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Occupazione femminile: il genere di lavoro che non piace all’Italia

Lo specchio di Comacchio
Ph. Luca Martini / Lo specchio di Comacchio

Abstract

L’emergenza sanitaria ha cancellato in un anno oltre il 40% dell’occupazione femminile creata tra il 2008 e il 2019 e nel mese di ottobre 2021 l’aumento dell’occupazione ha riguardato solo gli uomini. La speranza è che con il PNRR si possa ridurre il divario di genere sul lavoro, anche colmando il digital gender gap.

 

1. Occupazione femminile: le ultime rilevazioni dell’ISTAT

È il dato sull’occupazione femminile a colpire di più nelle ultime rilevazioni ISTAT: rispetto al mese precedente, in quello di ottobre 2021, l’aumento dell’occupazione (+0,2%, pari a +35mila unità) ha riguardato solamente gli uomini.

Anche se lo scorso settembre era stata proprio l’occupazione femminile a crescere di più, nel mese successivo le donne sono indietro (sia pure di poco) in quasi tutti gli indicatori:

  • l’inattività cala tra le donne di 0,1 e tra gli uomini di 0,3 punti;
  • l’occupazione femminile resta stabile mentre cresce di 0,2 punti quella maschile;
  • la disoccupazione cresce di 0,2 punti per entrambe le componenti.

Se ottobre 2021 segna 390 mila occupati in più rispetto allo stesso mese dello scorso anno, di questi oltre due terzi sono uomini (271 mila); le donne non superano le 118 mila unità.

D’altronde nell’ottobre 2021 il tasso di occupazione femminile fra i 15-64 anni si attesta al 49,5% contro il 67,8% di quella maschile (stessa fascia d’età), mentre il tasso di disoccupazione femminile per le donne è al 10,7% contro l’8,10% di quella maschile.

Dunque le donne lavorano meno degli uomini e sono anche più disoccupate.

 

Il divario di genere nell’ultimo Rapporto SVIMEZ

L’emergenza sanitaria ha cancellato in un anno oltre il 40% dell’occupazione femminile creata tra il 2008 e il 2019 ed ha riportato il tasso d’occupazione delle donne a poco meno di due punti sopra i livelli del 2008. È quanto certifica la SVIMEZ nel suo ultimo Rapporto (2021).

Nel biennio tra il secondo trimestre 2019 ed il secondo trimestre 2021, l’occupazione femminile si è ridotta in Italia di 370 mila unità pari al -3,7% a fronte di un calo di 308 mila unità per gli uomini (-2,3%).

Il calo dell’occupazione femminile è stato più accentuato nel Mezzogiorno: rispetto al secondo trimestre 2019 l’occupazione femminile nel Sud si è ridotta di 117 mila unità, pari al -5%, a fronte del -3,3% del Centro-Nord (253 mila unità).

Tuttavia il calo complessivo risulta attenuato da una recente e forte ripresa: nel secondo trimestre 2021, su base annua, l’occupazione femminile, rispetto al secondo trimestre 2020, è aumentata di 295 mila (+3,2%) in misura decisamente maggiore rispetto all’occupazione maschile (228 mila unità pari al +1,7%).

Ad ogni modo le donne hanno subito perdite di lavoro e di reddito relativamente più ampie durante la pandemia. Ciò a causa della maggiore incidenza dell’occupazione femminile nei settori più colpiti dalle misure di contenimento, dove spesso lavorano tramite semplici accordi informali.

Il divario fra Nord e Sud del Paese in termini di occupazione femminile (20-64 anni) rimane una nota dolente anche nel 2020: 62% nel Centro- Nord contro il 35,1% nel Mezzogiorno.

Peraltro, sempre con riferimento all’anno passato, restano significative anche le differenze nel tasso di istruzione terziaria delle donne (30-34 anni): 38,5% nel Centro-Nord contro il 27% nel Sud.

Ma è nel Mezzogiorno che l’emergenza sanitaria ha inciso in maniera maggiore: l’occupazione femminile a tempo pieno flette del 3% (per le donne straniere dell’11,8%), mentre l’occupazione femminile con part time involontario flette del 5,6%.

Tuttavia per le sole donne con titolo di studio terziario si registra una relativa tenuta. Ciò conferma l’importanza del titolo di studio per la partecipazione al lavoro delle donne meridionali: il divario dei tassi di occupazione femminile con il Centro-Nord per le donne laureate del Sud si riduce a circa 13-14 punti percentuali.

 

Donne e informatica: fra digital gender gap e percentuali bulgare

Secondo la SVIMEZ il potenziamento dei servizi di assistenza all’infanzia, agli anziani e ai disabili, quello dei servizi sanitari territoriali ed una migliore distribuzione dei congedi parentali, sarebbero utili strumenti per sostenere l’occupazione femminile, poiché capaci di favorire la conciliazione vita-lavoro.

Lo sforzo iniziale sarebbe ben ripagato nel tempo dato che si creerebbero nuovi posti di lavoro (educatori, servizi, etc.), con un incremento delle entrate fiscali e una crescita dei consumi.

E in un mondo che si va digitalizzando sempre più in fretta, pensare all’occupazione femminile del futuro (ma anche del presente) significa pensare al mondo dell’informatica e del digitale.

Il Paese europeo da cui prendere spunto sull’argomento è, forse inaspettatamente, la Bulgaria. Si tratta del Paese con la più alta occupazione femminile nel settore informatico di tutta l’Unione Europea: il 28,8% delle persone impiegate nell’informatica in Bulgaria sono donne (dati Eurostat). Basti pensare che in Svizzera l’occupazione femminile nel settore è pari al 16,3% ed in Germania al 17,5%.

In Italia l’abbattimento del c.d. digital gender gap deve diventare una priorità: solo il 16% delle donne accede alla formazione STEM (science, technology, engineering and mathematics) contro il 35% degli uomini. Lo ricorda Darya Majidi, presidente dell'Associazione Donna 4.0, il cui Osservatorio monitorerà l’impatto del PNRR sull'occupazione femminile in ambito digitale.

È bene ricordare che il motivo dell’ottimo risultato bulgaro è in buona parte legato al ruolo storicamente importante delle tecnologie informatiche nel Paese balcanico, dove oggi ci sono duecento licei e quindici università con indirizzo tecnologico, con le positive ricadute in termini di occupazione femminile cui si è accennato.

È un dato su cui l’Italia farebbe bene a riflettere considerando la bassa percentuale di donne iscritte ai percorsi legati alle tecnologie dell’informazione e della comunicazione. Secondo la CRUI (Conferenza dei Rettori Universitari Italiani) sarebbero solo il 12% le iscritte a corsi di laurea triennale ed il 17,5% a corsi di laurea specialistica.