, ad es. dando in pagamento il proprio orologio d’oro). In casi simili non c’è modello organizzativo/controllo che tenga e sostenere il contrario vuol dire fare dell’ipocrisia giuridica; però la ricaduta, sul piano della responsabilità per la società, è disastrosa: non avendo essa adottato alcun modello organizzativo non potrà fornire la prova liberatoria per scagionarsi” (Bronzini e Vitali).
Ad avviso degli Autori questa situazione, se non ci fosse la previsione normativa dell’art.6, sarebbe facilmente risolubile in termini di esclusione della responsabilità dell’ente proprio attingendo ai principi del rapporto di causalità: “siccome non esiste modello/procedura/protocollo operativo in grado di impedire che un amministratore paghi una tangente consegnando il proprio orologio d’oro o i gioielli della moglie, se anche la società si fosse dotata del miglior modello/procedura/protocollo astrattamente possibile, l’evento (ossia la corruzione) si sarebbe ugualmente verificato e dunque sanzionare l’ente ai sensi del Decreto Legislativo 231/01 per la sola colpa di organizzazione -sebbene essa non abbia avuto alcuna incidenza causale sulla commissione del reato presupposto - equivale a condannare penalmente il medico che - se anche si fosse attenuto alle linee guida ospedaliere - comunque non avrebbe salvato la vita al paziente” (Bronzini e Vitali).
Si concretizza in tal modo, paradossalmente, proprio quel rischio di responsabilità oggettiva, al fine di scongiurare il quale il legislatore delegato opera preliminarmente la scelta di normativizzare la colpevolezza dell’ente (De Vero).
Sulla questione della rilevanza del c.d. comportamento alternativo lecito si è soffermato pure chi ricorda la tendenza giurisprudenziale a statuire una (inaccettabile) inversione dell’onere della prova supponendo una presunzione relativa che l’evento non si sarebbe verificato in presenza della cautela doverosa omessa (Lunghini).
In altri termini: quid iuris se l’ente non ha adottato o non ha attuato il modello organizzativo per fatti e circostanze non riconducibili ad una sua “colpevole inerzia”, ma ad impedimenti oggettivi ed insuperabili?
Gli esempi possono essere molteplici:
- il fatto di reato è stato commesso poco tempo dopo l’entrata in vigore del reato-presupposto e l’ente non ha avuto nemmeno il tempo di deliberare sull’adozione del Modello;
- l’ente tempestivamente si è adoperato per aggiornare il modello, ma il fatto di reato si è comunque verificato prima dell’adozione formale dello stesso;
- il fatto di reato si è verificato dopo l’adozione formale del modello, ma entro un lasso di tempo tale da non potersi, seriamente, parlare di effettiva attuazione del modello stesso (la quale, come è noto, richiede flussi informativi, formazione del personale, audit, applicazione del sistema disciplinare ecc.)
Tutte queste situazioni – che non si possono nemmeno definire “casi-limite” – sono caratterizzate dalla mancanza formale o sostanziale del modello: da tale mancanza deriva l’impossibilità per l’ente di usufruire dell’esenzione di responsabilità.
L’istituto dell’inesigibilità: l’aggiornamento di una vecchia questione?
Secondo l’elaborazione dottrinale l’inesigibilità indica quella particolare situazione, in base alla quale un soggetto, per cause indipendenti dalla propria volontà, si trova nell’impossibilità assoluta di ottemperare ad un determinato precetto normativo.
La nozione in esame ha trovato ampia elaborazione nell’ambito della dottrina civilistica, relativamente alla problematica dell’adempimento delle obbligazioni.
Nel rapporto obbligatorio, infatti, il rigore delle conseguenze collegate all’inadempimento è mitigato dal principio secondo cui ad impossibilia nemo tenetur, principio che evidenzia l’esigenza di adeguare il diritto alla realtà effettiva (Giacobbe).
La dottrina penalistica tradizionale qualifica l’inesigibilità quale causa (extralegale) di esclusione della colpevolezza.
In particolare, si sottolinea che essa non esclude l’antigiuridicità del fatto, quanto piuttosto la rimproverabilità del comportamento criminoso al soggetto: di conseguenza, verrebbe meno l’esigenza di applicare la sanzione, in quanto non può essere formulato un giudizio di riprovevolezza nei confronti del soggetto autore del comportamento.
È interessante notare come la giurisprudenza abbia fatto talvolta ricorso al principio di inesigibilità per temperare il rigore delle norme, quando, per specifiche circostanze concrete, l’applicazione della sanzione penale non appariva equa.
Così, ad esempio, in una sentenza di merito si è esclusa la configurabilità del reato di associazione per delinquere di tipo mafioso in una fattispecie nella quale alcuni imprenditori si sono trovati a svolgere la propria attività in una zona ad alta densità mafiosa.
È stata, altresì, esclusa l’ipotesi di reato nei confronti di un sindaco che aveva gestito una discarica di rifiuti solidi urbani in assenza dell’autorizzazione regionale (Giacobbe).
