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L’uomo contro lo Stato di Herbert Spencer

1884
L'uomo contro lo stato, Herbert Spencer
L'uomo contro lo stato, Herbert Spencer
L'uomo contro lo stato, Herbert Spencer

Perché leggere questo libro

Herbert Spencer fu il più rispettato e importante filosofo dell’Inghilterra vittoriana. Negli anni sessanta e settanta del diciannovesimo secolo giganteggiò come un colosso nel panorama intellettuale, e la sue opere vennero tradotte in tutto il mondo. Se dal punto di vista scientifico sviluppò, prima di Darwin, una coerente teoria evoluzionistica applicandola anche alle società umane, sul piano politico rimase sempre un convinto assertore del laissez-faire. Il suo individualismo liberale trovò piena espressione nel libro L’uomo contro lo Stato, uscito nel 1884, quando la mentalità stava già cambiando e la fama di Spencer era sulla via del declino. In quest’opera denunciò la continua espansione dello Stato a scapito della libertà individuale; criticò le tasse, l’assistenzialismo pubblico e la brama per gli impieghi burocratici; attaccò il socialismo come forma di schiavitù; svelò il carattere mitico e superstizioso della fede nello Stato e denunciò l’autorità illimitata dei parlamenti. Negli ultimi anni della sua vita provò l’amarezza di vedere quanto fossero stati vani tutti i suoi avvertimenti. Il mondo stava entrando nell’era dello Stato massimo.

 

Riassunto

Società militare e società industriale

Molti tra coloro che oggi passano per liberali (whigs) sono in realtà dei conservatori (tories) di tipo nuovo. Prima che prendessero il nome dei due partiti attuali, conservatori e liberali rappresentavano due tipi opposti di ordinamento sociale, quello militare e quello industriale. Il primo è caratterizzato dal regime di status, pressoché universale nei tempi antichi; il secondo è caratterizzato dal regime di contratto, che si è diffuso nei tempi moderni principalmente fra le nazioni occidentali e in particolare in Inghilterra e in America.

Il sistema militare si basa sulla cooperazione obbligatoria tra i cittadini, il sistema industriale sulla cooperazione volontaria. Per comprendere il primo sistema possiamo pensare a un esercito di coscritti in cui ciascuno, in cambio di una paga, di una razione alimentare e del vestiario, deve, sotto la minaccia di una punizione, obbedire ad ogni comando. Per comprendere il sistema della cooperazione volontaria possiamo invece pensare a un insieme di produttori e distributori che individualmente concordano di pagare certi specifici servizi, e che possono, previo avviso, abbandonare l’organizzazione non appena lo ritengano opportuno.

In Inghilterra come altrove le popolazioni che maggiormente resistettero al dispotismo governativo tipico della cooperazione obbligatoria furono quelle urbane formate da commercianti e lavoratori abituati a cooperare in regime di contratto. La cooperazione obbligatoria, nata da uno stato di guerra perenne, era invece più diffusa nelle zone rurali popolate inizialmente dai capi militari e dai loro sottoposti, dove sopravvivevano tradizioni e idee più primitive. Quindi, mentre nel partito liberale vi era il desiderio di resistere al potere coercitivo del governante sul suddito e di limitarlo, nel partito conservatore si voleva mantenere o accrescere tale potere.

 

Il nuovo conservatorismo

I provvedimenti dei liberali che rafforzarono il principio della cooperazione volontaria indebolendo quello della cooperazione obbligatoria avevano la stessa ispirazione dei più antichi Habeas Corpus e Bill of Rights, entrambi concepiti per tutelare i sudditi dagli abusi del potere regio. I whig, infatti, revocarono le leggi che vietavano le riunioni tra gli operai o che inibivano la loro libertà di movimento; permisero ai dissenzienti e ai cattolici di praticare la propria religione; ridussero o abolirono i vincoli all’acquisto delle merci provenienti dall’estero; rimossero i gravami imposti alla stampa.

Negli ultimi decenni, tuttavia, i liberali hanno adottato provvedimenti di tutt’altro tenore. A partire dal 1860 hanno approvato una serie interminabili di leggi che regolamentano dettagliatamente le fabbriche, il lavoro, l’igiene, la salute e numerosi altri ambiti. I tributi aumentano di anno in anno per pagare le spese che derivano dall’adozione di tutte queste norme, che richiedono un maggior numero di funzionari.

