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Quale base di calcolo del profitto relativo al reato corruttivo nelle ipotesi di sequestro preventivo

House at dusk, Edward Hooper, 1935, Virginia Museum of Fine Arts, Richmond, VA, USA
House at dusk, Edward Hooper, 1935, Virginia Museum of Fine Arts, Richmond, VA, USA

Abstract

Il presente contributo esamina, in chiave tecnica, i risvolti della misura cautelare del sequestro preventivo nei casi di commissione di reati corruttivi, con riguardo soprattutto al calcolo del profitto del reato medesimo, sottoponibile a vincolo cautelare, in vista della successiva confisca. Un simile argomento, con risvolti di estrema attualità, riveste un ruolo di fondamentale importanza nel procedimento penale perché – com’è evidente – la corretta metodologia di calcolo da applicare in queste ipotesi può condurre a risultati molto diversi tra loro. Peraltro, proprio per la delicatezza della questione, la Corte di Cassazione, chiamata numerose volte ad esprimersi, ha emesso interessanti provvedimenti, prendendo in considerazione le diverse ipotesi configurabili in ordine ai metodi di calcolo del profitto stesso.

 

Indice:

1. Premesse

2. La determinazione del profitto di reato

3. Focus in materia di corruzione preordinata all’aggiudicazione di appalti: costi del contratto

4. Conclusioni

 

1. Premesse

Premessa necessaria alla presente trattazione risiede nell’esame – seppur in forma breve – del disposto di cui all’articolo 321 codice procedura penale, rubricato “oggetto del sequestro preventivo”: tale norma legittima la sottoposizione a vincolo cautelare beni quando vi è il pericolo che la libera disponibilità degli stessi, in quanto pertinenti al reato, possa aggravarne o protrarne le conseguenze o possa agevolare la commissione di ulteriori reati.

In fase di indagini, ove l’urgenza di imporre il vincolo cautelare è più alta, il sequestro è disposto con decreto motivato direttamente dal Pubblico Ministero, senza il vaglio del Giudice per le Indagini Preliminari. Il controllo di un giudice verrà comunque configurato in sede di riesame.

In alcune tipologie di reati, ove il bene – per chiarezza, il danaro – risulta essere l’oggetto intorno al quale si configura la fattispecie criminosa e lo strumento per commettere ulteriori analoghi reati, il sequestro finalizzato alla confisca definitiva al momento della condanna opera quale automatismo: l’articolo 322 ter codice penale in materia di reati corruttivi dispone, infatti, dispone che nel caso di condanna per uno dei delitti previsti dagli articoli da 314 a 320 codice penale sia sempre ordinata la confisca dei beni che ne costituiscono il profitto o il prezzo del reato.

Quindi in questi casi, il sequestro preventivo è funzionale alla successiva confisca per equivalente del profitto del reato.

Al di là dell’analisi in ordine alla configurazione o meno degli elementi tipici del reato di corruzione, in una fase cautelare – ed è questo l’argomento di interesse – la questione più delicata risiede proprio nella determinazione del valore da sottoporre a sequestro, ovvero nella determinazione del profitto del reato corruttivo.

 

2. La determinazione del profitto di reato

Preliminarmente appare opportuno chiarire il concetto di profitto: lo stesso può essere qualificabile come i guadagni, non esclusivamente patrimoniali, conseguenti al compimento del reato.

Venendo subito al punto della questione, il problema che si pone in ordine alle fattispecie corruttive risiede proprio nel calcolo del profitto stesso: l’annoso problema risiede nella duplice opzione se, ai fini del calcolo del profitto, debba tenersi conto dei costi sostenuti per l’adempimento di un’obbligazione – nata su presupposti illeciti ma proseguita adempiendo regolarmente a tutti gli oneri legati ad un contratto lecito – o meno.

In altre e semplici parole, occorre capire quali criteri siano impiegabili per calcolare il valore del profitto nei casi concreti, a fronte della disposizione normativa che, in tema, si limita a parlare di “valore corrispondente” o di “valore equivalente”, senza però specificare cosa debba intendersi per tali definizioni.

In tema di determinazione del profitto, la Giurisprudenza si è espressa in maniera talvolta discordante: vi sono state, infatti, sentenze secondo cui il concetto di profitto deve intendersi come comprensivo non soltanto dei beni dei quali il soggetto abbia ottenuto la disponibilità per effetto diretto ed immediato dell’illecito ma anche di ogni altra utilità che lo stesso realizzi come conseguenza diretta o indiretta della sua attività criminosa (sul punto, Cass. Pen., Sez. VI, 25.01.1995).

Altri provvedimenti invece, affermano l’irrilevanza di ogni nesso di derivazione meramente indiretto o mediato (Cass. Pen., Sez. Un., 27.03.2008 n. 26654; Sez. Un., 25.06.2009, n. 38691) qualificando, tra l’altro, come profitto le sole somme di denaro ottenute con la commissione dell’illecito penalmente rilevante.