In tali fattispecie il giudizio di non colpevolezza ha trovato fondamento nella considerazione che, in entrambe le ipotesi, il soggetto non si era liberamente determinato a porre in essere il comportamento delittuoso, ma vi era stato “costretto dalle circostanze”.
Parte della giurisprudenza e della dottrina - pur nella consapevolezza della mancanza, nel nostro ordinamento, di un espresso riferimento normativo all’istituto dell’inesigibilità - ne individua il fondamento nella previsione dello stato di necessità (articolo 54 Codice Penale).
La prevalente giurisprudenza manifesta, invece, un atteggiamento di chiusura:
“Il principio della non esigibilita` di una condotta diversa - sia che lo si voglia ricollegare alla ratio della colpevolezza riferendolo ai casi in cui l’agente operi in condizioni soggettive tali da non potersi da lui “umanamente” pretendere un comportamento diverso, sia che lo si voglia ricollegare alla ratio dell’antigiuridicità riferendolo a situazioni in cui non sembri coerente ravvisare un dovere giuridico dell’agente di uniformare la condotta al precetto penale - non può trovare collocazione e spazio al di fuori delle cause di giustificazione e delle cause di esclusione della colpevolezza espressamente codificate, in quanto le condizioni e i limiti di applicazione delle norme penali sono posti dalle norme stesse senza che sia consentito al giudice di ricercare cause ultralegali di esclusione della punibilità attraverso l’analogia juris (Cass. sez. VI, 31 maggio 1993, n. 973, PM in proc. Bove)”.
La visione più moderna dell’inesigibilità
La dottrina che ha approfondito l’argomento (Fornasari, Il principio di inesigibilità nel diritto penale, Padova, 1990) è pervenuta alle seguenti conclusioni:
1. la visione più moderna dell’inesigibilità ne evidenzia la natura di “strumento di delimitazione dei doveri giuridici incombenti sui consociati”: in altri termini, il legislatore può esprimere fino ad un certo punto il giudizio di disvalore su una determinata condotta (in astratto) e deve rinunciare ad un ulteriore approfondimento, affidando al giudice l’onere della concreta delimitazione della latitudine degli obblighi di azione o di astensione imposti dalla legge in riferimento alle particolari circostanze del caso sottoposto al giudizio;
2. l’operatività dell’istituto in questione si confronta con l’altro principio fondamentale della certezza del diritto e determinatezza della fattispecie: si ricorre all’inesigibilità quando, per circostanze eccezionali, risulta problematica una perfetta sovrapposizione tra fattispecie normativa e fattispecie reale (quaestio iuris e quaestio facti);
3. i criteri di concretizzazione del comportamento esigibile devono afferire ai requisiti di una specifica condotta, relazionata alla specifica situazione di fatto in cui essa si è verificata
4. secondo alcune posizioni il principio della inesigibilità è di rilevanza costituzionale (ai sensi dell’articolo 27 comma 3 Costituzione: Fiorella). Secondo Vassalli “se dunque la colpevolezza è in ogni sua forma esigibilità di un comportamento diverso, non si riesce a comprendere come un comportamento in concreto inesigibile possa essere considerato colpevole e fonte di punizione”.
I valori costituzionali in gioco
Ad avviso di chi scrive l’esclusione dell’esimente in ipotesi caratterizzate da incolpevole omessa adozione/attuazione del modello organizzativo presta il fianco a serie censure di incostituzionalità, concernenti la violazione della presunzione di non colpevolezza, del principio di colpevolezza, del principio di uguaglianza e del diritto di difesa.
Procediamo con ordine.
Come è stato puntualmente affermato, l’onere della prova della colpevolezza dell’imputato è il “precipitato tecnico” della presunzione di non colpevolezza di cui all’articolo 27 comma 2 Costituzione (Paulesu).
Secondo la migliore dottrina, gravare l’imputato di oneri probatori non è di per sé incostituzionale, se però l’esercizio di tali oneri è effettivo.
Nelle ipotesi sopra indicate – vale a dire in caso di impossibilità oggettiva di adottare/attuare il modello - l’inversione dell’onere della prova potrebbe essere ritenuta incostituzionale in quanto sostanzialmente coincidente con una presunzione assoluta ed insuperabile di colpevolezza.
Nelle situazioni menzionate la possibilità di prova contraria da parte dell’ente è radicalmente insussistente.
In secondo luogo consentire l’affermazione di responsabilità (per colpa organizzativa) di un ente in situazioni caratterizzate dall’impossibilità oggettiva di adozione dei modelli significherebbe violare il principio di responsabilità per fatto proprio colpevole sancito dall’articolo 27 comma 1 Costituzione, secondo l’interpretazione fornitane da parte della Corte Costituzionale.
Inoltre potrebbe profilarsi pure la lesione del diritto di difesa ex articolo 24 comma 2 Costituzione in quanto nel procedimento l’ente non avrebbe alcuna chance di dimostrare di non aver potuto adottare il modello: in altri termini il Decreto Legislativo 231 offrirebbe, in certe situazioni, una falsa possibilità di “difendersi provando”.