Tutte queste disposizioni tendono a restringere sempre più la libertà del cittadino perché, con ogni nuova esazione, è come se il governo gli dicesse: “Fino a oggi hai potuto spendere questa porzione dei tuoi guadagni come credevi; d’ora innanzi non sarai più libero di farlo, ma dovrai spenderla per l’interesse generale”.

I liberali hanno cominciato pertanto a perseguire il bene pubblico non già come un fine da ottenersi indirettamente riducendo i vincoli alla libertà, ma come un obiettivo da perseguirsi direttamente, con metodi opposti a quelli propri del liberalismo autentico. Pertanto è chiaro che, proprio perché è andato ampliando e non riducendo il sistema coercitivo, ciò che adesso si fa chiamare liberalismo altro non è che una nuova forma di conservatorismo.

 

Gli effetti indesiderati dell’intervento politico

Quando ci si sofferma sulle sventure dei poveri, non si evidenzia mai il fatto che si tratta, quasi sempre, di poveri tutt’altro che industriosi. In tutta Londra vi sono decine di migliaia di buoni a nulla, che in un modo o nell’altro vivono a spese dei buoni a qualcosa: criminali o destinati a diventarlo, vagabondi e scioperati che rifiutano ogni lavoro oppure, trovato un posto, fanno presto ad abbandonarlo. Non è evidente che esiste in mezzo a noi un’enorme quantità di miseria, che altro non è che il risultato normale della cattiva condotta, e che da essa non andrebbe separata?

Separare la sofferenza dalle cattive azioni che la causano è andar contro l’ordine delle cose e non provocherà che sofferenze ancora maggiori. Il comandamento biblico “chi non lavora non mangia” è l’enunciazione cristiana di questa legge naturale. Eppure proprio questo pilastro della loro religione, ampiamente giustificato dalla scienza, è quello che i cristiani sono meno inclini ad accettare. Oggi si presume infatti che non debbano esistere sofferenze, e che quelle esistenti siano senza dubbio ascrivibili a una responsabilità della società.

Questa idea si basa su tre convinzioni sbagliate: in primo luogo, che tutte le sofferenze debbano essere evitate, il che non è vero: molte sofferenze sono terapeutiche e impedirle significa impedire la cura. In secondo luogo, che tutti i mali si possano sradicare, mentre la verità è che molti mali si possono soltanto spostare da un posto all’altro o cambiare di forma, e spesso tale cambiamento finisce per accrescerli. In terzo luogo, che debba essere proprio lo Stato a porre rimedio ai mali della società. Non ci si domanda invece se vi siano altri agenti capaci di combattere tali mali, magari in maniera più efficace.

Il problema è che l’uomo politico non tiene mai conto degli effetti indiretti e remoti delle sue iniziative. Non gli viene in mente, ad esempio, che per mantenere i poveri immeritevoli a spese della società si opprimono le oneste famiglie lavoratrici e risparmiatrici con tasse sempre più alte. Il politico non pensa che l’aumento della tassazione sui datori di lavoro o sui capitali riduce gli investimenti produttivi e quindi il monte salari, oppure aumenta il prezzo dei beni consumati dai lavoratori.

Il legislatore è convinto che il cambiamento prodotto da un suo provvedimento si fermerà esattamente dove lui vuole. Nella realtà deve continuamente correggere i guasti artificiali prodotti dai suoi provvedimenti, aggiungendo intervento a intervento. Purtroppo i continui fallimenti non distruggono mai la sua fiducia negli strumenti adoperati, ma lo inducono a usarli in modo più rigoroso e ad accrescerne le ramificazioni.

 

La burocratizzazione della società

Ogni estensione della regolamentazione implica un aumento delle strutture e degli impiegati pubblici, cioè uno sviluppo sempre maggiore della burocrazia e l’ampliamento del potere dei funzionari. Un corpo di funzionari, per quanto piccolo ma compatto, che ha chiari interessi comuni e agisce sotto il comando di un’autorità centrale, ha un immenso vantaggio rispetto a un pubblico senza coesione. Pertanto una burocrazia, quando oltrepassa un certo stadio di sviluppo, diventa pressoché irresistibile.

