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Luciano Bianciardi: come si diventa un intellettuale (parte seconda)

La seconda parte del saggio di Luciano Bianciradi pubblicato nel maggio del 1966 sulla rivista "ABC" e ripubblicato nel 2007 da Stampa Alternativa di Marcello Baraghini
Come si diventa un intellettuale (parte seconda)
Come si diventa un intellettuale (parte seconda)

“Come si diventa un intellettuale”: Manuale ad uso dei giovani d’oggi, in particolare di quelli che madre natura non ha dotato di talento.

Qui trovate l’introduzione al nostro omaggio in due parti e un prologo (l’introduzione, appunto) dedicata a Luciano Bianciardi nei 50 anni dalla sua morte.

Qui, invece, la prima parte del testo.

Un saggio bellissimo, divertente e arguto, su come diventare intellettuali soprattutto se non se ne hanno le qualità (requisito per Bianciardi indispensabile).

Buona lettura a tutti!

 

Luciano Bianciardi
Come si diventa un intellettuale (parte seconda)

Questa “summa” di consigli di norme, che tutti possono leggere utilmente, è destinata in modo particolare a quei giovani che, pur sforniti di talento, vogliono intraprendere con successo la carriera dell'intellettuale. Nella puntata precedente abbiamo visto come il concetto di “intellettuale” sia estremamente vago e opaco; abbiamo evitato di tentarne una definizione precisa; anzi abbiamo raccomandato di lasciare le cose come stanno, non tentare neanche di diradare le nebbie culturali. Abbiamo inoltre constatato che, pur essendo la carriera dell'intellettuale aperta a tutti, senza distinzione di censo, ideologia, ceto sociale, meglio si adatta al giovane nato in seno al cosiddetto ceto medio. il Nostro Giovane Lettore, che d'ora in avanti chiameremo più semplicemente il Nostro, ha, per adesso, quasi vent'anni e dopo gli studi liceali, conclusi or ora senza particolare distinzione, esce dalla tutela familiare e sta per iscriversi all'università.

Ovviamente il Nostro è un provinciale. Per provinciale infatti deve intendersi, almeno in Italia, chiunque non sia nato né a Roma né a Milano. E siccome Roma e Milano, sommando le rispettive popolazioni, non superano i quattro milioni di abitanti, mentre gli italiani sono in tutto cinquanta milioni, ne consegue che su cento italiani che nascono novantadue sono provinciali. Forti di questa schiacciante maggioranza, i provinciali non si dolgano d'esser tali, ma neanche se ne vantino troppo. La città in cui nasce cresce il Nostro conterà fra i cinquanta e i duecentomila abitanti: poco probabile che abbia una università, e questo è un considerevole vantaggio per il Nostro.

Egli è venuto al mondo e si è fatto grande sotto gli occhi di tutti. Ora, può darsi che il Nostro sia riuscito a farsi la nomea di mattacchione, del pazzerello cui tutto è lecito: posizione vantaggiosissima, purché non si esca dalle mura cittadine. La città sopporta e ama il suo pazzerello, ma non oltre la misura di uno alla volta, la stessa misura valida per il sindaco. Con questa differenza, che il sindaco cambia ogni quattro anni, mentre il matto ufficiale resta in carica per tutta la vita.

Può darsi ancora che il Nostro sia riuscito a trascorrere un'infanzia e un'adolescenza perfettamente incolori ma anche questo è difficile. Avrà avuto le sue belle sortite, le sue avventure, le sue disavventure. Ebbene, sia pur certo che la gente ricorderà meglio le seconde che le prime. Mettiamo che gli sia avvenuto, alle scuole elementari, di farsi la pipì nei pantaloni: nessuno lo dimenticherà più. Anche se avesse tale ingegno da diventare, fra vent'anni, un nuovo Enrico Fermi, laggiù al paese continueranno tutti a chiamarlo “il pisciarella”.

