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Procedimento di mediazione civile e commerciale: regole deontologiche per l’avvocato

mediazione
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Sommario

 1. Cenni generali

2. L’avvocato mediatore

3. L’avvocato assistente di parte in mediazione

 

1. Cenni generali

Il Codice Deontologico Forense contiene precise regole di condotta riferite al comportamento che deve assumere ciascun avvocato nell’attuazione dell’istituto della mediazione.

Tali regole possono compendiarsi in due macro-categorie:

• categoria delle regole informatrici dell’esercizio, da parte dell’avvocato, della funzione di mediatore;

• categoria delle regole informatrici del contegno dell’avvocato quale consulente di parte in mediazione.

Le regole informatrici dell’esercizio, da parte dell’avvocato, della funzione di mediatore sono contenute nell’articolo 55 bis del Codice Deontologico Forense.

Le regole informatrici del contegno dell’avvocato quale consulente di parte in mediazione sono contenute nel comma primo dell’articolo 37 e nel comma primo dell’articolo 38 del Codice Deontologico Forense.

 

2. L’avvocato mediatore

Il ruolo dell’avvocato mediatore è regolamentato dall’articolo 55 bis del Codice Deontologico Forense, introdotto con delibera assunta dal Consiglio Nazionale Forense il 5 luglio 2011.

Il capoverso così disponeva: L’avvocato che svolga la funzione di mediatore deve rispettare gli obblighi dettati dalla normativa in materia e le previsioni del regolamento dell’organismo di mediazione, nei limiti in cui dette previsioni non contrastino con quelle del presente codice.

Dunque all’avvocato mediatore era fatto obbligo di subordinare alle norme deontologiche quelle statali in materia di mediazione e le altre dei regolamenti dei singoli organismi di mediazione, alle seconde evidentemente riferentesi indi con le medesime pacificamente compatibili.

A seguito dell’impugnativa proposta da alcuni avvocati mediatori avverso la menzionata delibera, il Tribunale Amministrativo Regionale del Lazio ha annullato – con sentenza n. 8858/2012 – il disposto dell’atto impugnato limitatamente alla promulgazione del capoverso dell’articolo 55 bis del Codice Deontologico Forense.

Condivisibilmente i giudici amministrativi hanno sostenuto che le norme deontologiche sono sempre integrative delle norme primarie indi sono sempre subordinate a queste ultime nel sistema della gerarchia delle fonti di produzione del diritto.

Oltretutto, la norma demandava all’interpretazione – come tale sempre potenzialmente sindacabile, con conseguenze disciplinari non trascurabili – del singolo professionista la complessa disamina in ordine al possibile contrasto che potesse insorgere tra la normativa in materia di mediazione ed il Codice Deontologico Forense.

L’articolo 55 bis del Codice Deontologico Forense resta quindi efficace in relazione agli altri tre commi.

Il primo comma dispone che gli avvocati mediatori debbano essere adeguatamente competenti.

Tale disposizione si collega bene a quella di cui al comma 4 bis dell’articolo 16 del Decreto Legislativo n. 28/2010, laddove al riconoscimento automatico della qualifica di mediatori agli avvocati fa da contraltare (anche in questo caso, condivisibilmente) l’obbligo di adeguato aggiornamento in materia di mediazione civile e commerciale.

Anzi, proprio l’avvento della novella legislativa al Decreto Legislativo n. 28/2010 dovrebbe indurre il Consiglio Nazionale Forense a modificare il primo comma onde imporre ad avvocati e praticanti avvocati, sotto pena di sanzioni, di frequentare i corsi di aggiornamento obbligatori ex lege ai fini del mantenimento del titolo di mediatore civile e commerciale.

Sicché, de jure condendo, il nuovo primo comma dell’articolo 55 bis del Codice Deontologico Forense potrebbe avere la seguente nuova formulazione: “L’avvocato e il praticante avvocato non devono assumere la funzione di mediatore civile e commerciale in difetto di adeguata competenza, all’uopo essendo obbligati a frequentare i corsi di aggiornamento obbligatori ai fini del mantenimento del titolo di mediatore civile e commerciale”.

Al secondo comma è dato leggere che non possa assumere la funzione di mediatore l’avvocato che versi in condizione di possibile cointeressenza con una della parti (in senso ampio, dunque comprendendovi anche gli assistenti).

In particolare all’avvocato risulta precluso assumere l’ufficio di mediatore allorché:

• egli abbia in corso o abbia avuto negli ultimi due anni rapporti professionali con una delle parti;

• egli assista o abbia assistito negli ultimi due anni una delle parti;

• il di lui socio o associato o collega condividente i locali di svolgimento dell’attività professionale assista o abbia assistito negli ultimi due anni una delle parti.

