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Logica deontica e interpretazione delle norme

L’uso della logica nell’interpretazione

In un precedente scritto, ricognitivo del c.d. “circolo ermeneutico”, si è rilevato come l’attività interpretativa delle disposizioni di legge sia operazione in continua evoluzione, anche per la presenza di talune zone d’ombra, più o meno marcate, nelle proposizioni normative, le quali possono presentare contenuti intrinsecamente contraddittori, anche in rapporto alle sfaccettature, talora estremamente contraddittorie, delle singole ipotesi concrete.

Un insieme di norme e informazioni dal quale si possono trarre argomenti contraddittori è il seguente (esempio tratto da LOLLI):

x uccide y

x colpevole di omicidio

x agisce per legittima difesa e x uccide y ! : (x colpevole di omicidio)

Mario uccide z

Mario si difende da aggressore z.

Per ricavare conclusioni contraddittorie relative a Mario si deve assumere anche: x si difende da aggressore z , x agisce per legittima difesa.

Si considera più specifica la prima perché dalla premessa si deduce la premessa della seconda (e non viceversa).

Ogni concetto naturale è sempre soggetto a eccezione e non possono aversi definizioni “valide in ogni ipotesi”, proprio per questa caratteristica presenza di deroghe; si introducono, in coerenza con il riscontro di ipotesi, che bloccano l’applicabilità della regola, le cc.dd. “norme di default”, che rendono rivedibile un determinato ragionamento giuridico. Tali eccezioni possono essere inserite nella regola principale, o si possono creare delle regole ulteriori, da interpretare sistematicamente a quella principale. Talvolta le cc.dd. “deroghe” possono anche essere implicite e/o desumibili dal sistema; in questo caso, l’abilità dell’interprete consente una loro individuazione, la quale, per la verità, può anche generare delle decisioni ermeneutiche difformi.

E’ coerente con quanto adesso affermato la necessità di rivedere la tradizionale idea, secondo cui il ragionamento del giudice, sfociante nella sentenza, sia uno sviluppo di sillogismi. Nel ragionamento giuridico l’accertamento del fatto non è un dato incontroverso, ma esattamente il contrario e la stessa interpretazione della legge è incerta; pertanto, non vi è piena trasparenza, intorno alle premesse di un ipotetico sillogismo, le quali, lungi dall’essere basate su parametri di certezza, appaiono esito di un percorso di approssimazioni successive.

Nel processo si mira all’accertamento di un certo grado di probabilità: non si tratta di probabilità degli eventi, ma la probabilità delle ipotesi. Queste considerazioni fanno comprendere come vada superato quell’orientamento, secondo cui la logica non rileva se non in via secondaria in ambito giuridico. La presenza di un’attività logicamente rilevante già si riscontra nella redazione dei testi normativi, attraverso una sintassi rigorosa e nella successiva attività ermeneutica su tali testi (anche se non sempre tali priorità sono rispettate, data l’ipertrofia normativa, che caratterizza certe epoche e l’approssimazione, spesso presente nel linguaggio normativo).

Il pensiero filosofico ha elaborato varie tipologie di “logica”, da adattare e utilizzare nelle singole aree di conoscenza, per pervenire a una visione maggiormente chiara delle varie problematiche e delle loro interconnessioni. Nell’ambito che più interessa la nostra indagine, assume rilievo la c.d. logica deontica, la quale esamina i rapporti tra proposizioni, racchiudenti doveri o poteri e, quindi, possiede strumenti che consentono una più puntuale analisi del tessuto delle disposizioni normative.

E’ proprio la logica deontica la più idonea a esplorare il linguaggio giuridico, cogliendo sfumature, che possono sfuggire alla schematica analisi sillogistica. Le formule deontiche sono suscettibili di una duplice interpretazione, in quanto la simbolizzazione è chiarimento del comportamento logico dei concetti normativi, nonché funge da prescrizione del comportamento indicato. Pertanto, emerge un valore prescrittivo e uno descrittivo, come caratteristiche proprie degli enunciati deontici. Traspare l’esigenza di allargare gli orizzonti della logica deontica, in maniera da collegarla con la logica aletica, che si riferisce specificamente a valori di verità, anche per porre attenzione all’aspetto propriamente “etico”, mai scindibile in modo netto dal giuridico, anche se una certo purismo, peraltro condivisibile, mira a rilevare l’autonomia del giuridico, rispetto all’etico.