Anche i giovani dei ceti medi industriosi sono sempre più attratti dall’idea del pubblico impiego. Accade così che uomini che sarebbero ostili alla crescita della burocrazia finiscono per tollerarla o addirittura favorirla perché offre la possibilità di una buona carriera. Questo relativo prestigio degli impiegati pubblici rispetto a quanti lavorano nel privato cresce quanto più la burocrazia s’irrobustisce nella società, e tende a definire ciò che è onorevole o meno.

Quanto più aumenta il numero di enti e provvedimenti pubblici, tanto più si rafforza nei cittadini l’idea che tutto debba essere fatto per loro, e nulla da loro. Generazione dopo generazione, l’idea che alcuni obiettivi si possano perseguire con azioni individuali o con accordi privati viene sempre più abbandonata, mentre si fa sempre più strada l’idea che a perseguirli debba essere lo Stato. Finché, col tempo, si arriva a credere che solo lo Stato possa darci ciò che desideriamo.

 

Il socialismo, la schiavitù prossima ventura

Tutti questi cambiamenti adottati per via legislativa contribuiscono a edificare il socialismo di Stato, cioè la schiavitù prossima ventura. Il socialismo, infatti, è sempre una forma di schiavitù. Ciò che fondamentalmente distingue uno schiavo da un uomo libero è il fatto che egli è obbligato a lavorare per soddisfare i desideri di altri, e non ha nessuna importanza che il padrone sia una persona singola o una società. Se è costretto a lavorare per la società e riceve dal fondo comune ciò che la società gli assegna, diventerà uno schiavo della società.

Ad una schiavitù di questo genere ci conducono molti dei provvedimenti recenti e ancor più quelli proposti per il futuro. Tali cambiamenti ci porteranno ad avere uno Stato che non solo possiede la terra, le abitazioni e i mezzi di comunicazione, tutti amministrati da funzionari, ma anche le industrie. Le aziende private, svantaggiate dalla crescente concorrenza dello Stato, che può scrivere le regole a proprio vantaggio, scompariranno del tutto, come avvenuto a molte scuole libere, in presenza di quelle pubbliche. E così avremo raggiunto l’ideale vagheggiato dai socialisti.

Giudicate voi cosa accadrà quando, invece di associazioni relativamente piccole, alle quali le persone possono volontariamente aderire oppure no, avremo un’unica grande associazione nazionale, nella quale tutti i cittadini si ritrovano iscritti, e non possono uscirne se non lasciando il proprio paese. Giudicate voi cosa diventerà, in tali condizioni, il dispotismo di una grande burocrazia gerarchica e centralizzata, che controlla tutte le risorse della comunità, e che dietro a sé ha tutta la forza necessaria per imporre i suoi decreti e mantenere quello che chiama “ordine”.

L’amministrazione non sarà mai del tipo che si vagheggia, e pertanto la schiavitù non sarà mite. L’immaginazione socialista presume che la burocrazia funzionerà come desiderato, cosa che invece non accade mai. I difetti della natura umana come la sete di potere, l’egoismo, l’ingiustizia o la falsità, che possono portare le organizzazioni private alla rovina, produrranno inevitabilmente mali maggiori e più irrimediabili quando l’organismo organizzativo è enormemente più esteso, complesso e controlla ogni risorsa, perché ad esso non si potrà opporre nessuna resistenza. Ci sono buone ragioni per credere che coloro che hanno saputo conquistare il potere in una organizzazione sociale socialista non si faranno scrupoli nel raggiungere ad ogni costo i propri fini. Il risultato finale sarà il dispotismo più completo.

 

I peccati dei legislatori

Molte colpe dei legislatori che favoriscono questo processo non sono dovute all’ambizione personale o all’interesse di classe, ma derivano dalla mancanza di quello studio col quale sarebbero moralmente obbligati a prepararsi per il loro ruolo. Il medico e il farmacista non sono scusati, in caso di errore, per la loro ignoranza o per le loro buone intenzioni. Giudichiamo invece con molta più indulgenza la responsabilità dei legislatori per i loro misfatti. Eppure la storia c’insegna che i danni prodotti dai legislatori sono incomparabilmente maggiori di quelli prodotti da medici ignoranti.

Secolo dopo secolo, gli uomini di Stato fecero leggi contro l’usura, le quali non hanno fatto altro che peggiorare le condizioni del debitore; leggi contro l’accaparramento e la speculazione finendo per diffondere la miseria; leggi sul prezzo massimo dei beni che provocarono la morte per carestia; leggi sull’edilizia che hanno provocato migliaia di senzatetto e così via. I dibattiti ci raccontano quotidianamente di provvedimenti legislativi che hanno fatto del male anziché del bene, e migliaia di atti parlamentari che abrogano i precedenti sono altrettante tacite confessioni del loro fallimento.