Infine si potrebbe rilevare pure una violazione del principio di ragionevolezza delle scelte punitive (il quale trova fondamento nell’articolo 3 Costituzione) laddove si considerassero allo stesso modo – sanzionandole – due società, entrambe prive dei modelli, ma una solo delle due per propria colpa.
In breve: nella categoria generale delle condotte “mancata adozione modello” ce ne sono alcune che per circostanze eccezionali non assurgono alla medesima gravità di altre che non hanno incontrato tali circostanze.
In un processo ex Decreto Legislativo 231 potrebbe essere eccepita o rilevata d’ufficio l’illegittimità costituzionale degli articoli 6 e 7:
- per contrasto con l’articolo 27 comma 1 Costituzione, nella parte in cui non prevedono che l’ente possa andare esente da responsabilità nelle ipotesi in cui, per impossibilità oggettiva, non abbia adottato ed attuato il modello organizzativo;
- per contrasto con l’articolo 27 comma 2 Costituzione, nella parte in cui sanciscono una presunzione assoluta di responsabilità laddove l’ente non possa dimostrare di aver adottato e attuato il modello nelle ipotesi di impossibilità oggettiva;
- per contrasto con l’articolo 24 comma 2 Costituzione, nella parte in cui non consente all’ente di difendersi dimostrando di essere stato nell’impossibilità oggettiva di adottare il modello organizzativo;
- per contrasto con l’articolo 3 Costituzione, nella parte in cui non distingue, ai fini del riconoscimento dell’esimente, tra ente che non abbia adottato e attuato il modello per fatto proprio colpevole ed ente che non abbia adottato il modello per impossibilità oggettiva.
Alcune precisazioni
Incide sulla tematica in esame la qualificazione della natura della responsabilità dell’ente?
Non v’è dubbio che la tensione con i principi costituzionali menzionati sarebbe evidente ove si ritenesse la stessa una responsabilità penale vera e propria; non così in caso di ricostruzione nel senso della natura amministrativa della responsabilità de qua.
La questione meriterebbe altro approfondimento, ma, in ogni caso, è sufficientemente pacifico che i principi costituzionali di garanzia si applicano alla “materia punitiva” (quale sicuramente è quella ex Decreto Legislativo 231), anche se non strettamente penale.
Incide sulla tematica in esame la qualificazione del (la mancata adozione/attuazione del) modello come fatto costitutivo dell’illecito dell’ente o come elemento impeditivo della responsabilità dello stesso?
La dottrina più attenta ha evidenziato come l’inesigibilità può incidere sul fatto tipico (nella teorica del reato omissivo): in breve, può verificarsi “un’anomalia nella situazione di fatto” che diventa un ostacolo rilevante quando si è tenuti ad un certo comportamento (Fornasari).
L’inesigibilità, inoltre, può rilevare nell’ambito della colpevolezza.
Il dovere di diligenza che fonda il reato colposo si scinde in due aspetti: dal lato oggettivo esso deve considerarsi violato già quando non si rispetta una regola generalizzata valida per un certo tipo di agente; da quello soggettivo esso è invece violato in quanto non si sia in presenza di particolari condizioni che, ad illecito già integrato, escludono la colpevolezza perché consentono di variare (verso il basso) la misura di diligenza normalmente richiesta.
L’esigibilità può concorrere, pertanto, a delimitare il dovere di diligenza nel suo aspetto soggettivo, precisando meglio la struttura della colpa (Fornasari).
Incide sulla tematica in esame la circostanza che l’adozione del modello non è obbligatoria?
Sul punto specifico ha avuto modo di soffermarsi l’ordinanza cautelare emessa da Tribunale Napoli, G.I.P. Saraceno, 26 giugno 2007, di cui si riportano testualmente i passi rilevanti:
1. “Tutti i modelli, inoltre, risultano intempestivi sotto il profilo della loro adozione, siccome di molto successivi al dies a quo della condotta delittuosa presupposta, rilevante ai fini della responsabilità amministrativa e in corso di esecuzione sin dalla seconda metà dell’anno 2001”.
2. “Priva di pregio è, infatti, l’argomentazione sviluppata dalla difesa, con cui si sostiene che sarebbe astrattamente ipotizzabile una responsabilità delle indagate solo a partire dall’adozione dei rispettivi modelli di organizzazione, non essendo concretamente esigibile nei loro confronti una maggiore tempestività di quella dimostrata, avuto riguardo ai necessari tempi tecnici per l’elaborazione dei codici e per il loro iniziale necessario rodaggio”. Benchè il decreto legislativo non contenga alcuna disposizione che individui un termine entro il quale consentire agli enti di uniformarsi alle nuove disposizioni, dotandosi dei rispettivi modelli, ragioni di ordine logico ed alcuni testuali spunti normativi, dovrebbero precludere la possibilità di fondare l’imputabilità dell’impresa sulla mancata adozione di modelli quando fosse dimostrabile che la mancata adozione non sia dipesa da colpa, ma da oggettiva impossibilità.