Per comprendere appieno ciò di cui si discorre, è necessario chiarire che cosa s’intenda per “inferenza logica” (ovviamente essenziale anche in logica deontica) la quale è un processo linguistico, attraverso cui si enuclea una conclusione sulla base di una o più premesse.

Gli Stoici non formalizzavano né le costanti (predicati) né le proposizioni, variabili, così come Aristotele simbolizzava nella sua sillogistica solo le variabili terminali, ma non le costanti terminali e proposizionali. Nella logica simbolica, invece, si simbolizzano sia le costanti che le variabili, sia terminali, che proposizionali. Qualunque logica individua i presupposti, la cui presenza rende razionale un pensiero e prescrive tali presupposti. Fra questi elementi, necessariamente presenti, si colloca il principio di identità, il quale consente di distinguere dagli altri un ente di pensiero, : infatti, un ente potrà essere solo se stesso e non un altro (da qui il principio di “non contraddizione”). Si aggiunga che fra due enti diversi, la scelta può essere effettuata solo fra l’uno o l’altro e non simultaneamente fra gli stessi (da qui il principio del terzo escluso). Al di là di questi essenziali princìpi della logica aristotelica, assumono importanza i connettivi logici, i quali, per convenzione, assumono un determinato significato.

Il calcolo enunciativo è fondato sui seguenti tre principi della logica aristotelica: principio di identità- ogni enunciato ha lo stesso valore di verità di se stesso; principio di non contraddizione- uno stesso enunciato non può essere vero e falso contemporaneamente; principio del terzo escluso - ogni enunciato può essere o vero o falso, non esiste una terza possibilità (“tertium non datur” ).

I connettivi non sono altro che delle locuzioni come: non, e, o, se...allora, se e solo se che in grammatica sono chiamate congiunzioni proposizionali. Nel linguaggio naturale tali locuzioni hanno significato dipendente dal contesto. La maggiore esigenza di precisione, da adottare nelle formule di logica, rende essenziale, nel calcolo enunciativo, la fissazione uno dei diversi significati dei connettivi logici, tramite convenzioni, riguardanti soltanto la verità e la falsità degli enunciati. Essi sono,quindi, degli operatori, che agendo su uno o più enunciati, ne producono ulteriori, la cui verità dipende esclusivamente dai valori di verità degli enunciati coinvolti.

Ad esempio due o più enunciati si possono collegare tra loro tramite i connettivi: e, o, se...allora, se e solo se. Ciò determina la nascita di un’operazione binaria, interna all’insieme di tutti gli enunciati, che collega ad una preesistente coppia di proposizioni (P1, P2), un nuovo enunciato P;

Questo passaggio, che caratterizza la logica moderna rispetto a quella classica (greca e scolastica) è stato sviluppato dai seguenti pensatori: Gottfried W. Leibniz (1646-1716), Georg Boole (1815-1864) e Augustus De Morgan (1806-1871) e realizzato in maniera più compiuta nella Begriffsschrift (1879) di Gottlob Frege (1848-1925) che accorpa logica aristotelica, stoica, scolastica e moderna in un unico grande sistema di logica delle proposizioni.

Esiste una parte speciale della logica, denominata “metalogica”. Essa indaga le caratteristiche generali di un dato calcolo logico. La metalogica si occupa delle seguenti componenti dei calcoli logici: la coerenza (assenza di contraddizioni); la completezza (dimostrazione delle leggi di regolazione); l’indipendenza (assenza di elementi sovrabbondanti). Tuttavia, la storia della ragione umana mostra spesso il suo carattere illogico mentre la logica si definisce tale, proprio perché mira, (a) da un lato, ad individuare tutti quei principi il cui rispetto qualifica un comportamento (o un pensiero) perfettamente razionale, e, (b) dall’altro lato, perche mira a prescrivere a qualsiasi manifestazione teoretica l’adesione a tali principi se si desideri la proprietà della razionalità. Questi ultimi sono certamente i seguenti:

1) principio d’identità;

2) principio di non contraddizione;

3) principio del terzo escluso.

Com’e noto il principio (1) consente di identificare senza confusione un oggetto, che si inserisca nei processi mentali di un individuo. Ciò vuol dire che il nostro pensiero deve sempre identificare con chiarezza l’oggetto della propria attività speculativa, in modo da poter orientare in maniera costruttiva i propri schemi.