Su questo solco - restrittivo - si inserisce una recente sentenza in cui i Giudici di Legittimità precisano che “la nozione di profitto del reato non può comprendere qualsivoglia vantaggio che, pur derivante dal reato, tuttavia sia futuro, sperato, eventuale, solo possibile, come nel caso di una mera "chance" costituita dalla possibilità di partecipazione ad una gara d'appalto”. (Cassazione penale sez. VI, 14/09/2017, n.1754).

Per la Corte Suprema, dunque, la nozione di profitto non può essere estesa sino a comprendere semplici aspettative di fatto.

Risulta interessante annotare come, in tema di reati tributari, la Giurisprudenza di Legittimità abbia circoscritto l’ambito applicativo del sequestro finalizzato alla confisca per equivalente al solo ammontare dell'imposta evasa, che costituisce un indubbio vantaggio patrimoniale direttamente derivante dalla condotta illecita e, in quanto tale, riconducibile alla nozione di profitto del reato, costituito dal risparmio economico conseguente alla sottrazione degli importi evasi alla loro destinazione fiscale, di cui certamente beneficia il reo (Cassazione penale, sez. IV , 16/12/2015 , n. 4567).

In materia, sono addirittura intervenute le Sezioni Unite della Suprema Corte di Cassazione con la sentenza emessa il 24 aprile 2014, n. 38343 (il noto caso Thyssen) recependo il già consolidato principio affermato nella sentenza “Gubert” secondo cui “il concetto di profitto o provento di reato legittimante la confisca deve intendersi come comprensivo non soltanto dei beni che l'autore del reato apprende alla sua disponibilità per effetto diretto ed immediato dell'illecito, ma altresì di ogni altra utilità che lo stesso realizza come conseguenza anche indiretta o mediata della sua attività criminosa”.

Nel concreto, tuttavia, il problema rimane: occorre allora capire quale principio di calcolo sia applicabile, se quello del principio del netto secondo cui oggetto della sottoposizione a vincolo cautelare dovrebbero essere i soli profitti al netto delle spese sostenute dal reo per la sua consumazione ed in questo caso, si pongono infatti evidenti difficoltà contabili e problemi di calcolo specie con riguardo alle imprese, delle quali occorrerebbe valutare tutti gli investimenti compiuti, distinguendo quelli leciti da quelli illeciti, o quello del c.d. principio del lordo, che permette di superare gli ostacoli di un rigoroso accertamento, che risponde più pienamente alle esigenze di prevenzione generale e speciale che impongono di far ricadere il rischio di perdite economiche derivanti dal reato sul suo autore piuttosto che sullo Stato.

Sul tema, di recente le Sezioni Unite della Corte di Cassazione (Sez. Un., 27.03.2008, n. 26654) hanno affermato che, in applicazione del principio del lordo, il profitto sequestrabile e confiscabile esprimerebbe il solo “vantaggio economico di diretta ed immediata derivazione causale dal reato”, che non coincide con l’utile aziendalistico-contabile ma col beneficio complessivamente affluito all’ente per effetto del reato, ad esclusione di utilità future o potenziali e, nel caso di rapporti contrattuali di natura sinallagmatica, del “corrispettivo di una prestazione lecita regolarmente eseguita dall’obbligato” sebbene nell’ambito di un rapporto comunque derivante dalla commissione di un reato.

Ancora, occorre annotare come, per determinare il «profitto del reato» nel sequestro preventivo funzionale alla confisca c.d. per equivalente, assuma rilievo la distinzione fra il “reato contratto”, cioè il caso in cui vi è una vera e propria immedesimazione del reato con il negozio giuridico, ed il “reato in contratto”, che si ha allorquando il comportamento penalmente rilevante non coincide con la stipulazione del contratto in sé, ma va ad incidere sostanzialmente sulla fase di formazione della volontà contrattuale o su quella di esecuzione del programma negoziale.

Nel caso di “reato in contratto” il profitto tratto dall’agente non è interamente ricollegabile alla condotta penalmente sanzionata. Conseguentemente, se il fatto penalmente rilevante ha inciso sulla fase di individuazione dell’aggiudicatario di un pubblico appalto, ma poi l’appaltatore ha regolarmente adempiuto alle prestazioni nascenti dal contratto (in sé lecito), il profitto del reato non equivale all’intero prezzo dell’appalto, ma solo al vantaggio economico conseguito per il fatto di essersi reso aggiudicatario della gara pubblica.

Tale vantaggio corrisponderebbe, quindi, esclusivamente all’utile netto dell’attività d’impresa.