Meglio dunque per lui che l'Università sia fuori, anche di soli venti chilometri. In un'altra città, appena appena più , sempre provincia dunque, e questo è un bene perché le università hanno in Italia fama di maggiore serietà, rispetto a quelle metropolitane. “Ha studiato a Roma” non significherà niente, domani. Anzi, susciterà il dubbio che il Nostro non abbia studiato affatto, limitandosi al pagamento delle tasse e a una frettolosa scorsa alle dispense. “Ha studiato a Pavia” va senz'altro molto meglio: suggerisce quattro anni di lieta goliardia e insieme di muto pallore nei penetrali della dea pensosa.
La scelta della facoltà richiede un poco di attenzione. Dicevano un tempo, e qualche sprovveduto lo ripete ancora, che “la laurea in legge apre tutte le porte”: sicuro, tutte le porte degli uffici statali, gruppo A, carriera massima fino al grado sesto, e le porte dei tribunali, dopo anni di praticantato presso qualche Principe del Foro largo di consigli e avaro di moneta. Meglio non pensarci nemmeno. Ma sarebbe anche grave errore, da parte del giovane aspirante intellettuale, scegliere le discipline che a prima vista appaiono più prossime ai suoi interessi, iscriversi insomma alla facoltà di Lettere. Assolutamente no: troppo ovvio e insieme troppo vincolante. Al giovane laureato in “belle” Lettere verrà poi la voglia di concorrere per una cattedra di scuola media, al massimo di ottenere la libera docenza, e poi la cattedra universitaria, utile per ottenere incarichi e prebende nell'industria culturale. Cammino lungo e tortuoso. Il Nostro punterà dritto alla meta: alla scuola tornerà, semmai come a una sinecura, a un'assicurazione contro la vecchiaia, in caso di fallimento nel campo culturale autentico. Cioè redditizio.
Meglio dunque scegliere una facoltà lontanissima dalle discipline umanistiche: Medicina può già andare bene, o anche Chimica (Ingegneria invece è da escludere perché richiede troppa applicazione, specialmente nel primo biennio). Il Nostro dovrebbe, se la sua università ne è fornita, iscriversi alla facoltà di Scienze biologiche, ovvero frequentare un corso di studi nuovi, abbastanza indefiniti ma reputati seri e originali. Iscriversi naturalmente non significa frequentare le lezioni: è sufficiente farsi vedere qualche volta in aula, non nascondere la propria delusione e la propria noia, poter sempre mostrare il tesserino coi bolli e con la dicitura: “Facoltà di Scienze biologiche”. Il Nostro si farà vedere abbastanza spesso, invece, alle lezioni della facoltà di Lettere.

Non a tutte, beninteso, che sarebbe faticoso e seccante. Sceglierà anzi un solo corso, dando la sua preferenza al professore che sia giovane, non di ruolo (incaricato va benissimo) e abbia fame di stravagante: nel senso etimologico, il professore, mettiamo, di letteratura italiana, che ami far digressioni sull'arte del film. il Nostro lo frequenterà assiduamente, seduto al primo banco, dando segni di vivo interessamento. Non è difficile, basta accennare di sì col capo, quando lo sguardo del giovane professore indugia su di lui. Si farà notare, passerà per uno scolaro intelligente, il professore finirà per sorridergli, e a questo punto sarà bene interpellarlo nel corridoio, a lezione finita, per un motivo qualsiasi: chiedergli, per esempio, una informazione bibliografica. Nove volte su dieci il giovane professore vorrà saperne di più, su questo discepolo così in gamba, e chiunque può immaginarsi la sua meraviglia nell'apprendere che non è neanche iscritto alla facoltà, e che dunque segue per autentico interesse.

