Obiezione o illusione?
Abstract
Un «banco di prova» per le teoriche dei diritti umani tra coscienza e coerenza: nuove questioni e vecchi problemi a partire da due recenti pronunzie della Corte di Strasburgo.
A test bed for human rights theorists between conscience and coherence: new issues and old problems starting with two recent rulings of the Strasbourg Court.
Sommario
1. Premesse
2. Obiezione od opzione? Palingenesi di vecchie illusioni…
3. Coscienza o coerenza?
4. Epilogo: esclusività di un’inclusione. Coerenza rispetto a che cosa?
Summary
1. Premises
2. Objection or option? Palingenesis of old illusions ...
3. Consciousness or consistency?
4. Epilogue: exclusivity of an inclusion. Consistency with respect to what?
1. Premesse
Il tema che ci occupa impone di svolgere alcune preliminari considerazioni e richiede alcuni non agevoli chiarimenti sul piano concettuale. Essi, data la natura del contributo e la brevità che è richiesta, non potranno disvilupparne compiutamente le problematiche intrinseche, cionondimeno potranno dare conto di alcune, almeno, delle questioni «di fondo» (poiché fondamentali e fondative in un tempo), le quali rappresentano l’ubi consistam della intiera vicenda e non solo...
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Con quattro domande apparentemente banali, allora, potremmo già definire gl’assi cartesiani della nostra analisi:
che cosa si intende per obiezione?
Che cosa si intende per coscienza?
Che cosa si intende per Ordinamento giuridico?
Che cosa vuole significare la norma positiva che all’interno dell’Ordinamento medesimo contempla la c.d. obiezione di coscienza?
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Il discorso, ovviamente, se muove in questa sede dal recente caso relativo alle due sentenze della Corte di Strasburgo con le quali fu rigettata l’istanza delle ostetriche «obiettrici» rispetto alla pratica dell’aborto[1] – obiezione, ça va sans dire, che costò loro assai caramente, avendone compromessa la carriera lavorativa –, esso nasce in verità molto prima e molto più profondamente. Anzi, si tratta di un discorso il quale involge l’Ordinamento tutto e il quale concerne, sotto un certo profilo, lo stesso paradigma archetipico del diritto soggettivo, come a dire, quindi, che il problema cennato va oltre al caso de quo e in questo si manifesta sulla base di assai più remote premesse.
L’ultima domanda, infatti, alla quale occorre francamente rispondere, o, se si vuole, la prima in ordine di importanza, involge la stessa compatibilità concettuale della c.d. obiezione di coscienza rispetto al e all’interno del Sistema-Ordinamento, dello Stato, insomma, quale organismo… sovrano per definizione[2].
È dunque logicamente possibile e sistematicamente compatibile una «formula» di legalità dell’obiezione alla legge, o rappresenta essa, invece, una contradictio in adiecto?
2. Obiezione od opzione? Palingenesi di vecchie illusioni…
Procediamo con ordine e vediamo subito di capire che cosa si intenda con «obiezione» e in che cosa, dunque, l’obiezione consista e possa consistere; ciò, ovviamente, con riferimento e limitatamente alla «figura» di obiezione di coscienza contemplata dall’Ordinamento positivo.
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A titolo d’esempio rammentiamo che il Sistema di ius positum della Repubblica italiana – quivi considerato per semplicità e comodità espositiva – non contempla solo l’obiezione di coscienza del personale sanitario rispetto alla pratica dell’aborto (ex L. 194/1978), ma anche l’obiezione di coscienza del renitente alla leva rispetto al servizio militare (ex L. 772/1972 c.d. Legge Marcora, poi sostituita dalla disciplina sub L. 230/1998), l’obiezione di coscienza del medico dipendente da una Struttura sanitaria rispetto alle cc.dd. pratiche di procreazione medicalmente assistita (ex art. 16, L. 40/2004) e l’obiezione di coscienza da parte di chiunque ne sia coinvolto, compresi ricercatori, tecnici, financo studenti dell’Università, rispetto alla esperimentazione sugli animali (ex L. 413/1993).
