Perché ho amato i libri di Kafka. A partire dal ‘processo’, naturalmente

Franz Kafka
Franz Kafka

Franz Kafka è stato una presenza costante nella mia vita.

Mi sono chiesto il perché.

Come per molti altri romanzieri, mi ha sempre affascinato, in primo luogo, la sua vita. Il difficile rapporto con il lavoro, con i genitori e con le donne. Gli insuccessi letterari, sino a dopo la morte. Le migliaia di lettere bellissime indirizzate agli amici, alle poche fidanzate (per lo più epistolari), agli editori. L’enigmatico diario. I rapporti scritti in ambito professionale, dove si occupava di sicurezza sul lavoro. La malattia, che provava a combattere attraverso incursioni nella vita sana e in diete particolari.

Eppure da tutto questo, come dalla cupezza dei suoi romanzi, riusciva spesso ad emergere come un “angelo meticoloso e leggero” (P. Citati). Molti fra coloro che lo frequentavano o lo amavano, affascinati e quasi rapiti senza capire il perché, pensavano che lui, soltanto lui, sapesse qualcosa, sul mondo e sulla vita, che a tutti gli altri era precluso.

Poi mi colpisce il suo modo insieme magico e realistico di scrivere.

Quante volte, per esempio, abbiamo riflettuto su come siano intime e insieme effimere le lettere d’amore? Franz lo spiegava così: “Scrivere lettere significa denudarsi davanti ai fantasmi che ciò attendono avidamente. Baci scritti non arrivano a destinazione, ma vengono bevuti dai fantasmi lungo il tragitto”.

Ancora, quel suo modo di fare domande, che sembrano entrare senza permesso nel nostro cuore e nella nostra mente (“Come una luce che si accenda improvvisa, si spalancarono le imposte di una finestra, un uomo, debole e sottile per la distanza e l'altezza, si sporse d'un tratto e tese le braccia ancora più in fuori. Chi era? Un amico? Una persona buona? Uno che partecipava? Uno che voleva aiutare? Era uno solo? Erano tutti? C'era ancora un aiuto? C'erano obiezioni che erano state dimenticate?”).

Per molto tempo ho sognato di imparare il tedesco – senza mai avere il coraggio di provarci davvero – per sentir risuonare queste parole nella lingua originale.

Infine, ed ovviamente, mi ha sempre interessato la dimensione in qualche modo giuridica dei romanzi di Kafka, che descrivono “l’orrore di equivoci misteriosi e di colpe involontarie di cui gli uomini si sarebbero macchiati” (M. Jesenskà).

La drammatica vicenda del ‘Processo’, condotto contro un uomo che pensava troppo a quello che gli poteva accadere e troppo poco a se stesso, si conclude in uno scenario di calma irreale (“Dappertutto il chiaro di luna, con quella naturalezza e quiete che nessun’altra luce possiede”). Qui però i boia (“i signori”), “appoggiati guancia a guancia, … scrutavano il momento risolutivo”. Momento soltanto ritardato dalla lunghezza della procedura, che si svolge davanti ad un Tribunale non tanto severo quanto indifferente (“Ti accoglie quando vieni, ti lascia andare quando vai”), e perciò implacabile.

Non viene voglia di leggerlo o di rileggerlo, pur sapendo come va a finire?