E tuttavia nessuno sembra imparare da tali lezioni. Esiste una massa di notizie istruttive, contenuta nella raccolta delle leggi del nostro paese e degli altri, che mostrano come i vari tentativi di re e uomini di Stato di fare il bene abbiano finito per produrre mali imprevisti. Nessuno può pensare di essere adatto a fare le leggi senza conoscere queste esperienze legislative. Il legislatore che le ignora non merita di essere assolto per la miseria e la mortalità che ne risultano. Egli è colpevole come l’apprendista farmacista quando causa la morte di qualcuno con la prescrizione di una medicina di cui ignora gli effetti.

 

La società è un organismo, non un manufatto

Tutti i misfatti dei legislatori hanno le loro radici nell’idea che la società sia una massa plastica che si può manipolare come si vuole, anziché un corpo organico che segue le proprie leggi naturali. La vita quotidiana offre ampie prove che la condotta umana sfugge alle previsioni più minuziose. Nella sua vita privata il legislatore ha rinunciato da tempo all’idea di “gestire” sua moglie, i figli e i servitori. Per quanto cerchi di persuaderle o sgridarle, queste persone non obbediscono mai esattamente come vorrebbe. Eppure, nonostante gli riesca tanto difficile trattare con l’umanità al dettaglio, il legislatore è convinto di possedere l’abilità necessaria per regolare l’umanità all’ingrosso. Non conosce neppure un millesimo dei cittadini, ha soltanto qualche vaga idea sulle loro abitudini e modi di pensare, eppure è sicuro che agiranno nel modo che ha previsto, e che perseguiranno i fini che egli auspica.

Se avessero considerato le implicazioni dei loro insuccessi domestici e osservato gli indizi della complessità della vita sociale, gli uomini si avvicinerebbero al mestiere di fare le leggi con molta esitazione. E invece è proprio in questa più che in qualsiasi altra cosa, che si mostrano più fiduciosi. In nessun altro campo vi è un tale contrasto tra la difficoltà dell’impresa e l’incompetenza di quelli che vi si accingono.

 

Lo Stato non ha contribuito al progresso

Le attività private e la cooperazione spontanea hanno contribuito allo sviluppo sociale assai più di quelle che hanno richiesto l’intervento dello Stato. Se le messi abbondanti crescono dove un tempo c’erano solo arbusti selvatici, se le case buone e solide hanno preso il posto delle capanne, si deve interamente agli sforzi posti in essere dagli uomini per perseguire i propri fini privati.

Da sempre i governi ne hanno impedito e disturbato la crescita, e non l’hanno in alcun modo promossa, tranne che svolgendo la funzione propria di mantenere l’ordine pubblico. Lo stesso si può dire dei progressi della conoscenza e della tecnologia. Non è allo Stato che dobbiamo quell’infinità di utili invenzioni dal badile al telefono, le cognizioni astronomiche sempre più esatte che hanno consentito il progresso della navigazione, le scoperte della fisica e della chimica che guidano le manifatture moderne, le macchine o i mezzi di trasporto.

Tutte queste cose sono invece il risultato delle attività spontanee degli uomini. Provate a togliere al meccanismo politico tutti gli strumenti fornitigli dall’arte e dalla scienza, lasciandogli solo quelli che si sono inventati i suoi funzionari, e vedrete che non potrà far nulla. La stessa lingua nella quale le leggi vengono scritte e gli ordini trasmessi da un funzionario all’altro non è uno strumento dovuto neppure in minima parte al legislatore; ma invece è nata, non intenzionalmente, dagli scambi e dalle relazioni fra uomini ciascuno dei quali perseguiva il proprio interesse.

 

Contro la beneficenza obbligatoria

In tutte le famiglie animali e umane i più deboli e i più piccoli ricevono dagli adulti un aiuto gratuito in proporzione inversa alla forza e all’abilità di colui che li riceve. Nel grande gruppo sociale composto dagli adulti, invece, entra in gioco un principio opposto, perché ogni individuo viene lasciato a se stesso e ottiene ricompense per le cose che è stato capace di fare: adempiere alle necessità della vita, procurare il cibo e il riparo, difendere gli altri dai nemici.

