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Resistenza e Costituzione

Una breve rilettura attraverso le lettere dei condannati a morte (e le canzoni partigiane)
21 aprile 1945, liberazione di Bologna
21 aprile 1945, liberazione di Bologna

SOMMARIO

1. Spontaneismo e pluralismo: le interpretazioni della Resistenza in Opocher e Scarpelli.
2. I valori costituzionali nelle lettere dei condannati a morte europei e i valori della Resistenza nella Costituzione italiana.
3. I messaggi trasmessi dalla musica.

4. Conclusione.   

1. Spontaneismo e pluralismo: le interpretazioni della Resistenza in Opocher e Scarpelli 

Dedico queste brevi considerazioni a tutte le partigiane prendendo le mosse, per toccare il tema dei reciproci rapporti tra diritto costituzionale e Resistenza (o, meglio, delle basi resistenziali dell’odierno diritto costituzionale e delle radici “costituzionalistiche” della Resistenza), dal dibattito sviluppatosi tra Enrico Opocher e Uberto Scarpelli in un convegno organizzato dalla Regione del Veneto il 25-27 settembre 1975[1]: “L’ideale di giustizia della Resistenza e la sua attuazione nel nuovo stato democratico”[2].

Per Opocher, «L’unico documento sul quale potersi basare» per capire l’ideale di giustizia nella Resistenza e la Resistenza stessa sono le Lettere dei condannati a morte[3], dalle quali «emerge in tutto il suo valore il carattere spontaneo e peculiare dell’ideologia della Resistenza»[4]. In tale documento si rivela «con sorprendente vigore la scoperta dei valori universali nel loro nesso unitario, come se la disperata esperienza della lotta contro il nazifascismo avesse rivelato, proprio al culmine dell’esistenza terrena di quei poveri morituri, la superiorità dell’eterno nei confronti del contingente, del sociale nei confronti dell’individuale».

Per Scarpelli, «insistere su questo carattere mi sembra pericoloso», giacché «Ciò porta a confondere, nel fervore del risvegliamento morale, le forze politiche che hanno resistito al fascismo durante tutto l’arco della vita del regime e le forze politiche che hanno imboccato la via della resistenza al fascismo soltanto nel momento in cui il fascismo ha procurato la disfatta nazionale. Ciò porta a confondere le forze politiche che oppongono al fascismo una visione del mondo e una cultura profondamente e organicamente antifasciste e le forze politiche che, portatrici di una cultura molto vicina a quella del fascismo o da essa non distinguibile e separabile con certezza, reagiscono all’estrema abiezione morale del fascismo nei suoi ultimi anni»[5].

Concordo con Scarpelli su due punti (oltre che su molti altri sviluppati nel suo magistrale intervento): le Lettere non possono essere l’unica chiave di interpretazione; e «L’interpretazione della Resistenza non deve (…) voler trovare e rappresentare a tutti i costi una unità ideologica e politica, bensì deve riconoscere la diversità delle ideologie e delle forze in essa operanti, componendole e ordinandole in un quadro d’insieme»[6].

Sono d’accordo con Opocher sull’esigenza di leggere le basi delle idee di giustizia, di libertà, di eguaglianza, non solo nei documenti ufficiali, ma anche in ciò che viene espresso da chi, per instaurare un ordine nuovo, le evoca nel momento in cui non si può mentire. Opocher – senza dirlo apertamente – ci richiama al senso più profondo di sovranità popolare, di arbitrio sul destino di una comunità, di partecipazione alle scelte, soprattutto di quelle per le future generazioni.

L’universalismo evocato da Opocher si rinviene nelle lettere dei condannati di tutta Europa (l’essere umano che si sofferma «per un istante sulle piccole cose perdute e soprattutto sugli affetti familiari»), come pure in esse si rinvengono gli ideali di giustizia e libertà[7]; ma lì, nelle Lettere, si trovano anche le distinte visioni segnalate da Scarpelli, che si sarebbero poi tradotte in nuove politiche costituzionali, e segnatamente nella Costituzione italiana, dove ideologie e concezioni politiche diverse trovano la composizione che avrebbe fondato il nuovo diritto costituzionale.