Il principio d’identità va posto in correlazione con gli altri due (non contraddizione e terzo escluso). L’identità presuppone l’idoneità a distinguere un ente da altro ente, anche quando quest’ultimo presenti elementi di omogeneità e somiglianza. E’ proprio questo insieme di elementi, che consente di penetrare l’identità di un ente, il quale deve necessariamente distinguersi da altro ente, con il quale non può identificarsi, dovendo essere “diverso” da esso (da qui il principio di non contraddizione). Il principio del terzo escluso chiude il cerchio, in quanto, una volta individuata la distinzione fra due concetti, si perviene all’ulteriore passaggio, che non possono simultaneamente accorparsi i medesimi concetti, allo scopo di formare un’entità unitaria.

Un pensiero che sia razionale, dunque, si basa sui sopra richiamati princìpi, di cui dovrà necessariamente tenersi conto, nell’attività d’interpretazione della legge, in quanto, in caso contrario, si verificherebbero risultati ermeneutici contraddittori, potendosi pervenire a interpretazioni, intrinsecamente contrarie al “senso di giustizia”.

Questa possibile nascita di interpretazioni “paradossali” di proposizioni normative può verificarsi, anche adottando i parametri della logica deontica. Un ragionamento può dirsi svolto in modo razionale, quando, da determinate premesse, attraverso delle inferenze, vengano tratte delle deduzioni coerenti con le prime. Il profilo della coerenza andrà valutato, con riferimento al senso di premesse e conclusioni e riguardo al rapporto fra i postulati, posti a base della concatenazione logica, e il ragionamento, considerato di per sé.

Non è possibile derivare conclusioni false a partire da premesse vere.

Se le premesse sono tutte vere, anche la conclusione deve risultare necessariamente vera. Le conclusioni, inoltre, devono essere giustifica e in armonia con la struttura dell’inferenza attuata. Peraltro, in logica deontica si sono prodotte delle incoerenze, note come “paradossi deontici”, le quali, in certo senso derogano, alla costruzione di forme logiche ben formate, rendendo incoerenti taluni aspetti del pensiero, formalizzato, attraverso la logica deontica. 

In un precedente scritto, ricognitivo del c.d. “circolo ermeneutico”, si è rilevato come l’attività interpretativa delle disposizioni di legge sia operazione in continua evoluzione, anche per la presenza di talune zone d’ombra, più o meno marcate, nelle proposizioni normative, le quali possono presentare contenuti intrinsecamente contraddittori, anche in rapporto alle sfaccettature, talora estremamente contraddittorie, delle singole ipotesi concrete.

Un insieme di norme e informazioni dal quale si possono trarre argomenti contraddittori è il seguente (esempio tratto da LOLLI):

x uccide y

x colpevole di omicidio

x agisce per legittima difesa e x uccide y ! : (x colpevole di omicidio)

Mario uccide z

Mario si difende da aggressore z.

Per ricavare conclusioni contraddittorie relative a Mario si deve assumere anche: x si difende da aggressore z , x agisce per legittima difesa.

Si considera più specifica la prima perché dalla premessa si deduce la premessa della seconda (e non viceversa).

Ogni concetto naturale è sempre soggetto a eccezione e non possono aversi definizioni “valide in ogni ipotesi”, proprio per questa caratteristica presenza di deroghe; si introducono, in coerenza con il riscontro di ipotesi, che bloccano l’applicabilità della regola, le cc.dd. “norme di default”, che rendono rivedibile un determinato ragionamento giuridico. Tali eccezioni possono essere inserite nella regola principale, o si possono creare delle regole ulteriori, da interpretare sistematicamente a quella principale. Talvolta le cc.dd. “deroghe” possono anche essere implicite e/o desumibili dal sistema; in questo caso, l’abilità dell’interprete consente una loro individuazione, la quale, per la verità, può anche generare delle decisioni ermeneutiche difformi.

E’ coerente con quanto adesso affermato la necessità di rivedere la tradizionale idea, secondo cui il ragionamento del giudice, sfociante nella sentenza, sia uno sviluppo di sillogismi. Nel ragionamento giuridico l’accertamento del fatto non è un dato incontroverso, ma esattamente il contrario e la stessa interpretazione della legge è incerta; pertanto, non vi è piena trasparenza, intorno alle premesse di un ipotetico sillogismo, le quali, lungi dall’essere basate su parametri di certezza, appaiono esito di un percorso di approssimazioni successive.