In un caso concreto, la Corte di Legittimità ha configurato la corruzione propria in termini di “reato in contratto” e ha affermato che il valore che può essere sottoposto a confisca è rappresentato unicamente dal guadagno conseguito in esito all’esecuzione dello scambio sinallagmatico, al netto dei costi sostenuti per l’effettuazione della prestazione di cui ha fruito la P.A. (Cass. Pen., n. 11808/2011).

Ancora, in un analogo caso la Suprema Corte ha, poi, configurato la truffa ai danni dello Stato in termini di “reato contratto” e ha affermato che il valore che può essere sottoposto a confisca è rappresentato dall’intero prezzo dell’appalto, senza fare alcun riferimento alla distinzione fra questo e il profitto (Cass. Pen., n. 20976/2012).

 

3. Focus in materia di corruzione preordinata all’aggiudicazione di appalti: costi del contratto

A questo punto, occorre chiarire come l’individuazione dei criteri per calcolare il valore del profitto del reato si presenti maggiormente delicata nei casi in cui ad essere contestati siano fatti di corruzione preordinati all’aggiudicazione di appalti.

In questi casi il profitto si verifica perché in occorrenza dell’insorgere, in capo alla pubblica amministrazione committente, di un precedente obbligo giuridico di corrispondere all’appaltatore il corrispettivo per il compimento dell’opera o del servizio, ex articolo 1655 codice civile.

In tali ipotesi, la Corte di Cassazione ha chiarito che il valore del profitto deve essere commisurato ai «costi vivi», concreti ed effettivi, che l'impresa abbia sostenuto per dare esecuzione all'obbligazione contrattuale, sorta su basi illecite ma proseguita con presupposti regolari.

In particolare, al fine di determinare gli stessi costi vivi sostenuti dall'ente per dare adempimento alla prestazione di cui la controparte si sia avvantaggiata, l'autorità giudiziaria potrà avvalersi dell'esito degli accertamenti compiuti dalla Polizia giudiziaria ovvero, se non esaurienti, delle indicazioni di un tecnico, nominato quale consulente o perito, che tengano conto, da un lato, delle risultanze della contabilità e dei bilanci dell'ente, dall'altro lato, del costo di mercato di quella tipologia di prestazione, avuto riguardo ai valori medi del settore, e di qualunque altro dato che possa consentire di correggere eventuali sopravvalutazioni dei costi esposti nei documenti contabili e, dunque, di limare cifre che risultassero essere state artatamente maggiorate, secondo una linea di continuità con le condotte illecite oggetto del procedimento (Cassazione penale sez. II, 28/03/2018, n.23896)

Ancora, recentemente, i Giudici di Legittimità ritornando sul punto hanno chiarito proprio come occorra distinguere il vantaggio economico derivante direttamente dal reato (profitto confiscabile) e il corrispettivo incamerato per una prestazione lecita eseguita in favore della controparte, pur nell'ambito di un affare che trova la sua genesi nell'illecito (profitto non confiscabile).

Conseguentemente, il vantaggio economico deve essere concretamente determinato al netto dell'effettiva utilità eventualmente conseguita dal danneggiato, nell'ambito del rapporto sinallagmatico con l'ente (Cassazione penale sez. II, 28/03/2018, n.23896).

Per chiarezza espositiva, si sintetizza un esempio (molto basico) nella seguente tabella:

Voce

Euro

fatturato

ricavabile dal bilancio e relativo al singolo contratto

- costi produzioni

ricavabili dal bilancio

utile

ricavabile dal bilancio

- applicazione aliquota

(tasse di legge)

sulla base della tipologia di persona giuridica

asserito profitto

risultato

 

4. Conclusioni

In ipotesi di sequestro preventivo finalizzato alla confisca nei reati corruttivi la – legittima – esigenza è quella, quindi, di evitare che il vincolo cautelare si allarghi a tutte le somme nella disponibilità dell’indagato relative al fatto di reato ma correlate a costi sostenuti per l’esecuzione regolare di un contratto.

Per queste ragioni, come visto la Giurisprudenza ha delimitato il perimetro del valore sequestrabile, escludendo il corrispettivo incamerato per una prestazione lecita eseguita in favore della controparte, pur nell’ambito di un affare che trova la sua genesi nell’illecito, con la conseguenza che il profitto del reato deve essere costituito dal vantaggio economico di diretta e immediata derivazione causale dal reato ed è concretamente determinato al netto dell’effettiva utilità eventualmente conseguita dal danneggiato, nell’ambito del rapporto sinallagmatico con l’ente.

In ambito cautelare, ove il quadro probatorio può ancora mutare, nel rispetto del principio di proporzionalità, sarà compito, prima del Pubblico Ministero e poi del Tribunale del Riesame competente quello di accertare l'esatta corrispondenza tra il profitto del reato ed il quantum sottoposto a vincolo cautelare, censurando, eventualmente, l’eccessiva esorbitanza del valore sottoposto a vincolo cautelare.