C’è un indissolubile legame tra le visioni e le motivazioni personali, quali affiorano nelle Lettere dei condannati a morte della Resistenza europea, e l’ispirazione delle scelte costituenti, quando una costituzione è “democratica” o “popolare”[8]. Legame che, spesso, si avverte anche nelle  raffigurazioni letterarie, cinematografiche e, talora, musicali (alle quali dedicherò qualche riga infra, § 3). Penso ad es., tra i libri, a I piccoli maestri di L. Meneghello, che così bene dipinge (pur indulgendo alla leggerezza non sempre consona alla tragedia) l’intreccio tra le storie individuali e le motivazioni ideali, come pure la contrapposizione (e la fusione) di tali motivazioni nei diversi gruppi partigiani protagonisti del suo racconto: di qua, le brigate garibaldine, di là, i giovani universitari e intellettuali confluiti in altre formazioni (Mazzini, Settecomuni, Ortigara…)[9].

2. I valori costituzionali nelle lettere dei condannati a morte europei e i valori della Resistenza nella Costituzione italiana

Delle Lettere, è difficile decontestualizzare le parti “giuridiche” (o meglio quelle ideali e politiche che il diritto alimentano), a parte qualche caso in cui, nella loro stringatezza, lasciano solo messaggi ideali omettendo quelli personali. Vanno lette per intero. Per chi aborre l’etica totalitaria, e crede che «la vita etica sta nell’attuare l’imperativo che suona nella coscienza e nel cercare da sé la verità, quando occorra contro i valori e le credenze del gruppo»[10], non c’è distinzione tra sfera personale e sfera sociale. Nondimeno, tra le tante lettere delle tantissime e dei tantissimi fucilati o impiccati o altrimenti ammazzati dai nazisti e dai fascisti, non poche permettono di farsi un’idea di cosa c’era dietro l’idea di un ordine nuovo e, in Italia, di una futura Costituzione, che tali idee avrebbe recepito e sintetizzato.

Leggere le lettere dei condannati a morte in Europa, inoltre, ci permette di fare dei confronti tra le ispirazioni dei martiri di altri popoli, rispetto agli italiani.

Per questo ho ripercorso il libro dei condannati europei e non solo quello dei partigiani italiani[11].

Ciò che unisce tutti, senza distinzione di Paese d’appartenenza, è senz’altro l’idea della famiglia: non a caso, la nostra Costituzione l’avrebbe definita all’art. 29 “società naturale”. Non voglio citare nessuna lettera. Sono tutte troppo toccanti, e comunque il legame col tema in discussione è troppo labile per trarne conseguenze. Una però la ricordo, perché, insieme alla famiglia, affrontando la morte Pietrus Friederikus Antonius Hoefsloot (commerciante olandese, 49 anni), scrive, indicando la sua assiologia di valori: «Un bell’avvenire è riservato alla nostra famiglia, al nostro popolo e alla nostra patria».

La Patria è vocabolo che ricorre spesso, anzi spessissimo, sia nelle lettere straniere che in quelle italiane (anche se la nostra Costituzione lo userà, poi, solo due volte[12], marcando una frattura tra il linguaggio comune usato nei giorni della lotta e quello tradotto nei testi del diritto).

Come in quelle del ragioniere norvegese Torleif Tellefsen:

«Vado incontro a ciò che mi aspetta con mente serena, poiché ho fede profonda nella bontà di nostro Signore e nella ferma convinzione che quanto ho fatto è stato per il bene della nostra Patria»; dell’avvocato greco Emmanuèl E. Lýtinas: «Siano orgogliosi i miei che muoio per la mia patria».

E in tanti messaggi lasciati dai combattenti russi della “Grande Guerra Patriottica”, come volle definirla Stalin per cementare l’amor di patria al sentimento di classe, forse insufficiente per mobilitare il Paese contro l’invasore: ecco dunque Ivan Charitonovič Kozlov scrivere: «Vivere per la Patria, per il libero popolo russo, combattere per il suo onore e la sua libertà: ecco tutta l’attrattiva della vita, ecco – nel momento attuale – l’ideale della vita»; e la giovane studentessa Elena Konstantinovna Ubijvovk: «Da qui, dal cuore del fascismo, io vedo chiaramente quale raffinata ferocia è questa (…). Non temo la morte e morirò serenamente. Vi bacio tutti per l’ultima volta e vi abbraccio forte forte. Non sono sola. Vendicate la mia morte. Con noi è la Patria, con noi è Stalin. Vittoria!».