Nel processo si mira all’accertamento di un certo grado di probabilità: non si tratta di probabilità degli eventi, ma la probabilità delle ipotesi. Queste considerazioni fanno comprendere come vada superato quell’orientamento, secondo cui la logica non rileva se non in via secondaria in ambito giuridico. La presenza di un’attività logicamente rilevante già si riscontra nella redazione dei testi normativi, attraverso una sintassi rigorosa e nella successiva attività ermeneutica su tali testi (anche se non sempre tali priorità sono rispettate, data l’ipertrofia normativa, che caratterizza certe epoche e l’approssimazione, spesso presente nel linguaggio normativo).

Il pensiero filosofico ha elaborato varie tipologie di “logica”, da adattare e utilizzare nelle singole aree di conoscenza, per pervenire a una visione maggiormente chiara delle varie problematiche e delle loro interconnessioni. Nell’ambito che più interessa la nostra indagine, assume rilievo la c.d. logica deontica, la quale esamina i rapporti tra proposizioni, racchiudenti doveri o poteri e, quindi, possiede strumenti che consentono una più puntuale analisi del tessuto delle disposizioni normative.

E’ proprio la logica deontica la più idonea a esplorare il linguaggio giuridico, cogliendo sfumature, che possono sfuggire alla schematica analisi sillogistica. Le formule deontiche sono suscettibili di una duplice interpretazione, in quanto la simbolizzazione è chiarimento del comportamento logico dei concetti normativi, nonché funge da prescrizione del comportamento indicato. Pertanto, emerge un valore prescrittivo e uno descrittivo, come caratteristiche proprie degli enunciati deontici. Traspare l’esigenza di allargare gli orizzonti della logica deontica, in maniera da collegarla con la logica aletica, che si riferisce specificamente a valori di verità, anche per porre attenzione all’aspetto propriamente “etico”, mai scindibile in modo netto dal giuridico, anche se una certo purismo, peraltro condivisibile, mira a rilevare l’autonomia del giuridico, rispetto all’etico.

Per comprendere appieno ciò di cui si discorre, è necessario chiarire che cosa s’intenda per “inferenza logica” (ovviamente essenziale anche in logica deontica) la quale è un processo linguistico, attraverso cui si enuclea una conclusione sulla base di una o più premesse.

Gli Stoici non formalizzavano né le costanti (predicati) né le proposizioni, variabili, così come Aristotele simbolizzava nella sua sillogistica solo le variabili terminali, ma non le costanti terminali e proposizionali. Nella logica simbolica, invece, si simbolizzano sia le costanti che le variabili, sia terminali, che proposizionali. Qualunque logica individua i presupposti, la cui presenza rende razionale un pensiero e prescrive tali presupposti. Fra questi elementi, necessariamente presenti, si colloca il principio di identità, il quale consente di distinguere dagli altri un ente di pensiero, : infatti, un ente potrà essere solo se stesso e non un altro (da qui il principio di “non contraddizione”). Si aggiunga che fra due enti diversi, la scelta può essere effettuata solo fra l’uno o l’altro e non simultaneamente fra gli stessi (da qui il principio del terzo escluso). Al di là di questi essenziali princìpi della logica aristotelica, assumono importanza i connettivi logici, i quali, per convenzione, assumono un determinato significato.

Il calcolo enunciativo è fondato sui seguenti tre principi della logica aristotelica: principio di identità- ogni enunciato ha lo stesso valore di verità di se stesso; principio di non contraddizione- uno stesso enunciato non può essere vero e falso contemporaneamente; principio del terzo escluso - ogni enunciato può essere o vero o falso, non esiste una terza possibilità (“tertium non datur” ).

I connettivi non sono altro che delle locuzioni come: non, e, o, se...allora, se e solo se che in grammatica sono chiamate congiunzioni proposizionali. Nel linguaggio naturale tali locuzioni hanno significato dipendente dal contesto. La maggiore esigenza di precisione, da adottare nelle formule di logica, rende essenziale, nel calcolo enunciativo, la fissazione uno dei diversi significati dei connettivi logici, tramite convenzioni, riguardanti soltanto la verità e la falsità degli enunciati. Essi sono,quindi, degli operatori, che agendo su uno o più enunciati, ne producono ulteriori, la cui verità dipende esclusivamente dai valori di verità degli enunciati coinvolti.