Se nella grande società i benefici ricevuti da ogni individuo fossero proporzionati alla sua incapacità, la società si estinguerebbe. Bisogna dunque conservare ben distinte l’etica della famiglia e l’etica dello Stato. La generosità è il principio essenziale della prima, così come la giustizia lo è della seconda. Anche un’applicazione parziale del principio della vita familiare allo Stato produrrà col tempo esiti fatali. Eppure, nonostante tali verità siano evidenti, si invoca continuamente la protezione paterna dello Stato e l’intrusione dell’etica famigliare nella politica statale.

Se questa preoccupazione costituisse un incentivo a impegnarsi personalmente per rimuovere la sofferenza, meriterebbe davvero approvazione e lode. Ma la stragrande maggioranza delle persone che desiderano mitigare le sventure per mezzo della legge, lo vorrebbero fare in minima parte a proprie spese e invece soprattutto a spese dagli altri, e perlopiù senza il loro consenso. I poveri meritevoli vengono così tassati per aiutare quelli immeritevoli. Il totale delle tasse imposte nelle grandi città per i pubblici bisogni è giunto a un tale livello che non può essere superato senza infliggere grandi sofferenze ai piccoli negozianti e agli artigiani. Coloro che si dichiarano tanto sensibili alla povertà si rivelano del tutto insensibili al fatto che la lotta per l’esistenza diventi più dura per la gente laboriosa.

Anche quella che da vicino può apparire beneficenza, da lontano si rivela una non piccola malvagità, una bontà che diventa crudeltà. Lo Stato, generato dall’aggressione e per l’aggressione, palesa sempre la sua vera origine. Qual è infatti l’implicito assunto su cui si fondano tali norme assistenziali?  L’assunto che nessun uomo possa vantare alcuna pretesa legittima sulla sua proprietà, neppure su quella che ha guadagnato col sudore della fronte, senza il permesso della comunità; e che la comunità possa ignorare quella pretesa ogni volta che lo ritiene opportuno. L’espropriazione di A a beneficio di B non sarebbe difendibile, se non postulando che la società ha un diritto assoluto sui possessi di ciascuno dei suoi membri. E ora questa dottrina, a lungo tacitamente ammessa, viene anche proclamata apertamente.

 

Non è il governo che concede i diritti

A sostegno di questa concezione, alcuni autori come Jeremy Bentham negano l’esistenza dei diritti naturali, e affermano che i diritti sono creati artificialmente dalla legge. Costoro non solo sono smentiti dai fatti, ma la loro opinione è auto-distruttiva e li costringe a molteplici assurdità. Nella loro concezione, infatti, il popolo crea il governo, che a sua volta crea dei diritti, che poi conferisce al proprio creatore, il popolo sovrano. Che splendido esempio di gioco di prestigio politico!

I diversi popoli primitivi e l’esperienza delle tribù sparse ai quattro angoli del globo dimostrano che qualsiasi governo è preceduto da antiche consuetudini che riconoscono, da sempre, i diritti privati e li preservano. Ad esempio, fra gli indiani dell’America settentrionale, nonostante non vi sia un governo in senso proprio, vige la proprietà privata dei cavalli, della selvaggina catturata, delle capanne e degli utensili personali. Prima che sorga un governo stabile, e in molti casi anche dopo che si è sviluppato, i diritti d’ogni individuo sono affermati e difesi da lui o dalla sua famiglia.

Bentham e seguaci dimenticano che la stessa common law non ha fatto altro che dare una forma giuridica agli antichi usi e costumi degli inglesi. I fatti confermano quindi che la proprietà era dappertutto un diritto riconosciuto prima che esistesse la legge. Del resto, se fosse vero che il governo crea i diritti che poi conferisce agli individui, non si dovrebbe trovare la minima omogeneità tra i diritti conferiti dai diversi governi. Al contrario, la corrispondenza è notevole, perché tutti i governi proibiscono gli stessi tipi d’aggressione, come l’omicidio, il furto e così via. Non possono trovarsi d’accordo per caso. C’è una certa conformità perché la pretesa “creazione dei diritti” in verità non fa altro che riconoscere quelle pretese legittime che originano naturalmente dalla vita associata.