3. “In difetto di una testuale ed esplicita previsione, appare opinabile ricorrere a "ragioni di buon senso" per colmare l’asserita lacuna del dato normativo con il rischio di un pericoloso relativismo nell’individuazione del termine di c.d. tolleranza, della cui determinazione, peraltro, dovrebbe farsi carico, di volta in volta, il Giudice chiamato a valutare l’esigibilità di comportamenti più tempestivi di quelli in concreto adottati”.
4. “Ma soprattutto sfugge che il legislatore, pur avendo inteso ancorare il rimprovero dell’ente alla mancata adozione ovvero al mancato rispetto di standards doverosi e, dunque, a motivarlo all’osservanza degli stessi, non ha previsto il modello organizzativo come adempimento obbligatorio, al quale l’ente sia sempre e comunque tenuto, ma come mero onere che l’ente stesso ha interesse ad assolvere per prevenire e paralizzare gli effetti della commissione di reati da parte delle persone fisiche che agiscono al suo interno. Trattandosi di onere che la persona giuridica è portata ad assolvere nel suo stesso interesse e non in adempimento di un obbligo normativo, è del tutto ragionevole la mancata previsione di un termine di c.d. tolleranza per consentire alle imprese di tenere un comportamento, del tutto libero, viceversa, sia nel an che nel quando”.
Ad avviso di chi scrive, la circostanza che l’adozione del modello sia un onere per evitare l’ascrizione di responsabilità non inficia quanto fino ad ora sostenuto.
Non sembra “giusta” una legge che consente, sulla carta, una via d’uscita all’ente, ma poi non tiene conto che in certe circostanze – non imputabili all’ente - quella via è a priori sbarrata.
Non appare risolutiva l’obiezione secondo la quale spetterebbe, di volta in volta, al giudice individuare il periodo di tolleranza, con la possibilità di “arbitrio interpretativo”.
A ben vedere, non dovrebbe trattarsi di una mera individuazione temporale, ma del prudente apprezzamento delle ragioni che hanno reso inesigibile – non semplicemente difficile – l’adozione preventiva del modello (o la sua effettiva attuazione).
E’ appena il caso di aggiungere che tale prova dovrà essere particolarmente rigorosa, per evitare tentativi di elusione.
Restiamo ancora dal lato del giudicante.
Di fronte alla commissione di un reato-presupposto e all’assenza formale di un modello, il giudice non potrebbe far altro che ritenere integrato il criterio soggettivo di imputazione ex articoli 6 e 7, anche se accertasse univocamente la diligenza e la tempestività della società?
E’ proprio in questi casi che potrebbe essere sollevata questione di illegittimità costituzionale.
Nelle situazioni in cui il giudice si trova impossibilitato, in virtù del tenore testuale del Decreto Legislativo 231, a dichiarare l’esenzione di responsabilità per mancanza del modello non dovuta a colpa dell’ente, ben potrebbe (anzi dovrebbe) ritenere la questione rilevante e non manifestamente infondata e rimetterla alla Corte costituzionale.
Il dictum della Corte potrebbe essere di natura additiva, sancendo l’incostituzionalità degli articoli 6 e 7 Decreto Legislativo 231 nella parte in cui non prevedono che l’ente non risponde nelle ipotesi di omessa adozione/attuazione del modello organizzativo dovuta ad impossibilità oggettiva.
La definizione giudiziale di condotta inesigibile
Quali parametri utilizza il giudice per definire una condotta come esigibile o meno?
Innanzitutto deve esaminare la rilevanza dell’anomalia della situazione di fatto e, pertanto, dei motivi per cui il soggetto non ha tenuto il comportamento doveroso.
Deve poi accertare l’esistenza di un determinato grado di proporzionalità tra gli interessi in gioco (quelli tutelati dalla norma e quelli eccepiti dall’interessato).
Riassuntivamente il giudice dovrà valutare:
- la tempestività dell’ente nell’attivarsi per valutare l’adozione del modello (o il suo aggiornamento ad nuove fattispecie di reato);
- la tempestività dell’adozione vera e propria;
- la tempestività e l’impegno profuso dall’ente nel mettere in opera (id est: attuare effettivamente) il modello adottato; >La questione che si intende affrontare in questo scritto attiene alle conseguenze dell’impossibilità di adozione o attuazione dei modelli organizzativi previsti dagli artt 6 e 7 del Decreto Legislativo 231/2001.
In altri termini: quid iuris se l’ente non ha adottato o non ha attuato il modello organizzativo per fatti e circostanze non riconducibili ad una sua “colpevole inerzia”, ma ad impedimenti oggettivi ed insuperabili?
Gli esempi possono essere molteplici:
- il fatto di reato è stato commesso poco tempo dopo l’entrata in vigore del reato-presupposto e l’ente non ha avuto nemmeno il tempo di deliberare sull’adozione del Modello;
- l’ente tempestivamente si è adoperato per aggiornare il modello, ma il fatto di reato si è comunque verificato prima dell’adozione formale dello stesso;
- il fatto di reato si è verificato dopo l’adozione formale del modello, ma entro un lasso di tempo tale da non potersi, seriamente, parlare di effettiva attuazione del modello stesso (la quale, come è noto, richiede flussi informativi, formazione del personale, audit, applicazione del sistema disciplinare ecc.)