Ad esempio due o più enunciati si possono collegare tra loro tramite i connettivi: e, o, se...allora, se e solo se. Ciò determina la nascita di un’operazione binaria, interna all’insieme di tutti gli enunciati, che collega ad una preesistente coppia di proposizioni (P1, P2), un nuovo enunciato P;

Questo passaggio, che caratterizza la logica moderna rispetto a quella classica (greca e scolastica) è stato sviluppato dai seguenti pensatori: Gottfried W. Leibniz (1646-1716), Georg Boole (1815-1864) e Augustus De Morgan (1806-1871) e realizzato in maniera più compiuta nella Begriffsschrift (1879) di Gottlob Frege (1848-1925) che accorpa logica aristotelica, stoica, scolastica e moderna in un unico grande sistema di logica delle proposizioni.

Esiste una parte speciale della logica, denominata “metalogica”. Essa indaga le caratteristiche generali di un dato calcolo logico. La metalogica si occupa delle seguenti componenti dei calcoli logici: la coerenza (assenza di contraddizioni); la completezza (dimostrazione delle leggi di regolazione); l’indipendenza (assenza di elementi sovrabbondanti). Tuttavia, la storia della ragione umana mostra spesso il suo carattere illogico mentre la logica si definisce tale, proprio perché mira, (a) da un lato, ad individuare tutti quei principi il cui rispetto qualifica un comportamento (o un pensiero) perfettamente razionale, e, (b) dall’altro lato, perche mira a prescrivere a qualsiasi manifestazione teoretica l’adesione a tali principi se si desideri la proprietà della razionalità. Questi ultimi sono certamente i seguenti:

1) principio d’identità;

2) principio di non contraddizione;

3) principio del terzo escluso.

Com’e noto il principio (1) consente di identificare senza confusione un oggetto, che si inserisca nei processi mentali di un individuo. Ciò vuol dire che il nostro pensiero deve sempre identificare con chiarezza l’oggetto della propria attività speculativa, in modo da poter orientare in maniera costruttiva i propri schemi.

Il principio d’identità va posto in correlazione con gli altri due (non contraddizione e terzo escluso). L’identità presuppone l’idoneità a distinguere un ente da altro ente, anche quando quest’ultimo presenti elementi di omogeneità e somiglianza. E’ proprio questo insieme di elementi, che consente di penetrare l’identità di un ente, il quale deve necessariamente distinguersi da altro ente, con il quale non può identificarsi, dovendo essere “diverso” da esso (da qui il principio di non contraddizione). Il principio del terzo escluso chiude il cerchio, in quanto, una volta individuata la distinzione fra due concetti, si perviene all’ulteriore passaggio, che non possono simultaneamente accorparsi i medesimi concetti, allo scopo di formare un’entità unitaria.

Un pensiero che sia razionale, dunque, si basa sui sopra richiamati princìpi, di cui dovrà necessariamente tenersi conto, nell’attività d’interpretazione della legge, in quanto, in caso contrario, si verificherebbero risultati ermeneutici contraddittori, potendosi pervenire a interpretazioni, intrinsecamente contrarie al “senso di giustizia”.

Questa possibile nascita di interpretazioni “paradossali” di proposizioni normative può verificarsi, anche adottando i parametri della logica deontica. Un ragionamento può dirsi svolto in modo razionale, quando, da determinate premesse, attraverso delle inferenze, vengano tratte delle deduzioni coerenti con le prime. Il profilo della coerenza andrà valutato, con riferimento al senso di premesse e conclusioni e riguardo al rapporto fra i postulati, posti a base della concatenazione logica, e il ragionamento, considerato di per sé.

Non è possibile derivare conclusioni false a partire da premesse vere.

Se le premesse sono tutte vere, anche la conclusione deve risultare necessariamente vera. Le conclusioni, inoltre, devono essere giustifica e in armonia con la struttura dell’inferenza attuata. Peraltro, in logica deontica si sono prodotte delle incoerenze, note come “paradossi deontici”, le quali, in certo senso derogano, alla costruzione di forme logiche ben formate, rendendo incoerenti taluni aspetti del pensiero, formalizzato, attraverso la logica deontica.