Correrà la voce, nel corpo insegnante, sarà inevitabile che se ne parli in giro. Ma al secondo anno è già tempo di abbandonare le Scienze biologiche: “Che delusione”, dirà il Nostro a chi gliene chiede il motivo. Ma attenzione: se sarebbe stato uno sbaglio iscriversi subito alla facoltà di Lettere, sbaglio ancora più grosso sarebbe iscrivercisi adesso. È il momento delle scienze sociali o, in mancanza, di quelle politiche. Bene o male, quattro sono gli anni minimi di studio che si richiedono per ottenere un dottorato, e quattro anni il Nostro dovrà trascorrere all'università, anche per ottenere il rinvio della chiamata alle armi. I suoi han da pagare in questa misura, e tanto vale che il Nostro ne profitti. Può succedere che in famiglia non siano molto contenti di vederlo sfarfallare da una facoltà all'altra; e che glielo rimproverino. Bisogna in questo caso avere pazienza e tollerare anche qualche sfuriata: un giorno papà e mamma si accorgeranno di non aver affatto buttato via quattrini senza sugo di nulla, e senza ottenere, soprattutto, dal caro figliuolo, la soddisfazione del famigerato “pezzo di carta”.
Dovrebbe essere ormai chiaro, infatti, che il Nostro non diventerà mai dottore, in niente: non in Scienze biologiche (era stato uno sbaglio), non in Scienze politiche (la carriera del diplomatico, ai giorni nostri, non ha nulla di diverso da quella del notaio) e naturalmente neanche in Lettere. Perché, a parte quel professore giovane, quando parlava di cinema, si intende, perché come letteratura italiana, resti tra noi, quei corsi sul Pontano, via, erano una tale barba! Non per questo il Nostro avrà sprecato i suoi 4 anni di scuola, anzi.

Mentre i colleghi dirigenti e secchioni avranno sgobbato a contare le virgole del De Monarchia, ad enucleare il pensiero filosofico di Pasquale Galluppi, nel migliore dei casi a rintracciare le-influenze-joyceane-della-narrativa-di-Italo-Svevo, tutta roba che frutta al massimo la pubblicazione della tesi di laurea in volume, duecento copie di tiratura, diritti d'autore zero, il Nostro nel frattempo avrà imparato la sola cosa che conta davvero, e cioè come si fa carriera. Anzi, la sua carriera sarà già cominciata sui banchi di scuola. In apparenza è rimasto quattro anni indietro, in realtà si trova quattro anni avanti agli altri. E gli altri - questo è il bello - non se ne accorgono.

Sono stati gli altri quelli che hanno buttato via tempo prezioso, durante i mesi di scuola e durante le vacanze, scioccamente occupate a preparare gli esami e a bagnarsi nelle acque dell'Adriatico e del Tirreno. L'impiego proficuo delle vacanze, nel caso nostro, ma anche in generale, è importantissimo. Anziché andare a Riccione in cerca di svedesi, il Nostro avrà pensato bene di andarsele a cercare le svedesi, nel posto dove si trovano più numerose, cioè in Svezia. Costa meno, a conti fatti, che fissare retta completa in una pensione di terza categoria a Bellaria, duemilacinquecento vino escluso. L'autostop non è per nulla vergognoso, un posto di lavapiatti a Stoccolma non umilia più nessuno, men che mai un giovane. Si può vivere benissimo di pane e formaggio, dormire nello sgabuzzino del retrobottega.