In tutti questi casi, come è noto, l’obiezione di coscienza, da chiunque la invochi per sé, si esercita e può essere esercitata, coeteris paribus, senza fornire alcuna ragione giustificatoria: essa è concepita dall’Ordinamento che la introduce, cioè, come assolutamente libera e insindacabile, come prerogativa del velle acriticamente sussumibile entro la fattispecie astratta che ne contempla e definisce l’attuabilità legale (sotto il profilo dell’an, del quando, del quomodo).
Altro discorso, che con questo non va confuso, invece, è quello che concerne eventuali limiti posti dal Legislatore rispetto alla attuale possibilità di esercizio, comunque «libero», delle prerogative de quibus, delle cc.dd. obiezioni di coscienza previste dalle norme di ius positum.
I cc.dd. limiti di legge (come anche le eventuali conseguenze), infatti, siano essi formali, procedurali, legati alla conformazione della fattispecie et coetera non sono affatto criterii in senso proprio, né essi impongono o richiedono una qualche giustificazione dell’attività compiuta all’interno del loro perimetro: essi sono meri argini rispetto all’esercizio di un potere in se negativo, onde in loro assenza il potere è pieno e in loro presenza ne è conculcato in parte qua.
Di talché, dal punto di vista dell’Ordinamento giuridico che la introduce, la «legittimità» dell’obiezione in parola non promana dal contenuto che essa ha, dalla ragione che essa reca seco, dal principio cui essa presta o pretende di prestare fedele ossequio (non immediatamente almeno); quanto piuttosto deriva dalla sua… legalità formale, ovverosia dal suo essere tecnicamente riconducibile entro gl’estremi della norma positiva che la prevede e conforma secondo un dato schema operativo, irrilevanti essendo i motivi[3] (le ragioni intime, le motivazioni psicologiche) in virtù dei quali il soggetto la solleva per se.
Quando la norma sub art. 9 della L. 194/1978, per esempio, al co. III limita l’operatività dell’obiezione di coscienza alle sole pratiche interruttive della gravidanza stricto sensu intese e non anche a quelle concernenti la “assistenza antecedente e conseguente all’intervento”, pur essendo esse giuocoforza ausiliarie; o quando al successivo co. V la medesima legge stabilisce che “l’obiezione di coscienza non può essere invocata dal personale sanitario […] quando, data la particolarità delle circostanze, [… lo (nda)] intervento è indispensabile per salvare la vita della donna in imminente pericolo”, essa né pone un vero e proprio criterio rispetto al sollevamento della c.d. obiezione (anzi…), né impone, per l’attuabilità della stessa, l’esplicitazione di un qualsivoglia compendio motivazionale rilevabile e vagliabile anche solo sotto la lente teorica della coerenza (anzi…). Tutt’altro: la norma in parola, infatti, solo pone due limiti di carattere operativo rispetto alle condizioni e/o ai modi di esercizio della libertà negativa[4] che essa consente e legittima all’interno degli stessi.
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Diverso, invece, dovrebb’essere ed è il caso della L. 219/2017 sulle cc.dd. disposizioni anticipate di trattamento, la quale al co. VI dell’art. 1, prevedendo che “il paziente non può esigere trattamenti sanitari contrari a norme di legge, alla deontologia professionale o alle buone pratiche clinico-assistenziali [e che (nda)] a fronte di tali richieste, il medico non ha obblighi professionali”, non introduce ex se una vera e propria obiezione di coscienza per il personale sanitario interessato[5], non almeno una figura di obiezione di coscienza analoga alle altre testé citate, quanto piuttosto esplicita – potremmo anche dire pleonasticamente – un criterio oggettivo e dunque una regola di condotta intrinseca alla professione, la quale disciplina e «legalizza» il rifiuto del medico di assecondare la volontà del paziente qualora essa sia contraria all’obbiettività dei principii proprii della stessa arte medica. Qui non rileva affatto, quindi, il convincimento personale del medico, la sua opinione lato sensu intesa, quanto piuttosto rilevano la finalità e l’ordine intrinseci alla sua stessa professione, tanto che potrebbe anche rilevarsi a contrario una vera e propria illegittimità, non solo deontologica, nell’ipotesi nella quale il medico, anziché respingerla, assecondasse una siffatta richiesta del suo «assistito».
