Mobbing sul lavoro: i presupposti per il risarcimento

mobbing
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Abstract

Per valutare la sussistenza di una condotta di mobbing da parte del datore di lavoro, non risulta sufficiente verificare l’illegittimità di taluni comportamenti datoriali, bensì è necessario provare in giudizio l’intento persecutorio che li unifica.  

 

Indice

1. Il caso oggetto di pronuncia

2. Mobbing lavorativo ed elementi qualificanti

3. La fattispecie del c.d. straining

4. Conclusioni sul straining

 

1. Il caso oggetto di pronuncia

Per mezzo della recente ordinanza n. 24833 del 4 ottobre 2019 la Corte di Cassazione (Sezione Lavoro) è nuovamente intervenuta in materia di mobbing sul luogo di lavoro e sui presupposti per l’ottenimento di una tutela in sede giurisdizionale da parte del lavoratore, cogliendo l’occasione per richiamare l’oramai consolidato orientamento abbracciato dalla giurisprudenza di legittimità negli ultimi anni e con riferimento, in particolare, al piano probatorio.

Nel caso di specie, una lavoratrice ricorreva innanzi al giudice del lavoro per vedersi ristorare pretesi danni da mobbing.

Nello specifico, quest’ultima era stata addetta – nel corso dell’ultima fase del suo rapporto lavorativo alle dipendenze di una società – a mansioni ben più elevate rispetto al proprio livello di inquadramento contrattuale, dacché aveva ritenuto che una simile scelta da parte della società datrice si prestasse ad assumere i tratti della persecutorietà e della vessatorietà.

 

2. Mobbing lavorativo ed elementi qualificanti  

Come anticipato, una volta investita della questione, la Corte ha avuto modo di effettuare una compiuta ricognizione dei principi che guidano la materia.

In particolare, può dirsi che, ai fini della configurabilità del mobbing lavorativo, un primo elemento che deve costituire oggetto di valutazione è rappresentato “non dall’illegittimità di singoli atti” bensì dall’intento persecutorio che li unifica.

Il datore di lavoro (o, comunque, il superiore gerarchico del dipendente pretesamente mobbizzato), in altri termini, incorre nella fattispecie del mobbing ogniqualvolta tenga condotte nell’ambiente lavorativo – e nei confronti del prestatore di lavoro – che siano sistematiche e protratte nel tempo e che si traducano, secondo quanto affermato dalla Cassazione, in vere e proprie forme di “prevaricazione o di persecuzione psicologica (al riguardo, si legga anche Cassazione, Sezione Lavoro sentenza n. 3785 del 17 febbraio 2009, sentenza n. 898 del 17 gennaio 2014, nonché sentenza n. 12437 del 21 maggio 2018).

Appare evidente come ciò non rilevi di per sé, ma soltanto con riferimento ad effettivi danni patiti dal dipendente in ragione di tali comportamenti e, nello specifico, il dipendente deve ritrovarsi in uno stato di emarginazione e mortificazione personale che, stando alla sentenza in oggetto, leda il “suo equilibrio psicofisico” e il “complesso della sua personalità.

Affinché possa provvedersi ad una condanna del datore di lavoro, tuttavia, l’onere probatorio che incombe sul prestatore di lavoro danneggiato risulta particolarmente gravoso.

Quest’ultimo, infatti, è chiamato ad offrire idonea dimostrazione della totalità dei seguenti elementi:

la molteplicità di illeciti comportamenti persecutori (o, in alternativa, di condotte astrattamente lecite se analizzate singolarmente, ma che siano perpetrate con modalità miratamente sistematiche e prolungate “contro il dipendente con intento persecutorio”),

l’effettiva lesione della salute ovvero della personalità del dipendente,

il nesso di causalità tra i comportamenti in argomento e i pregiudizi patiti, nonché

la sussistenza dell’elemento soggettivo e, quindi, dell’intento persecutorio/discriminatorio.

 

3. La fattispecie del c.d. straining

Da quanto esposto, emerge con estrema evidenza l’assoluta difficoltà di provare in giudizio la totalità degli elementi costitutivi della fattispecie del mobbing e, in effetti, da una mera analisi dei precedenti giurisprudenziali può agevolmente notarsi l’infrequenza di effettive condanne.

Ci si è, con ciò, accorti di come, in assenza del soddisfacimento di un simile – e gravoso – onere, un eccessivo numero di ipotesi, comunque dannose, restasse al di fuori dell’area di tutela del lavoratore.

Pertanto, la giurisprudenza ha ritenuto opportuno individuare una forma attenuata di mobbing che comportasse, comunque, il risarcimento dei pregiudizi patiti dal prestatore. Con il termine “straining” (adottato dapprima dalle elaborazioni della scienza psicologica), infatti, si intende generalmente l’ipotesi in cui il datore di lavoro ponga in essere condotte “stressogene” che, seppur non riconducibili ad un preciso disegno discriminatorio e persecutorio, possano comunque ritenersi idonee a ledere diritti fondamentali e a ingenerare in capo al prestatore di lavoro pregiudizi più tenui (cfr. anche Cassazione, Sezione Lavoro, sentenza n. 3291 del 19 febbraio 2016).

Al riguardo, quanto all’onere probatorio gravante sul lavoratore, questi può limitarsi a dimostrare la sussistenza di un danno, “la nocività dell’ambiente di lavoro, nonché il nesso tra l’una e l’altra”.

Soltanto innanzi alla prova di simili elementi, il datore di lavoro, sulla scorta di quanto generalmente prescritto dall’articolo 2087 Codice Civile in materia di tutela delle condizioni di lavoro, sarà onerato di provare di aver posto in essere tutte le cautele necessarie ad impedire il verificarsi del danno e, quindi, di scongiurare il rischio di una condanna al risarcimento.

 

4. Conclusioni sul straining

Applicando i principi richiamati al caso concreto, la Corte di Cassazione, nel rigettare le domande del lavoratore ricorrente, ha escluso che nel caso di specie potesse configurarsi la fattispecie di mobbing e, a ben vedere, nemmeno quella di straining.

La lavoratrice non aveva, infatti, offerto adeguata prova né della discriminatorietà dei comportamenti e, peraltro, nel ritenere la totale “esiguità del periodo” cui ascrivere le condotte, ne ha negato qualsivoglia sistematicità.