 

La grande superstizione politica

La grande superstizione politica del passato era il diritto divino dei re. La grande superstizione politica del presente è il diritto divino dei parlamenti. In verità, non avendo alcuna pretesa ad un’origine o ad un mandato divino, un’assemblea legislativa non può accampare una giustificazione sovrannaturale per la sua autorità assoluta. La fede nell’autorità illimitata del parlamento, pertanto, è priva di quella coerenza che caratterizzava la fede nell’autorità illimitata del sovrano. Se si prescinde da origini o deleghe divine, nessun governo, sia esso rappresentato da solo o da molti, possiede titoli che valgano a giustificare le sue pretese alla sovranità assoluta.

La maggioranza può dunque imporre la sua volontà alla minoranza solo per quei fini determinati per cui gli uomini si sono associati. Per tutti gli altri fini indeterminati, non esiste tra la società e i suoi membri nessun contratto né tacito né esplicito, quindi se la maggioranza obbliga la minoranza commette un atto di tirannia. Vi sono molte specie di azioni su cui gli uomini, qualora fosse loro richiesto se vogliono impegnarsi a sottostare alla maggioranza, non concorderebbero all’unanimità, e altri casi in cui concorderebbero pressoché unanimemente di sottostarvi.

Se si chiedesse a tutti gli inglesi se sta loro bene che la maggioranza abbia la facoltà di definire il credo e imporre le forme del culto, buona parte di loro risponderebbe senza esitare di no. Se fosse loro domandato se vogliono impegnarsi ad obbedire al volere della maggioranza quanto allo stile e alla qualità dei loro capi di vestiario, o quanto possono o non possono bere, quasi tutti rifiuterebbero.

Quali sono, invece, i fini determinati in vista dei quali gli uomini sarebbero disposti ad accettare di cooperare? Per resistere a una eventuale invasione straniera l’accordo sarebbe unanime. Ad eccezione forse dei quaccheri, tutti si unirebbero in caso di una guerra difensiva (non però per una guerra offensiva). Pressoché unanime sarebbe anche l’accordo in vista della cooperazione contro i nemici interni, dato che tutti desiderano che la propria vita e proprietà siano protette dai delinquenti.

Ecco dunque la giustificazione che permette alla maggioranza di imporre, entro certi limiti, la propria autorità, ma si tratta di una giustificazione che permette anche di rifiutarla, quando questa si esercita al di là di quei limiti. In passato la funzione del liberalismo fu quella di porre un limite ai poteri dei re. In futuro la funzione del vero liberalismo sarà quella di porre un limite al potere dei parlamenti.

 

Citazioni rilevanti

Come lo Stato si espande nella società

«In parte la crescente regolamentazione dipende dal fatto che si seguono i precedenti, che acquisiscono maggiore autorità tanto più intrusiva diventa la legislazione. C’è il bisogno crescente di ulteriori obblighi e vincoli, che deriva dalle conseguenze impreviste e dai difetti degli obblighi e dei vincoli precedenti. Inoltre, ogni nuova ingerenza dello Stato rafforza il tacito assunto che lo Stato abbia il dovere di combattere tutti i mali e garantire tutti benefici. Più cresce il potere della burocrazia, più diminuisce la forza del resto della società di resisterne la crescita e il controllo. La moltiplicazione delle opportunità d’impiego prodotta da una burocrazia in crescita seduce i membri delle classi che le soggiaciono, portandoli a favorirne l’estensione, così che crescano le possibilità di lavori sicuri e rispettabili per i loro congiunti. Il popolo, ormai ridotto a credere che i benefici ottenuti per mezzo dell’intervento pubblico siano gratuiti, vede eccitare le proprie speranze dalla prospettiva di ottenerne ancora di più» (p. 57-58).

 

Le buone istituzioni dipendono dal carattere dei cittadini

«Il benessere di una società e la giustizia delle sue istituzioni dipendono alla fine dal carattere di chi ne fa parte; e il miglioramento nell’una e nelle altre non può aver luogo senza quel miglioramento del carattere che risulta dall’esercizio di una industriosità pacifica, sotto i vincoli imposti da una vita sociale ordinata. I socialisti, ma anche quei cosiddetti liberali che stanno diligentemente preparando loro la via, credono che con gli accorgimenti opportuni si possano da una natura umana imperfetta trarre delle istituzioni perfette.  È un’illusione. La natura manchevole dei cittadini si paleserà in azioni cattive, quale che sia la struttura sociale nella quale siano inseriti» (p. 72).