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Ebbene, a tutti è noto come obiettare significhi in qualche modo manifestare un contrasto, contrapporsi rispetto a qualche cosa, opporre, comunque, un’argomentazione a un’altra, implicita o esplicita che essa sia (se in modo necessariamente fondato o meno, poi, ciò rappresenta un ulteriore nodo problematico).
L’obiezione propriamente detta, quindi, specialmente quand’essa concerna un «contrasto» con il sistema normativo di riferimento, è fatta per incontemperabili ragioni di «principio» lato sensu inteso, dunque… per una forma di dissenso radicato non già nelle procedure o in aspetti applicativi d’una ratio condivisa e mutualmente accolta, quanto piuttosto e all’opposto nei postulati concettuali di una precisa Weltanschauung, i quali si contrappongono ex se a quelli di una diversa.
Aut… aut, insomma!
L’etimologia è eloquentissima in proposito: il verbo italiano obiettare, infatti – ci sia consentito un minimo excursus – deriva dal latino obiectāre (obiecto, -as, -avi, -atum, -āre), il quale significa, propriamente, opporre ragioni; esso invera, infatti, una forma rafforzativa del verbo obicĕre (obicio, -is, -ieci, -iectum, -ĕre), composto dal prefisso ob-, il quale rimanda al significato della preposizione ob che seguita dall’accusativo rende il senso dell’andare verso o contro qualche cosa (con i verbi cc.dd. di moto o di stato), e dal verbo iacere (iacio, -is, ieci, iactum, -ĕre), a sua volta traducibile coll’italiano gettare.
Obiettare, obiectāre, o meglio obiacĕre, significa dunque, etimologicamente, gettare avanti, contrapporre, contrapporsi, porsi contro, opporre qualche cosa in termini radicali, ed esso è effettivamente il senso, il significato «escludente», che anche nel linguaggio comune e nel comune uso se ne dà.
L’obiezione, infatti, ha natura escludente ed esclusiva: essa, cioè, esclude ex se quanto rifiuta e quanto considera incompatibile colle categorie concettuali le quali, almeno soggettivamente, la fondano, e si esclude in termini radicali dal contesto, dalla Weltanschauung, alla quale si oppone e contro la quale è sollevata e si solleva in ragione di in principio lato sensu inteso.
Colui il quale obietta, insomma, manifesta un disaccordo, un dissenso «di fondo», non una semplice contrarietà, non si limita a muovere un’eccezione dall’interno: egli ricusa, al contrario, di accettare un dato «assetto» in quanto ritenuto inaccoglibile sul piano valoriale, e con tanto egli se ne pone immediatamente al di fuori e contro. Il «contro», in questo caso, è necessariamente motivato da un «per» ritenuto superiore e intransigibile.
Non si tratta, quindi, di sollevare un vizio dall’interno di un dato contesto o sistema il quale si accetta e non si discute… in linea di «principio»; non si tratta di eccepirne un vulnus, ma all’opposto si tratta di contestarlo per un dissenso radicale e inconciliabile rispetto alle sue stesse rationes, sia pure – ma questa è mera res facti – in occasione di un peculiare aspetto applicativo delle stesse. Transeat sul resto.
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Quello che risulta chiaro, allora, al di là di ogni raffinatezza linguistica sulla quale non è mestieri di soffermarsi oltre, è il significato etimologico (non ideologico!) della parola in disamina e dunque dell’espressione che la contiene: obiezione di coscienza. Essa, infatti, vuole significare un rifiuto opposto, una contrapposizione, un dissenso radicali, motivati… da cc.dd. ragioni di coscienza, vale a dire motivati da un convincimento personale ritenuto assiologicamente superiore – questo è il punto! – rispetto a quello implicitamente o esplicitamente sottostante al contesto nei confronti del quale l’obiezione medesima è sollevata.
Ecco dunque che è la ritenuta superiorità assiologica a fondare e a giustificare, almeno ex latere subiecti – a provocare forse sarebbe meglio dire –, il movimento della volontà concretantesi nell’obiezione di coscienza. Di talché, il piano di riferimento diviene immediatamente quello dei valori, o comunque quello di ciò che soggettivamente viene considerato come valore, e in ispecie come valore intransigibile e non relegabile alla sfera del proprio «privato»[6] (se a torto o a ragione, poi, è argomento sul quale ci soffermeremo dopo).