Addirittura, il Nostro tornerà a casa con qualche corona in tasca, e naturalmente con alcune opinioni fondate, dirette, sulla penisola scandinava, sui suoi abitatori, sul reggimento politico che essi si danno, sulle loro costumanze e abitudini.
Opinioni che, sollecitate, potrà anche manifestare agli amici. Intendiamoci subito, sarebbe una sciocchezza enorme da parte sua affermare che le svedesi godono di una piena libertà sessuale, che architettura e urbanistica non hanno l'eguale nel mondo, che l'assistenza sanitaria è perfetta, e via sciorinando simili luoghi comuni. Il Nostro dirà invece, con la dovuta cautela (lascerà intendere, più che altro), quanto segue: in Svezia c'è la crisi degli alloggi, le case sono piccole, scomode e care, le ragazze in generale basse, grassocce, con i baffetti e il sedere basso, alcune escono soltanto con la nonna e - sembra - indossano la cintura di castità. Avventure nulla, anzi no! C'è stata qualche storia con una maestrina di Catanzaro, che si trovava appunto lì in viaggio d'istruzione. Una sera fu fermato dalla polizia, lo fecero soffiare in un sacchetto di plastica, che assunse colore verde, e questo per gli svedesi dimostra che hai mangiato carne al venerdì, reato abbastanza grave che gli costò tre notti di guardina. A pane e acqua, con l'obbligo del lavoro. La prossima estate ha deciso di andare a passarsela in Turchia.

Tutto questo, oltre che dirlo, il Nostro potrà anche metterlo sulla carta, ma a due condizioni. La prima di carattere formale: la tecnica narrativa sarà quella dell'understatement (impararla subito, servirà anche in avventure, sempre). Chi cominciasse parlando di inattese delusioni, o di necessità di rivedere le nostre idee sulla Svezia, farebbe la figura del pedante e del guastafeste. Un incipit sempre consigliabile è il seguente: “Gran simpaticone quel Gunnar. Alto, massiccio, un poco curvo, i capelli grigi e ispidi, entrava ogni sera alla bottiglieria Skall e mi strizzava subito l'occhio, alzando il pollice nel nostro segno di Intesa. Io continuavo per un poco a sciacquare calici e poi, appena il padrone se ne tornava là dietro a contare le corone, svelto prendevo la bottiglia e versavo il cicchetto. Una rapida occhiata di qua e di là, e il vecchio Gunnar se lo scolava d'un fiato. La brunetta al banco di fronte, graziosa e piccolina, faceva finta di non avere visto. Poggiava le braccia conserte sul tavolone cosparso di briciole e odoroso di pancetta affumicata, e lasciava riposare il seno vistoso nella maglietta nera - già materno, nonostante i suoi sedici anni - sulla articolazione del braccio. Uno sbadiglio, e veniva l'ora di chiudere. Le cinque del mattino, col sole ancora alto, perché l'estate, in Svezia, pare non finisca mai”.

Questo è un modello di stile assolutamente non impegnato, che occorre tener presente in ogni circostanza, quando si scrive e quando si parla. Ed ecco alcuni esempi di frase-cerotto, indispensabili per dire e insieme non dire: “pur nei suoi limiti”, “anche se non siamo perfettamente d'accordo”, “lasciamo stare per un momento il...”, “ammesso e non concesso”, “si potrebbe quasi dire”, “un qualcosa di indefinibile”,” in qualche misura” , “ non è impossibile” ,  “un po' troppo” , “ un po' poco”. Perché al limite, lo understatement coincide con l'ovvio assoluto. Come nell'esempio più illustre: “Non appena un francese varca i confini del suo paese, eccolo subito all'estero”.

La seconda condizione è del tipo, diciamo così, professionale: scrivere, va bene, ma dove? Possiamo senz'altro escludere che il Nostro veda le sue note di viaggio pubblicate sulle colonne del “Corriere della Sera”, quotidiano in cui si entra più difficilmente, e con metodi che forse illustreremo più avanti. Lo stesso discorso vale per i grossi giornali a diffusione nazionale, anche se variano le modalità dell'accesso ai suddetti. È più probabile, più facile e infine più utile uscire su un quotidiano di provincia, quello, mettiamo, della città dove il Nostro studia. Ma a patto che egli vi sia espressamente invitato dal direttore, e che il suo “pezzo” (uno solo per carità) compaia nella terza pagina. Farsi invitare dal direttore è relativamente semplice: basta fargli capire che non si esigerà alcun compenso, che basta, a un giovane, l'onore di vedere la propria firma su quelle stesse colonne che ogni mattina egli acquista in edicola (non è vero, il giornale lo legge al caffè) e che segue con estrema attenzione (falso anche questo, scorre, al massimo, gli articoli del direttore, e dà un'occhiata ai titoli più grossi). Come sarà arrivato nello studio del direttore? Presto detto: ce l'avrà portato il giovane professore incaricato di letteratura italiana con interessi di varia umanità, e specialmente cinematografici. Costui, che fra l'altro cura le recensioni dei film programmati nei sette cinema cittadini, sì sarà convinto di avere scoperto, in quel giovane studente di Scienze biologiche, una sicura promessa per le patrie lettere.