Tutte queste situazioni – che non si possono nemmeno definire “casi-limite” – sono caratterizzate dalla mancanza formale o sostanziale del modello: da tale mancanza deriva l’impossibilità per l’ente di usufruire dell’esenzione di responsabilità.
L’istituto dell’inesigibilità: l’aggiornamento di una vecchia questione?
Secondo l’elaborazione dottrinale l’inesigibilità indica quella particolare situazione, in base alla quale un soggetto, per cause indipendenti dalla propria volontà, si trova nell’impossibilità assoluta di ottemperare ad un determinato precetto normativo.
La nozione in esame ha trovato ampia elaborazione nell’ambito della dottrina civilistica, relativamente alla problematica dell’adempimento delle obbligazioni.
Nel rapporto obbligatorio, infatti, il rigore delle conseguenze collegate all’inadempimento è mitigato dal principio secondo cui ad impossibilia nemo tenetur, principio che evidenzia l’esigenza di adeguare il diritto alla realtà effettiva (Giacobbe).
La dottrina penalistica tradizionale qualifica l’inesigibilità quale causa (extralegale) di esclusione della colpevolezza.
In particolare, si sottolinea che essa non esclude l’antigiuridicità del fatto, quanto piuttosto la rimproverabilità del comportamento criminoso al soggetto: di conseguenza, verrebbe meno l’esigenza di applicare la sanzione, in quanto non può essere formulato un giudizio di riprovevolezza nei confronti del soggetto autore del comportamento.
È interessante notare come la giurisprudenza abbia fatto talvolta ricorso al principio di inesigibilità per temperare il rigore delle norme, quando, per specifiche circostanze concrete, l’applicazione della sanzione penale non appariva equa.
Così, ad esempio, in una sentenza di merito si è esclusa la configurabilità del reato di associazione per delinquere di tipo mafioso in una fattispecie nella quale alcuni imprenditori si sono trovati a svolgere la propria attività in una zona ad alta densità mafiosa.
È stata, altresì, esclusa l’ipotesi di reato nei confronti di un sindaco che aveva gestito una discarica di rifiuti solidi urbani in assenza dell’autorizzazione regionale (Giacobbe).
In tali fattispecie il giudizio di non colpevolezza ha trovato fondamento nella considerazione che, in entrambe le ipotesi, il soggetto non si era liberamente determinato a porre in essere il comportamento delittuoso, ma vi era stato “costretto dalle circostanze”.
Parte della giurisprudenza e della dottrina - pur nella consapevolezza della mancanza, nel nostro ordinamento, di un espresso riferimento normativo all’istituto dell’inesigibilità - ne individua il fondamento nella previsione dello stato di necessità (articolo 54 Codice Penale).
La prevalente giurisprudenza manifesta, invece, un atteggiamento di chiusura:
“Il principio della non esigibilita` di una condotta diversa - sia che lo si voglia ricollegare alla ratio della colpevolezza riferendolo ai casi in cui l’agente operi in condizioni soggettive tali da non potersi da lui “umanamente” pretendere un comportamento diverso, sia che lo si voglia ricollegare alla ratio dell’antigiuridicità riferendolo a situazioni in cui non sembri coerente ravvisare un dovere giuridico dell’agente di uniformare la condotta al precetto penale - non può trovare collocazione e spazio al di fuori delle cause di giustificazione e delle cause di esclusione della colpevolezza espressamente codificate, in quanto le condizioni e i limiti di applicazione delle norme penali sono posti dalle norme stesse senza che sia consentito al giudice di ricercare cause ultralegali di esclusione della punibilità attraverso l’analogia juris (Cass. sez. VI, 31 maggio 1993, n. 973, PM in proc. Bove)”.
La visione più moderna dell’inesigibilità
La dottrina che ha approfondito l’argomento (Fornasari, Il principio di inesigibilità nel diritto penale, Padova, 1990) è pervenuta alle seguenti conclusioni:
1. la visione più moderna dell’inesigibilità ne evidenzia la natura di “strumento di delimitazione dei doveri giuridici incombenti sui consociati”: in altri termini, il legislatore può esprimere fino ad un certo punto il giudizio di disvalore su una determinata condotta (in astratto) e deve rinunciare ad un ulteriore approfondimento, affidando al giudice l’onere della concreta delimitazione della latitudine degli obblighi di azione o di astensione imposti dalla legge in riferimento alle particolari circostanze del caso sottoposto al giudizio;
2. l’operatività dell’istituto in questione si confronta con l’altro principio fondamentale della certezza del diritto e determinatezza della fattispecie: si ricorre all’inesigibilità quando, per circostanze eccezionali, risulta problematica una perfetta sovrapposizione tra fattispecie normativa e fattispecie reale (quaestio iuris e quaestio facti);
3. i criteri di concretizzazione del comportamento esigibile devono afferire ai requisiti di una specifica condotta, relazionata alla specifica situazione di fatto in cui essa si è verificata
4. secondo alcune posizioni il principio della inesigibilità è di rilevanza costituzionale (ai sensi dell’articolo 27 comma 3 Costituzione: Fiorella). Secondo Vassalli “se dunque la colpevolezza è in ogni sua forma esigibilità di un comportamento diverso, non si riesce a comprendere come un comportamento in concreto inesigibile possa essere considerato colpevole e fonte di punizione”.