 

Appena eletti, diventano onniscienti

«Fintanto che sono dei semplici candidati, l’uno o l’altro partito si diverte a farne beffe, a denigrarli, a punzecchiarli, trattandoli in mille modi con la massima irriverenza. Ma appena entrano a Westminster, ecco che proprio coloro contro cui erano state lanciate, dalle colonne dei giornali o in pubbliche assemblee, minacce o invettive, e che erano stati accusati di incapacità o di follia, cominciano ad ispirare una fiducia illimitata. Se si dovese giudicare dalle preghiere loro rivolte, parrebbe non ci sia nulla che non sia a portata della loro saggezza e del loro potere» (p. 102).

 

Punti da ricordare

  • La società militare si basa sullo status, la società industriale sul contratto
  • La società militare è caratterizzata dalla cooperazione obbligatoria, la società industriale dalla cooperazione volontaria
  • I liberali di un tempo cercavano di ridurre il perimetro dello Stato, quelli di oggi cercano di ampliarlo
  • Le imposte rappresentano sempre una limitazione della libertà individuale
  • Le sofferenze derivanti dalla cattiva condotta sono curative e non vanno evitate
  • L’uomo politico non pensa mai agli effetti indiretti e remoti delle sue iniziative
  • Per mantenere i poveri immeritevoli a spese della società, si tassano le oneste famiglie lavoratrici e risparmiatrici
  • I continui fallimenti dell’intervento statale non distruggono mai la fiducia negli strumenti adoperati
  • Il legislatore non merita di essere perdonato per i disastri che procurano i suoi provvedimenti
  • Una burocrazia diventa, oltre un certo grado di sviluppo, pressoché irresistibile
  • Il socialismo è sempre una forma di schiavitù
  • La società è un corpo organico, non un manufatto modellabile a piacimento
  • Le attività private hanno contribuito al progresso incomparabilmente di più delle azioni dello Stato
  • L’applicazione dei principi della vita famigliare alla società nel suo insieme produce esiti rovinosi
  • I diritti individuali esistono prima dello Stato e della legge
  • La maggioranza può imporre la sua volontà alla minoranza solo per perseguire alcuni fini determinati
  • La funzione del vero liberalismo sarà quella di limitare il potere dei parlamenti

 

L’autore

Herbert Spencer

Herbert Spencer nasce il 27 aprile 1820 a Derby in Inghilterra. Compie studi di carattere scientifico e diventa ingegnere delle ferrovie a Londra. Pubblica in un primo tempo solo alcuni articoli politici ed economici, come La sfera propria del governo (1843). Nel 1845, ricevuta una piccola eredità, decide di seguire la sua vocazione filosofica e abbandona la carriera di ingegnere per dedicarsi allo studio e alla stesura di saggi di filosofia. Dal 1848 al 1853 è membro della redazione dell’Economist. Nel 1851 pubblica un testo di successo, Social Statics, nel quale applica il principio evoluzionistico alla vita sociale sposando una posizione individualistica radicale: in questo libro è presente un capitolo, intitolato “Il diritto di ignorare lo Stato”, che lo avvicina all’anarchismo. Nel 1855 pubblica i Princìpi di psicologia e nel 1857 Il progresso, sua legge e sua causa. Nel 1862 esce il primo volume del sistema di filosofia sintetica, Principi primi, che diventa uno dei capisaldi del positivismo. Seguono i due volumi dei Princìpi di biologia (1864-1867); e dei Princìpi di sociologia, probabilmente il suo capolavoro. A queste opere monumentali, che fanno di Spencer uno dei più ammirati e rispettati filosofi del mondo, aggiunge numerosi altri scritti, tra cui l’importante saggio L’uomo contro lo Stato (1884), che rappresenta la sua definitiva visione del liberalismo. Muore a Brighton l’8 dicembre 1903.

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Titolo originale: The Man Against the State

 

Indice del libro

Introduzione di Alberto Mingardi, p. IX

L’uomo contro lo Stato

Al lettore, p. 3

I. Il nuovo conservatorismo, p. 5

II. La schiavitù prossima ventura, p. 35

III. I peccati dei legislatori, p. 79

IV. La grande superstizione politica, p. 135

Poscritto, p. 183

Appendice

 Il giusto ruolo del governo, p. 197

 Indice dei nomi

Herbert Spencer, L’uomo contro lo Stato, Liberilibri, Macerata, 2016, p. 416, traduzione e introduzione di Alberto Mingardi.