È conveniente non ricevere alcun compenso? Certo: il giornale paga di solito malissimo, più di cinquemila lire non darebbe, e allora meglio nulla che poco. Questo vale in ogni caso: chi regala è un signore, chi si fa pagare male è un pitocco. Il Nostro esigerà tuttavia che la segreteria di redazione - di solito formata da una persona quasi sempre di sesso femminile - gli consegni il tesserino con su scritto: il Signor Tal dei Tali collabora al Nostro giornale. Si pregano autorità e privati di agevolarlo nello svolgimento delle sue mansioni. Non significa assolutamente nulla, nessuno è tenuto a soddisfare quella preghiera, eppure fa bene avere in tasca il tesserino, specialmente all'estero. Lassù nessuno sa che l'“Araldo di Pavia” tira sette, ottocentomila copie, per loro è solamente un giornale italiano, e il giovane col tesserino diventa automaticamente un giornalista straniero che bisogna tener buono.

Attenzione però. Non venga al Nostro la balorda idea di insistere, di voler diventare giornalista. Il giornalismo è un mestiere, ingrato è difficile, che richiede qualità che il Nostro non sa e che non avrà mai. Se si è deciso (degnato) a pubblicare un Suo scritto, chiarirà che per lui questa è un'eccezione, che le Sue ambizioni sono altre, che non desidera mettersi in mostra.
La regola vale sempre, ed è confermata dall'antica saggezza dei nostri contadini, così restii ad impugnare la penna, e specialmente a firmare. Quando negli ambienti giornalistici, che frequenterete distaccatamente, sentirete dire: “Bisogna far girare la firma”, non prestate orecchio alla lusinga. Ricordate l'aureo motto, che valeva ai tempi del fascismo, ma resta valido tuttora, perché il fascismo è un Nostro prodotto: “Chi si firma è perduto “.

E difatti, qual è l'accusa più frequente che muovono i letterati al collega appena appena più prolifico di loro? “Scrive troppo”, dicono. “È un poligrafo”. Parrà strano, ma nel mondo delle lettere il peggior peccato di uno scrittore consiste nello scrivere. Il Nostro se ne asterrà, per quanto possibile: un pezzo di colore esotico a vent'anni, una cauta recensione a venticinque, A trenta, già intellettuale di successo, “curerà” i libri, evitando di scriverli o di tradurli. Due paginette di prefazione, tanto per mettere le mani avanti, mai elogiative, anzi limitatorie (“presentiamo qui raccolti alcuni scritti, minori ma significativi, pure nei loro limiti, nell'onesta traduzione di Gerolamo Traslati...”). Se il libro andrà bene, suo il merito. Nel caso contrario, ci vuole assai poco a dare la colpa a chi ha lavorato. Se l'ammalato dovesse morire, si può, in coscienza, dare la colpa al “curatore”?

Qui trovate l’introduzione già pubblicata qualche giorno fa da FIlodiritto, come pure la prima parte del saggio.

Qui invece trovate la versione in .pdf del libricino cartaceo pubblicato nel 2007 da Marcello Baraghini per Stampa Alternativa e oggi disponibile sul sito di Strade Bianche Editore.

Per informazioni o solo per ringraziare Marcello, potete scrivergli a questa mail: baraghinimarcello@gmail.com