Tale disposizione pone due importanti problematiche:

• la prima riguarda la difficoltà di individuazione del concetto di assistenza;

• la seconda concerne la verosimile impossibilità di mantenimento del segreto professionale e dell’obbligo di riservatezza di cui al comma primo dell’articolo 9 del Decreto Legislativo n. 28/2010.

Quanto alla prima problematica, è da constatare come il legislatore non abbia indicato se per assistenza debba intendersi anche la mera consulenza ovvero soltanto l’assistenza giudiziale e stragiudiziale.

A parere di chi scrive, stante la ratio della disposizione, è da preferire la prima soluzione.

Quanto alla seconda problematica, è da osservare come de facto sia imposto all’avvocato che intenda assumere l’incarico di mediatore la previa consultazione dei propri soci oppure associati oppure colleghi di studio.

Ciò inevitabilmente fa sì che:

• i soci o associati o colleghi di studio dell’avvocato mediatore in limine mediationis siano indotti, quando consultati, a violare il segreto professionale (eppur potendo, evidentemente, rifiutarsi di riscontrare la richiesta di informazioni di cui si discetta);

• l’avvocato mediatore in limine mediationis sia costretto a trasgredire all’obbligo di riservatezza del procedimento mediatizio ex articolo 9 comma primo del Decreto Legislativo n. 28/2010.

Migliore sarebbe stata la previsione dell’operatività delle preclusioni di cui si discetta soltanto a carico dell’avvocato mediatore a conoscenza personale pregressa di situazioni di possibile cointeressenza con le parti ut supra. Logico è, giustappunto, che la cointeressenza turba l’imparzialità ove conosciuta dal soggetto interessatone.

Sempre al secondo comma dell’articolo 55 bis del Codice Deontologico Forense si prevede, inoltre, che non possa assumere l’incarico di mediatore l’avvocato che si trovi in una delle condizioni di ricusabilità previste dall’articolo 815 del Codice di Procedura Civile in relazione agli arbitri.

Orbene, ai sensi del disposto dell’articolo 815 del Codice di Procedura Civile, un arbitro può essere ricusato se:

• non abbia le qualifiche espressamente convenute dalle parti;

• egli stesso oppure un ente o un’associazione o una società amministrata abbia interesse nella causa;

• egli stesso o il coniuge sia parente fino al quarto grado oppure convivente oppure commensale abituale di una delle parti ovvero di un rappresentante legale di una delle parti oppure di alcuno dei difensori;

• egli stesso o il coniuge abbia causa pendente o grave inimicizia con una delle parti, con un suo rappresentante legale o con alcuno dei suoi difensori;

• sia legato ad una delle parti oppure ad una società da questa controllata oppure al soggetto che la controlli da rapporti di lavoro a qualsivoglia causa e titolo oneroso;

• eserciti ufficio di tutore o curatore di una delle parti;

• abbia prestato consulenza, assistenza o difesa ad una delle parti in una precedente fase della vicenda o vi abbia deposto come testimone.

Il generico richiamo al disposto dell’articolo 815 del Codice di Procedura Civile, come dimostrato anche dalla mancata aggiunta della locuzione “in quanto compatibile”, denota una certa – imperdonabile – superficialità del soggetto nomopoietico di riferimento.

Difatti, al di là delle genetiche e strutturali differenze tra arbitrato e mediazione, non tutti i motivi di ricusazione degli arbitri sono attagliabili ai mediatori.

Ciò in quanto:

• le qualifiche abilitanti del mediatore civile e commerciale sono ope legis predeterminate e giammai convenute dalle parti in lite;

• non è configurabile alcun testimonio nel procedimento mediatizio;

• l’imparzialità quale caratteristica imprescindibile del mediatore civile e commerciale è contemplata dal disposto della lettera a) del comma primo dell’articolo 1 del Decreto Legislativo n. 28/2010.

Nondimeno, il Consiglio Nazionale Forense ha trascurato di considerare i praticanti avvocati (oggidì valorizzati, giustamente, più che nel passato e titolati a gestire in proprio, previa maturità di anzianità professionale semestrale, clienti) e gli assistenti tecnici di parte (consulenti non legali, liberamente ammissibili nell’alveo procedurale della mediazione civile e commerciale).

Senza, poi, sottacere come andassero valutate anche le situazioni di cointeressenza con i conviventi more uxorio degli avvocati (essendo oggi diffusissima la prassi della convivenza tra non coniugi).