Anche gli italiani la evocano: soldati, come Domenico Quaranta (tenente dell’Esercito ma anche studente di giurisprudenza poco più che ventenne): «Carissimi, sono morto, credo facendo il mio dovere fino all’ultimo. Avrei desiderato continuare a servire la mia Patria ed il mio Re (…) I miei ultimi pensieri sono stati per la Patria, per il Re, per Voi»; giovani laureati (Giancarlo Puecher Passavalli, dottore in legge, classe 1923): «Muoio per la mia Patria. Ho fatto sempre il mio dovere di cittadino e di soldato (…)»; e studenti qual era il diciottenne Eraclio Cappannini (classe 1924) «il mio ultimo pensiero sarà rivolto a voi ed alla mia, alla nostra cara Patria, che tanti sacrifici chiede ai suoi figli».

L’idea di una patria più grande, senza però rinnegare quella tradizionale, si ritrova nelle lettere di alcuni combattenti socialisti e comunisti italiani, che come i russi e tanti altri abbracciavano l’internazionalismo proletario: Pietro Benedetti (Italia, 1902, ebanista, militante del Partito Comunista) così esorta i suoi figli: «dell’amore per l’umanità fate una religione e siate sempre solleciti verso il bisogno e le sofferenze dei vostri simili. Amate la libertà e ricordate che questo bene deve essere pagato con continui sacrifici e qualche volta con la vita. Una vita in schiavitù è meglio non viverla. Amate la madrepatria, ma ricordate che la patria vera è il mondo e, ovunque vi sono vostri simili, quelli sono vostri fratelli (…). Se con la mia morte tu ed i miei figli avrete perso il mio amore e il mio sostegno, vi resterà un amore e un sostegno più grandi: quello dell’umanità finalmente libera, che accoglierà nella sua grande famiglia gli orfani e le vittime di questa vasta tragedia».

Qualche volta, l’unico o il principale pensiero è per il partito, o per la classe che esso rappresenta:

«Saluta a nome mio il partito e di’ che sono stato fedele e lo sono fino alla morte», raccomanda il giornalista ungherese Gyula Alpári, mentre l’ingegnere socialista italiano Umberto Fogagnolo rivendica orgogliosamente nella sua ultima lettera: «Qui io ho organizzato la massa operaia che ora dirigo verso un fine che io credo santo e giusto (…)».

E poi il popolo, cui la Costituzione italiana avrebbe affidato non solo l’esercizio, ma anche la titolarità della sovranità, come ben evidenzia Mortati nel suo commento all’art. 1[13]: popolo al quale lo studente Voio Rajnatovič (Yugoslavia, classe 1916), come altri, dedica la sua vita: «Ho l’onore di morire per il popolo e scenderò nella terra con una canzone sulle labbra, convinto che il popolo vendicherà me, degno e onesto figlio, a cui non dispiace offrire se stesso, la giovinezza, il sangue e la vita per il suo bene, per un suo migliore e più felice avvenire». Popolo che non è, nell’idea dei partigiani, la mera somma degli individui, o il corpo elettorale, ma qualcosa di più e di diverso, e sembra incorporare anche quell’elemento spirituale che connota l’idea di “nazione”[14], pur non coincidendo con essa (come “narod” nella parola, in lingua slava, del combattente yugoslavo citato). E così esso fu percepito dai costituenti, senza soluzione di continuità rispetto a quelle formulazioni[15].