La qualcosa, a sua volta – si badi molto bene – ne implica un’altra non meno rilevante e anzi fondamentale: cioè… la possibilità di operare un sindacato valoriale sopra il contesto contro il quale l’obiezione è punto sollevata; ne implica, in altre parole, la sua opinabilità e comunque ne esclude il carattere assoluto, supremo, insindacabile.
Può muoversi obiezione di coscienza, invero, solo considerando il giudizio della propria coscienza come superiore rispetto al contesto contro il quale l’obiezione è sollevata e solo considerando, ex ante, il contesto di riferimento come soggetto al vaglio della coscienza.
Non entriamo ora nel merito del problema relativo alla coscienza e al che cosa essa sia, poiché l’affronteremo, pur brevemente, in appresso. In questo momento e ai fini di questo primo, embrionale discorso basti il rilievo fatto, e cioè basti considerare che nella natura dell’obiezione di coscienza vi sono tre elementi consentanei e imprescindibili: il primo α) concerne il rifiuto, l’atto di dissenso e la sua materiale concretazione contro un dato sistema; il secondo β) involge, se così possiamo dire, il piano motivazionale che ne è causa, la motivazione, quindi, vera o presunta che sia, la quale sta alla base del diniego opposto e la quale afferisce necessariamente al piano della c.d. coscienza, o, meglio, al piano valoriale (che poi sia fondato o meno, è questione d’altra natura sulla quale ci soffermeremo dopo); il terzo γ) , in fine, riguarda la non-insidacabilità del contesto di riferimento e la soggezione delle sue rationes al vaglio di una coscienza soggettiva e personale lato sensu intesa.
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Se questo è chiaro, allora, e lasciando per adesso in disparte il citato piano motivazionale e dunque l’aspetto della coscienza quale «causa» dell’obiezione, un dato a parere nostro va immediatamente registrato e tenuto per fermo: l’obiezione, in quanto tale, e se essa è una vera obiezione, pone il soggetto che la eserciti tosto al di fuori e contro rispetto al sistema cui egli, con l’obiezione in parola, punto si oppone; ciò anche se le occasioni dell’opposizione, e dunque del contrasto alle rationes del sistema considerato, s’inverino, come detto, in una o in alcune soltanto delle sue possibili declinazioni o applicazioni concrete.
Vero è bene, infatti – lo sottolineiamo per massima chiarezza – che colui il quale contesti un peculiare assetto del sistema considerato, sulla base di criterii allo stesso interni e invocando le rationes cui esso s’ispira e le quali, magari, esso stesso ha occasionalmente tradite o male applicate (dando luogo a una contraddizione sostanziale), egli non solleva obiezione di coscienza al sistema, non si contrappone al sistema in virtù di un’istanza da lui ritenuta superiore, ma al contrario ne chiede ed esige la massima coerenza, la più compiuta e fedele applicazione.
Ricusare l’ubbidienza a una legge, infatti, invocando la ratio di una norma a questa gerarchicamente superiore, all’interno del c.d. piano delle fonti normative, al di là di ogni nomen e al di là di ogni formula roboante, non è sollevare un’obiezione di coscienza, ma è all’opposto applicare un criterio logico formale – lex superior inferiori derogat –, il quale consente e invoca la massima coerenza interna del sistema di riferimento contro una sua stortura applicativa. Non il piano dei valori, infatti, quivi entra in giuoco – assolutamente no! –, quanto piuttosto quello logico-geometrico, quello della coerenza delle conseguenze rispetto alle premesse, quello dell’ordine formale interno, della non contraddizione applicativa…
Ergo l’obiezione, in quanto obiezione non può mai essere fatta propria, nemmeno in termini potenziali o eventuali, dal contesto che la provochi: sarebbe come concedere che un dato Ordinamento, informato a determinate rationes e indirizzato al perseguimento di altrettanto determinate finalità, possa includere tra queste, senza contraddirsi e negarsi, ciò che esse escludono e oppongono in termini concettuali. Delle due l’una, infatti: o vi è un’opposizione a un dato sistema, in quanto il movente, il motivo dell’opposizione medesima è teoricamente contrario rispetto alle rationes del sistema considerato, e dunque viene a operarsi una reciproca e inevitabile esclusione logica (aut… aut, come si diceva); o viceversa esso ne è comunque incluso rappresentandone una componente, un formante, e quindi l’obiezione è solo apparente, non trattandosi di opposizione, ma piuttosto di rivendicazione rispetto a una facoltà, o a un’opzione, magari in parte conculcate o rese malagevoli, comunque appartenenti al côté concettuale di riferimento.
