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Maltrattamenti - Cassazione Penale: il reato non sussiste se la convivenza è breve

La Corte di Cassazione ha stabilito che il reato di maltrattamenti contro familiari e conviventi non si realizza se la convivenza tra imputato e persona offesa è instabile e di breve durata.

Nel caso in esame, il Tribunale di Bologna, investito dell’appello ai sensi dell’articolo 310 del Codice di Procedura Penale, confermava l’impugnata ordinanza, con la quale lo stesso Tribunale aveva respinto la richiesta di revoca della misura della custodia cautelare nei confronti di un imputato, sottoposto a cautela in relazione ai reati di maltrattamenti e lesioni personali aggravate in danno della convivente more uxorio.

Avverso tale decisione, l’imputato proponeva ricorso per Cassazione, ai sensi dell’articolo 311 del Codice di Procedura Penale, denunciando, oltre a diversi errori formali e sostanziali del provvedimento (diversa composizione del collegio giudicante al momento della pronuncia del dispositivo e al momento dell’assunzione della motivazione, assenza della firma del Presidente sul testo della decisione), vizio di motivazione in relazione alla ritenuta sussistenza dei presupposti del provvedimento restrittivo e del reato contestato.

Con riferimento al vizio sostanziale della pronuncia, la Suprema Corte ha stabilito che il reato previsto dall’articolo 572 del Codice Penale (“Maltrattamenti contro familiari e conviventi”) è ravvisabile non soltanto in caso di nuclei familiari fondati sul matrimonio, ma anche in presenza di una qualche relazione sentimentale che, per la consuetudine dei rapporti creati, implichi l’insorgenza di vincoli affettivi e aspettative di assistenza assimilabili a quelli tipici della famiglia o della convivenza abituale.

Lo stato di sofferenza e di umiliazione delle vittime non deve necessariamente collegarsi a specifici comportamenti vessatori, realizzati nei confronti di un soggetto determinato, ma può derivare anche da un clima generalmente instaurato all’interno della comunità come conseguenza di atti di sopraffazione indistintamente e variamente commessi a carico delle persone sottoposte al potere dei soggetti attivi, i quali ne siano tutti consapevoli, a prescindere sia dall’entità numerica degli atti vessatori che dalla loro riferibilità ad uno qualsiasi dei soggetti passivi.

Ciononostante, a giudizio della Corte, il delitto non è configurabile allorquando le condotte maltrattanti siano state commesse nell’ambito di un rapporto fra due persone che non abbiano convissuto se non per brevissimi periodi, instaurando un legame caratterizzato da precarietà e instabilità.

Affinché si configuri il reato in esame, è necessario che sussista un rapporto di convivenza stabile e di durata tale da creare un rapporto effettivo tra colpevole, vittima e abitazione, luogo dove il reato di maltrattamenti generalmente si realizza. Solo così può esistere la comunità al cui interno si determina il clima generatore della sofferenza e dell’umiliazione della vittima.

La Corte di Cassazione ha, dunque, accolto il ricorso dell’imputato, annullando l’ordinanza di custodia carceraria impugnata, rinviando gli atti al Tribunale di Bologna per una nuova deliberazione.

(Corte di Cassazione - Sezione Sesta Penale, Sentenza 4 novembre 2015, n. 1340)

La Corte di Cassazione ha stabilito che il reato di maltrattamenti contro familiari e conviventi non si realizza se la convivenza tra imputato e persona offesa è instabile e di breve durata.

Nel caso in esame, il Tribunale di Bologna, investito dell’appello ai sensi dell’articolo 310 del Codice di Procedura Penale, confermava l’impugnata ordinanza, con la quale lo stesso Tribunale aveva respinto la richiesta di revoca della misura della custodia cautelare nei confronti di un imputato, sottoposto a cautela in relazione ai reati di maltrattamenti e lesioni personali aggravate in danno della convivente more uxorio.

Avverso tale decisione, l’imputato proponeva ricorso per Cassazione, ai sensi dell’articolo 311 del Codice di Procedura Penale, denunciando, oltre a diversi errori formali e sostanziali del provvedimento (diversa composizione del collegio giudicante al momento della pronuncia del dispositivo e al momento dell’assunzione della motivazione, assenza della firma del Presidente sul testo della decisione), vizio di motivazione in relazione alla ritenuta sussistenza dei presupposti del provvedimento restrittivo e del reato contestato.

Con riferimento al vizio sostanziale della pronuncia, la Suprema Corte ha stabilito che il reato previsto dall’articolo 572 del Codice Penale (“Maltrattamenti contro familiari e conviventi”) è ravvisabile non soltanto in caso di nuclei familiari fondati sul matrimonio, ma anche in presenza di una qualche relazione sentimentale che, per la consuetudine dei rapporti creati, implichi l’insorgenza di vincoli affettivi e aspettative di assistenza assimilabili a quelli tipici della famiglia o della convivenza abituale.

Lo stato di sofferenza e di umiliazione delle vittime non deve necessariamente collegarsi a specifici comportamenti vessatori, realizzati nei confronti di un soggetto determinato, ma può derivare anche da un clima generalmente instaurato all’interno della comunità come conseguenza di atti di sopraffazione indistintamente e variamente commessi a carico delle persone sottoposte al potere dei soggetti attivi, i quali ne siano tutti consapevoli, a prescindere sia dall’entità numerica degli atti vessatori che dalla loro riferibilità ad uno qualsiasi dei soggetti passivi.

Ciononostante, a giudizio della Corte, il delitto non è configurabile allorquando le condotte maltrattanti siano state commesse nell’ambito di un rapporto fra due persone che non abbiano convissuto se non per brevissimi periodi, instaurando un legame caratterizzato da precarietà e instabilità.

Affinché si configuri il reato in esame, è necessario che sussista un rapporto di convivenza stabile e di durata tale da creare un rapporto effettivo tra colpevole, vittima e abitazione, luogo dove il reato di maltrattamenti generalmente si realizza. Solo così può esistere la comunità al cui interno si determina il clima generatore della sofferenza e dell’umiliazione della vittima.

La Corte di Cassazione ha, dunque, accolto il ricorso dell’imputato, annullando l’ordinanza di custodia carceraria impugnata, rinviando gli atti al Tribunale di Bologna per una nuova deliberazione.

(Corte di Cassazione - Sezione Sesta Penale, Sentenza 4 novembre 2015, n. 1340)