I valori costituzionali in gioco
Ad avviso di chi scrive l’esclusione dell’esimente in ipotesi caratterizzate da incolpevole omessa adozione/attuazione del modello organizzativo presta il fianco a serie censure di incostituzionalità, concernenti la violazione della presunzione di non colpevolezza, del principio di colpevolezza, del principio di uguaglianza e del diritto di difesa.
Procediamo con ordine.
Come è stato puntualmente affermato, l’onere della prova della colpevolezza dell’imputato è il “precipitato tecnico” della presunzione di non colpevolezza di cui all’articolo 27 comma 2 Costituzione (Paulesu).
Secondo la migliore dottrina, gravare l’imputato di oneri probatori non è di per sé incostituzionale, se però l’esercizio di tali oneri è effettivo.
Nelle ipotesi sopra indicate – vale a dire in caso di impossibilità oggettiva di adottare/attuare il modello - l’inversione dell’onere della prova potrebbe essere ritenuta incostituzionale in quanto sostanzialmente coincidente con una presunzione assoluta ed insuperabile di colpevolezza.
Nelle situazioni menzionate la possibilità di prova contraria da parte dell’ente è radicalmente insussistente.
In secondo luogo consentire l’affermazione di responsabilità (per colpa organizzativa) di un ente in situazioni caratterizzate dall’impossibilità oggettiva di adozione dei modelli significherebbe violare il principio di responsabilità per fatto proprio colpevole sancito dall’articolo 27 comma 1 Costituzione, secondo l’interpretazione fornitane da parte della Corte Costituzionale.
Inoltre potrebbe profilarsi pure la lesione del diritto di difesa ex articolo 24 comma 2 Costituzione in quanto nel procedimento l’ente non avrebbe alcuna chance di dimostrare di non aver potuto adottare il modello: in altri termini il Decreto Legislativo 231 offrirebbe, in certe situazioni, una falsa possibilità di “difendersi provando”.
Infine si potrebbe rilevare pure una violazione del principio di ragionevolezza delle scelte punitive (il quale trova fondamento nell’articolo 3 Costituzione) laddove si considerassero allo stesso modo – sanzionandole – due società, entrambe prive dei modelli, ma una solo delle due per propria colpa.
In breve: nella categoria generale delle condotte “mancata adozione modello” ce ne sono alcune che per circostanze eccezionali non assurgono alla medesima gravità di altre che non hanno incontrato tali circostanze.
In un processo ex Decreto Legislativo 231 potrebbe essere eccepita o rilevata d’ufficio l’illegittimità costituzionale degli articoli 6 e 7:
- per contrasto con l’articolo 27 comma 1 Costituzione, nella parte in cui non prevedono che l’ente possa andare esente da responsabilità nelle ipotesi in cui, per impossibilità oggettiva, non abbia adottato ed attuato il modello organizzativo;
- per contrasto con l’articolo 27 comma 2 Costituzione, nella parte in cui sanciscono una presunzione assoluta di responsabilità laddove l’ente non possa dimostrare di aver adottato e attuato il modello nelle ipotesi di impossibilità oggettiva;
- per contrasto con l’articolo 24 comma 2 Costituzione, nella parte in cui non consente all’ente di difendersi dimostrando di essere stato nell’impossibilità oggettiva di adottare il modello organizzativo;
- per contrasto con l’articolo 3 Costituzione, nella parte in cui non distingue, ai fini del riconoscimento dell’esimente, tra ente che non abbia adottato e attuato il modello per fatto proprio colpevole ed ente che non abbia adottato il modello per impossibilità oggettiva.
Alcune precisazioni
Incide sulla tematica in esame la qualificazione della natura della responsabilità dell’ente?
Non v’è dubbio che la tensione con i principi costituzionali menzionati sarebbe evidente ove si ritenesse la stessa una responsabilità penale vera e propria; non così in caso di ricostruzione nel senso della natura amministrativa della responsabilità de qua.
La questione meriterebbe altro approfondimento, ma, in ogni caso, è sufficientemente pacifico che i principi costituzionali di garanzia si applicano alla “materia punitiva” (quale sicuramente è quella ex Decreto Legislativo 231), anche se non strettamente penale.
Incide sulla tematica in esame la qualificazione del (la mancata adozione/attuazione del) modello come fatto costitutivo dell’illecito dell’ente o come elemento impeditivo della responsabilità dello stesso?
La dottrina più attenta ha evidenziato come l’inesigibilità può incidere sul fatto tipico (nella teorica del reato omissivo): in breve, può verificarsi “un’anomalia nella situazione di fatto” che diventa un ostacolo rilevante quando si è tenuti ad un certo comportamento (Fornasari).