Ebbene, quest’ultimo genere di appello, questa eventuale iattanza, non è propriamente contro e fuori rispetto al «suo» sistema (e nemmeno essa compendia un’indigenza della coscienza autonoma di fronte al sistema medesimo), ma è con e all’interno di questo, giacché altro è invocare un’istanza valoriale diversa e ritenuta superiore rispetto ai costitutivi concettuali del sistema cui si obietta, e altro, tutt’altro, è invocare per sé e in casibus una coerente applicazione degli stessi qualora conculcati, negati, traditi per difetto di coerenza.
In questo secondo caso, per tanto, la coscienza, qualunque significato essa abbia, o voglia alla stessa attribuirsi, non ha alcun rilievo e l’appellazione a quella è del tutto impropria, fuorviante, speciosa (se non come… coscienza del sistema, o meglio di sistema).
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L’Ordinamento giuridico, quindi, come qualsivoglia sistema, anche meno complesso, non può propriamente prevedere, contemplare, includere nella coorte delle facoltà che esso ammette quella di opporre un’obiezione di coscienza contro sé stesso, un rifiuto ideale di sé, una contrapposizione al proprio ordine e alle proprie rationes, quand’anche il rifiuto de quo fosse occasionato o potesse occasionarsi da una sola delle sue applicazioni; e ciò, non solo per ragioni di logica elementare, ma anche per motivazioni di ordine operativo, giacché la codificazione dell’obiezione stricto sensu intesa darebbe conto di un’eterogenesi dei fini incompatibile colla stessa organicità e colla stessa coerenza dell’Ordinamento in quanto… ordinamento.
L’obiezione di coscienza quale species della resistenza alla legge ingiusta – torneremo dopo su questo punto – mai può essere codificata e istituzionalizzata all’interno dell’Ordinamento del quale la legge ingiusta è parte: o, infatti, l’Ordinamento non considera ingiusta la legge in parola, e quindi non può ammettere che si sollevi obiezione contro la stessa (dura lex, sed lex); o, all’opposto, l’Ordinamento si avvede dell’ingiustizia di una propria norma – recte, della sua incoerenza rispetto alle di lui rationes fondative – e allora la abroga… essendo assurdo e logicamente impossibile che ne mantenga in essere la vigenza.
Se poi la norma positiva ammettesse una certa forma di disponibilità del suo stesso precetto, giusta le condizioni e le forme dalla stessa prevedute, un tanto sarebbe pur possibile senza dare luogo a particolari problemi logici, ma ancora una volta del tutto improprio e del tutto fuorviante sarebbe ogni riferimento a una species di obiezione di coscienza: né di coscienza quale giudice dell’Ordinamento, infatti, né di obiezione quale rifiuto dello stesso, si tratta, quanto piuttosto di facoltà od opzione legale.
Colla codificazione dell’obiezione di coscienza, invero, anche limitata e arginata ratione materiae ad alcuni «ambiti» soltanto, e anche circoscritta formalmente da una precipua fattispecie astratta (o norma c.d. tecnica), l’Ordinamento certificherebbe il proprio carattere «anomico», la propria struttura «disponibile», il proprio assetto anarchico in senso etimologico[7] ovverosia senza principii, e quindi… esso certificherebbe il fatto di non ordinare nulla… nemmeno sé stesso, proprio deficitando in nuce di una ratio ordinandi. Questo già in punto di teoria! Ché, infatti, se possono opinarsi le rationes di un dato sistema, e se possono ritenersi altre a quelle superiori, che cosa non può esserne vagliato, discusso, ricusato?
Per meglio dire, allora, l’Ordinamento che ammettesse una vera e propria obiezione di coscienza mostrerebbe di considerare (almeno) una parte delle proprie rationes – quelle punto suscettibili di obiezione – come opinabili, ma il comando cui esse portano e dalle quali è sorretto, in quanto tale, mai può essere opinabile, come mai possono esserlo, ancora prima, le ragioni che esso medesimo invoca e alle quali esso stesso si appella implicitamente o esplicitamente.