Invero il secondo comma dell’articolo 55 del Codice Deontologico Forense avrebbe avuto più adatta formulazione nel testo che segue: “Non può assumere la funzione di mediatore civile e commerciale l’avvocato che versi in condizione di possibile cointeressenza con una della parti. Esemplificativamente ma non esaustivamente, è precluso all’avvocato e al praticante avvocato lo svolgimento della funzione di mediatore civile e commerciale ove egli ovvero, per quanto a conoscenza personale pregressa, il coniuge od il convivente more uxorio od un parente oppure affine entro il quarto grado od il socio oppure l’associato oppure il collega esercente l’attività professionale nei medesimi locali od il praticante che collabori con lui o con uno dei tre ultimi soggetti menzionati abbiano in corso nonché abbiano avuto, negli ultimi due anni, rapporti professionali ovvero associativi ovvero collaborativi diretti ed indiretti nondimeno abbiano relazioni di commensalità abituale con una delle parti oppure con alcuno degli assistenti e dei consulenti delle medesime”.

Nel terzo comma si stabilisce che l’avvocato che abbia svolto l’incarico di mediatore civile e commerciale non possa intrattenere rapporti professionali con una delle parti:

• specificamente, in relazione alla vertenza di cui al procedimento;

• genericamente, prima del decorso di due anni dalla definizione del procedimento.

Si afferma altresì che il divieto si estende a soci, associati e colleghi esercenti nei medesimi locali.

Ratio della disposizione è quella di scongiurare che avvocati mediatori possano influenzare l’esito della procedura mediatizia in vista di successivi contatti professionali con le parti.

Il quarto comma commina, infine, il divieto per l’avvocato di fissare la sede del proprio studio nei locali dell’organismo di mediazione.

Finalità di tale divieto – ancor più opportuno alla luce dell’attuale assetto normativo in merito all’obbligo di assistenza legale obbligatoria – è sicuramente quella di escludere la possibilità per gli avvocati di accaparrarsi la clientela mercé attrazione degli utenti degli organismi di mediazione.

Uniche integrazioni suggerite a tali ultime disposizioni sarebbero quelle volte ad ampliarne la sfera di efficacia altresì ai praticanti avvocati.

Indi si suggeriscono le formulazioni che seguono per il terzo e il quarto comma:

• “L’avvocato ovvero il praticante avvocato che abbia svolto l’incarico di mediatore civile e commerciale non può intrattenere rapporti professionali con una delle parti se non siano decorsi almeno due anni dalla definizione del procedimento e in ogni tempo in relazione a controversia sottesa al procedimento mediatizio. Tale disposizione si applica anche ai soci e agli associati e ai colleghi esercenti l’attività professionale negli stessi locali del professionista interessato”;

• “È fatto divieto all’avvocato e al praticante avvocato di consentire che l’organismo di mediazione abbia sede, a qualsiasi titolo, presso il suo studio o che quest’ultimo abbia sede presso l’organismo di mediazione”.

 

3. L’avvocato assistente di parte in mediazione

Le regole informatrici del contegno dell’avvocato quale consulente di parte in mediazione sono contenute nel comma primo dell’articolo 37 e nel comma primo dell’articolo 38 del Codice Deontologico Forense.

Tali regole, in realtà, sono adattabili al procedimento di mediazione (sebbene siano state originariamente dettate per i procedimenti giurisdizionali).

Ai sensi del disposto del comma primo dell’articolo 37 del Codice Deontologico Forense, l'avvocato ha l'obbligo di astenersi dal prestare attività professionale quando questa determini un conflitto con gli interessi di un proprio assistito.

Esempio applicativo tipico della violazione di tale precetto è quello dell’avvocato che dissuada un assistito dall’esperire la procedura di mediazione a favore dell’adizione dell’Autorità Giudiziaria al fine della richiesta di un onorario maggiormente oneroso.

Ai sensi del disposto del comma primo dell’art. 38 del Codice Deontologico Forense, costituisce violazione dei doveri professionali dell’avvocato il mancato, ritardato o negligente compimento di atti inerenti al mandato quando ciò derivi da non scusabile e rilevante trascuratezza degli interessi della parte assistita.

Esempio applicativo tipico della violazione di tale precetto è quello dell’avvocato che non si adoperi per contribuire all’esito positivo del procedimento di mediazione di cui sia parte il proprio assistito.

Sarebbe da auspicare un’estensione espressa dell’efficacia delle disposizioni testé analizzate ai praticanti avvocati.