L’inesigibilità, inoltre, può rilevare nell’ambito della colpevolezza.
Il dovere di diligenza che fonda il reato colposo si scinde in due aspetti: dal lato oggettivo esso deve considerarsi violato già quando non si rispetta una regola generalizzata valida per un certo tipo di agente; da quello soggettivo esso è invece violato in quanto non si sia in presenza di particolari condizioni che, ad illecito già integrato, escludono la colpevolezza perché consentono di variare (verso il basso) la misura di diligenza normalmente richiesta.
L’esigibilità può concorrere, pertanto, a delimitare il dovere di diligenza nel suo aspetto soggettivo, precisando meglio la struttura della colpa (Fornasari).
Incide sulla tematica in esame la circostanza che l’adozione del modello non è obbligatoria?
Sul punto specifico ha avuto modo di soffermarsi l’ordinanza cautelare emessa da Tribunale Napoli, G.I.P. Saraceno, 26 giugno 2007, di cui si riportano testualmente i passi rilevanti:
1. “Tutti i modelli, inoltre, risultano intempestivi sotto il profilo della loro adozione, siccome di molto successivi al dies a quo della condotta delittuosa presupposta, rilevante ai fini della responsabilità amministrativa e in corso di esecuzione sin dalla seconda metà dell’anno 2001”.
2. “Priva di pregio è, infatti, l’argomentazione sviluppata dalla difesa, con cui si sostiene che sarebbe astrattamente ipotizzabile una responsabilità delle indagate solo a partire dall’adozione dei rispettivi modelli di organizzazione, non essendo concretamente esigibile nei loro confronti una maggiore tempestività di quella dimostrata, avuto riguardo ai necessari tempi tecnici per l’elaborazione dei codici e per il loro iniziale necessario rodaggio”. Benchè il decreto legislativo non contenga alcuna disposizione che individui un termine entro il quale consentire agli enti di uniformarsi alle nuove disposizioni, dotandosi dei rispettivi modelli, ragioni di ordine logico ed alcuni testuali spunti normativi, dovrebbero precludere la possibilità di fondare l’imputabilità dell’impresa sulla mancata adozione di modelli quando fosse dimostrabile che la mancata adozione non sia dipesa da colpa, ma da oggettiva impossibilità.
3. “In difetto di una testuale ed esplicita previsione, appare opinabile ricorrere a "ragioni di buon senso" per colmare l’asserita lacuna del dato normativo con il rischio di un pericoloso relativismo nell’individuazione del termine di c.d. tolleranza, della cui determinazione, peraltro, dovrebbe farsi carico, di volta in volta, il Giudice chiamato a valutare l’esigibilità di comportamenti più tempestivi di quelli in concreto adottati”.
4. “Ma soprattutto sfugge che il legislatore, pur avendo inteso ancorare il rimprovero dell’ente alla mancata adozione ovvero al mancato rispetto di standards doverosi e, dunque, a motivarlo all’osservanza degli stessi, non ha previsto il modello organizzativo come adempimento obbligatorio, al quale l’ente sia sempre e comunque tenuto, ma come mero onere che l’ente stesso ha interesse ad assolvere per prevenire e paralizzare gli effetti della commissione di reati da parte delle persone fisiche che agiscono al suo interno. Trattandosi di onere che la persona giuridica è portata ad assolvere nel suo stesso interesse e non in adempimento di un obbligo normativo, è del tutto ragionevole la mancata previsione di un termine di c.d. tolleranza per consentire alle imprese di tenere un comportamento, del tutto libero, viceversa, sia nel an che nel quando”.
Ad avviso di chi scrive, la circostanza che l’adozione del modello sia un onere per evitare l’ascrizione di responsabilità non inficia quanto fino ad ora sostenuto.
Non sembra “giusta” una legge che consente, sulla carta, una via d’uscita all’ente, ma poi non tiene conto che in certe circostanze – non imputabili all’ente - quella via è a priori sbarrata.
Non appare risolutiva l’obiezione secondo la quale spetterebbe, di volta in volta, al giudice individuare il periodo di tolleranza, con la possibilità di “arbitrio interpretativo”.
A ben vedere, non dovrebbe trattarsi di una mera individuazione temporale, ma del prudente apprezzamento delle ragioni che hanno reso inesigibile – non semplicemente difficile – l’adozione preventiva del modello (o la sua effettiva attuazione).
E’ appena il caso di aggiungere che tale prova dovrà essere particolarmente rigorosa, per evitare tentativi di elusione.
Restiamo ancora dal lato del giudicante.
Di fronte alla commissione di un reato-presupposto e all’assenza formale di un modello, il giudice non potrebbe far altro che ritenere integrato il criterio soggettivo di imputazione ex articoli 6 e 7, anche se accertasse univocamente la diligenza e la tempestività della società?
E’ proprio in questi casi che potrebbe essere sollevata questione di illegittimità costituzionale.