Le rationes, infatti, in quanto «fondative» rispetto al sistema che le fa proprie, non possono essere ricusate senza immediatamente ricusare l’Ordinamento tutto. Simul stabunt, simul cadent… Quindi, o le norme in parola, oggetto di obiezione, sono a loro volta contrarie rispetto alle rationes del Sistema cui esse stesse appartengono, e dunque il di loro rifiuto è atto di coerenza col Sistema e col suo «ordine», non obiezione motivata da ragioni di «coscienza»; o esse ne inverano, all’opposto, una effettiva declinazione, e allora il fatto di contestarle già pone il contestatore fuori e contro rispetto al Sistema de quo. Altro, infatti, è considerare illegittima una norma in quanto contraria rispetto a una superiore sul c.d. piano delle fonti normative, e altro è contestarla in quanto, pur coerente col proprio sistema e applicativa delle sue rationes, è essa ritenuta incompatibile rispetto a un compendio valoriale diverso e superiore (cui il Sistema de quo sarebbe invece tenuto ad adeguarsi e a conformarsi). Che poi il compendio valoriale de quo sia essa πάν-individuale, intimo, o piuttosto «mutuato» da un atto di fede, comunque denominato e denominabile, rispetto a una «credenza» variamente strutturata in dogmi, gerarchie et coetera, non ha particolare rilievo a questi fini.
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Il problema, però – si badi bene – non è legato alla disponibilità di un dato precetto in quanto tale, questo – come abbiamo testé osservato – sarebbe ed è ancora possibile senza offendere la logica, e quante sono le norme disponibili! Quanto piuttosto esso è legato alla opinabilità delle sue rationes, ovverosia alla possibilità di opporre, contro quella dell’Ordinamento, una Weltanschauung ritenuta dall’individuo per sé superiore e contingentemente normativa… in luogo della lex posita. Ancora prima, però, il problema è dato a monte dalla stessa sindacabilità dell’Ordinamento giusta i canoni di una Weltanschauung personale, di una coscienza personale lato sensu intesa.
Altro, infatti, è optare per un’alternativa offerta, giusta la teoria del sistema che la offre fra molte concesse, e altro – tutt’altro – è opporre, rispetto a un obbligo e/o a una richiesta che declina in sé la ratio dell’Ordinamento di riferimento, un rifiuto motivato da ragioni, appunto di coscienza, allo stesso estranee (e ritenute superiori). E questo l’Ordinamento non può giammai ammettere senza certificare la propria αὐτή-negazione: l’Ordinamento, cioè, non può ammettere che esistano «valori» o «sistemi di valori» superiori rispetto a quelli che esso stesso ha fatti proprii per sé e pel proprio Sistema; non può ammettere che un proprio soggetto consideri qualche cosa come superiore a sé, o che egli surroghi, a quello operato per norma, un proprio e diverso assetto valoriale. L’Ordinamento giuridico positivo, cioè, non può ritenere che rispetto anche a un solo tema vi possa essere e possa parallelamente coesistere con la propria, una ratio ritenuta superiore e idonea a giustificare una obiezione stricto sensu intesa, cioè un’opposizione di «principio».
Rendere disponibile un diritto, contemplare una facoltà ex multis, non prescrivere una data condotta, ammettere la coesistenza di una pluralità di alternative, sulla base di un giudizio valoriale fatto dall’Ordinamento medesimo, attraverso la legge, giusta le proprie rationes di fondo e pel perseguimento dei proprii fini contingenti (cc.dd. politici), è infatti cosa del tutto diversa dall’ammettere per legge e per norma che quanto l’Ordinamento ritiene dovuto sulla base del proprio assetto assiologico, possa essere ritenuto non-dovuto o addirittura vietato sulla base di un assetto «ontologico» contrario ed equipollente, se non già superiore.