Nelle situazioni in cui il giudice si trova impossibilitato, in virtù del tenore testuale del Decreto Legislativo 231, a dichiarare l’esenzione di responsabilità per mancanza del modello non dovuta a colpa dell’ente, ben potrebbe (anzi dovrebbe) ritenere la questione rilevante e non manifestamente infondata e rimetterla alla Corte costituzionale.
Il dictum della Corte potrebbe essere di natura additiva, sancendo l’incostituzionalità degli articoli 6 e 7 Decreto Legislativo 231 nella parte in cui non prevedono che l’ente non risponde nelle ipotesi di omessa adozione/attuazione del modello organizzativo dovuta ad impossibilità oggettiva.
La definizione giudiziale di condotta inesigibile
Quali parametri utilizza il giudice per definire una condotta come esigibile o meno?
Innanzitutto deve esaminare la rilevanza dell’anomalia della situazione di fatto e, pertanto, dei motivi per cui il soggetto non ha tenuto il comportamento doveroso.
Deve poi accertare l’esistenza di un determinato grado di proporzionalità tra gli interessi in gioco (quelli tutelati dalla norma e quelli eccepiti dall’interessato).
Riassuntivamente il giudice dovrà valutare:
- la tempestività dell’ente nell’attivarsi per valutare l’adozione del modello (o il suo aggiornamento ad nuove fattispecie di reato);
- la tempestività dell’adozione vera e propria;
- la tempestività e l’impegno profuso dall’ente nel mettere in opera (id est: attuare effettivamente) il modello adottato;
- il tempo trascorso dall’entrata in vigore del reato presupposto per cui è processo;
- eventuali circostanze che hanno impedito l’adozione del modello.
Non va infine dimenticato che il concetto di impossibilità oggettiva del comportamento omesso deve essere riferito ad un comportamento di una persona giuridica, che agisce per il tramite di più persone fisiche e attraverso sistemi decisionali e operativi articolati temporalmente e spesso anche logisticamente.
Un ulteriore profilo di irragionevolezza del sistema dei modelli organizzativi
Sotto altro profilo si è evidenziata una possibile lesione del principio di ragionevolezza (rilevante ex articolo 3 Costituzione) nel sanzionare una società priva del modello anche in casi in cui l’accertamento dei fatti dimostri che nessun modello avrebbe impedito il reato verificatosi.
“La lettera c) dell’articolo 6-1°co. Decreto Legislativo n.231/01 prevede infatti che i modelli siano stati aggirati dall’amministratore infedele ed è ovvio che la prova di ciò non la si può fornire se i modelli non erano stati adottati; ma, portando avanti il ragionamento su questi binari, si può porre l’ipotesi (tutt’altro che estrema nella pratica) di una società sprovvista dei modelli ove però appare chiaro (per il contesto e le modalità concrete di commissione del reato) che nessun sistema di prevenzione interno avrebbe potuto impedire all’amministratore di commettere il reato (si pensi al caso che costui negozi fuori dagli uffici della società una tangente con un pubblico ufficiale in grado di far vincere una gara d’appalto alla società e che ne paghi il prezzo attingendo da proprie disponibilità, ad es. dando in pagamento il proprio orologio d’oro). In casi simili non c’è modello organizzativo/controllo che tenga e sostenere il contrario vuol dire fare dell’ipocrisia giuridica; però la ricaduta, sul piano della responsabilità per la società, è disastrosa: non avendo essa adottato alcun modello organizzativo non potrà fornire la prova liberatoria per scagionarsi” (Bronzini e Vitali).
Ad avviso degli Autori questa situazione, se non ci fosse la previsione normativa dell’art.6, sarebbe facilmente risolubile in termini di esclusione della responsabilità dell’ente proprio attingendo ai principi del rapporto di causalità: “siccome non esiste modello/procedura/protocollo operativo in grado di impedire che un amministratore paghi una tangente consegnando il proprio orologio d’oro o i gioielli della moglie, se anche la società si fosse dotata del miglior modello/procedura/protocollo astrattamente possibile, l’evento (ossia la corruzione) si sarebbe ugualmente verificato e dunque sanzionare l’ente ai sensi del Decreto Legislativo 231/01 per la sola colpa di organizzazione -sebbene essa non abbia avuto alcuna incidenza causale sulla commissione del reato presupposto - equivale a condannare penalmente il medico che - se anche si fosse attenuto alle linee guida ospedaliere - comunque non avrebbe salvato la vita al paziente” (Bronzini e Vitali).
Si concretizza in tal modo, paradossalmente, proprio quel rischio di responsabilità oggettiva, al fine di scongiurare il quale il legislatore delegato opera preliminarmente la scelta di normativizzare la colpevolezza dell’ente (De Vero).
Sulla questione della rilevanza del c.d. comportamento alternativo lecito si è soffermato pure chi ricorda la tendenza giurisprudenziale a statuire una (inaccettabile) inversione dell’onere della prova supponendo una presunzione relativa che l’evento non si sarebbe verificato in presenza della cautela doverosa omessa (Lunghini).