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Che cosa osta a ciò, oltre alle più evidenti ragioni della logica? Ebbene, potrebbe agevolmente dirsi che l’ostacolo maggiore, almeno da un punto di vista formale, è rappresentato dall’assunzione del dogma della sovranità quale archetipo dell’Ordinamento positivo proprio del c.d. Stato moderno e quale legante concettuale interno allo stesso. La sovranità, infatti, inverandosi, per definizione, nella supremazia interna e nell’indipendenza esterna[8], ha per sé stessa il carattere della esclusività, nel senso che essa è escludente rispetto a qualsivoglia opzione contraria a sé. Non solo: anche la correlata concezione di un sistema di fonti normative quali “fattori giuridici dell’ordinamento, previsti e disciplinati da apposite norme costitutive dell’ordinamento stesso”[9] è di per sé medesima impeditiva rispetto alla «inclusione» dell’obiezione di coscienza e del vaglio che essa postula rispetto all’Ordinamento in quanto tale, imperocché opinando la derivazione del diritto tutto (dello ius) dalle norme positive e dal loro sistema o combinato disposto (dallo iussum), non può mai ammettersi altro diritto che quello positum. Quale ne sarebbe, infatti, la fonte?
Ciò vale – si badi – non solo per il c.d. positivismo forte di matrice per esempio rousseauiana, ma anche per la sua declinazione debole, propria della contemporaneità politico-giuridica figlia del radicalismo liberale e dei costituzionalismi personalistico-mounieriani[10]. Anche qualora, infatti, lo Stato voglia farsi e si faccia strumento per la realizzazione delle progettualità individuali attraverso le proprie Istituzioni, e attraverso la progressiva e «bilanciata» trasformazione delle pretese in diritti, giusta il giuoco della politologia[11], il carattere includente che esso assume, quale epifenomeno di un certo nihilismo valoriale, non cessa di mantenere una forte, anche se velata, connotazione esclusiva: le pretese e le progettualità che esso assurge al rango di diritto e la realizzazione delle quali esso favorisce o può favorire collettivisticamente, altro non hanno alla base, se non scelte e opzioni in se sovrane[12], le quali escludono tout court la legittimità e la praticabilità di ogni scelta e di ogni opzione comunque contraria. Il ϑάντασμα del pluralismo, del relativismo e finalmente del nihilismo, il quale renderebbe «mite» il diritto positivo e le sue fonti, allora, sta prima e sta alla base; se si vuole esso sta nel fulcro di un sistema-Stato inteso come «processo» che genera sé medesimo modularmente – come direbbe Castellano[13] –, a seconda delle circostanze, dei poteri in giuoco, dell’equilibrio delle forze.
Sul tema de quo già avemmo modo di esprimerci[14]. Non ci soffermiamo oltre; solo facciamo notare il problema, con due semplici e immediati esempii: l’opzione dello Stato a favore del divorzio, accogliendo la pretesa di far diventare diritto l’inadempimento dell’obbligazione assunta col negozio matrimoniale e di mettere nel nulla il contenuto della promessa fatta, ha immediatamente conculcato la libertà e la pretesa del coniuge il quale, invece, all’opposto, desiderasse di permanere nello status coniugale. Di talché… l’Ordinamento sovrano, legalizzando per norma l’esercizio d’una libertà negativa, sulla base di un’opzione coerente con le proprie rationes, ne ha impedita quella contrastante. Lo stesso vale per la disciplina delle cc.dd. unioni civili tra persone dello stesso sesso. Anche in questo caso, infatti, lo Stato, trasformando in diritto il desiderio di due individui di formalizzare un rapporto interpersonale privo di causa oggettiva e oggettivabile[15], e conformandolo sulla falsariga del vincolo di coniugio, ha conculcato o comunque non ha legalizzato allo stesso modo l’identica istanza di libertà (negativa) di coloro i quali desiderassero di stipulare un’unione civile non limitata a due persone ma… allargata anche ad altre (poligamica), o quella di coloro i quali desiderassero la legalizzazione prima e la formalizzazione poi d’una relazione incestuosa. Come il Lettore avrà inteso, gl’esempii potrebbero proseguire lungamente. Tutti certificano e certificherebbero quanto supra cennato, ovverosia che la struttura sovrana dell’Ordinamento positivo inevitabilmente conserva, anche nella sua figura meno autoritaria e più inclusiva possibile, anche nella sua declinazione americana – come direbbe Castellano[16] – il duro carattere della esclusività, quale conseguenza coerente e inevitabile del canone della sovranità.
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