 Non credo, come sembra affiorare in Opocher, là dove enfatizza la natura spontanea della lotta, all’assenza di un carattere prospettico nella Resistenza. Molte lettere, non solo italiane, hanno chiaro il futuro che i partigiani vogliono perseguire: un obiettivo non solo tattico, ma strategico. Il sacrificio è destinato a chi verrà dopo, anche molto tempo dopo. Non si tratta solo di cacciare i fascisti. I costituenti italiani, come i politici di altri paesi, non hanno saputo elaborare, nell’immediato dopoguerra, l’idea dei “diritti delle generazioni future” così viva nei resistenti, ma che solo nel XXI secolo ha trovato qualche formulazione normativa[16]. I frammenti che seguono non sembrano meno ingenui dei documenti costituzionali che, a fine ’700, certificavano il “diritto alla felicità”[17]: «Siate felici, siate felici in un mondo migliore, più umano», implora alla moglie e al figlioletto Joseph Epstein, nato in Polonia, dottore in legge, combattente in Spagna e fucilato in Francia a 33 anni; «Sopporterò tutte le inumane torture (…). Tacerò sino alla fine. Tacete anche voi.

La grande impresa cominciata da noi sarà portata a termine dai nostri compagni» (Aleksej Telešov, Urss); «Tutti questi sacrifici saranno ricompensati in un’umanità più felice che, come spero di tutto cuore, voi vedrete in piena salute» (Louis Jansen, Olanda, impiegato); «Metto in questi brevi, troppo brevi minuti, intere montagne, decine di anni non vissuti, in questi minuti voglio essere l’uomo più felice del mondo perché la mia vita è terminata nella lotta per la felicità dell’intera umanità» (Stepan Vasil’evič Skoblov, Urss, insegnante di scuola media); «Pensa che siamo morti per un avvenire migliore, per una vita senza odio fra gli uomini. Ho molto amato l’umanità e certamente avrei fatto ancora tanto bene. Non ha potuto essere così» (Georg Groscurth, Germania, medico); «E tuttavia, ti faccio questa cosa orribile di lasciarti.

Il fatto è che non ci siamo solo noi e il nostro amore a questo mondo: c’è tutta una vita che può rendere felici o infelici noi e gli altri, ed è per quella felicità, più grande della nostra, ma che la comprende, che io sono partito» (Georges Citerne, Francia, attore); «Non sono l’unico a dare la vita così giovane in questa spietata lotta. Anche in queste ultime ore il mio amore per gli uomini non solo non è spento, è anzi più forte di prima» (Willi Shapira, operaio e sindacalista polacco ucciso in Francia); «Non è vero che la mia vita è stata bella? Sì! Posso dire coi miei 24 anni: ho concluso qualche cosa, ho fatto qualche cosa per contribuire a rendere un po’ migliore il mondo secondo la mia convinzione» (Willelm Robert Douma, Olanda, impiegato).

 Il futuro c’è anche nelle lettere italiane che fanno riferimento solo a una generica idea, o a un ideale, che comunque appare sempre chiaro dal contesto, dalla storia, dalla militanza di ciascuno dei condannati: «I martiri convalidano una fede in una Idea» (Giancarlo Puecher Passavalli, dottore in legge, classe 1923); «Sarò fucilato all’alba per un ideale, per una fede che tu, figlia mia, un giorno capirai appieno» (Paolo Braccini, docente universitario); «V’è nella vita di ogni uomo però un momento decisivo nel quale chi ha vissuto per un ideale deve decidere e abbandonare le parole» (Umberto Fogagnolo, ingegnere); «Una idea è una idea e nessuno la rompe. A morte il fascismo e viva la libertà dei popoli» (così scrive Luigi Ciol, 19 anni, dopo «Un saluto ai parenti e paesani»); e infine un commovente frammento (ricordato anche da Opocher[18]) dell’ing.

Guglielmo Iervis, scritto con una punta di spillo sulla copertina di una Bibbia ritrovata sul luogo della fucilazione: «Non piangetemi, non chiamatemi povero. Muoio per aver servito un’idea».

 Si è spesso ricordato che, di fronte a lunghi cataloghi dei diritti, i moderni testi costituzionali sono parchi nell’enunciare i doveri: forse perché, specie dove il tallone delle dittature è stato lungo e pesante, non sembrava il caso di insistervi. Eppure, le carte dei diritti, soprattutto quelle del dopoguerra e in particolar modo quella italiana, sono state generate proprio dal senso del dovere di lottare per affermarli. Georges Citerne, già ricordato, lascia così la moglie: «Ero capace di essere uomo, con un ideale e un senso del dovere. È duro, lo sai, ma io terrò il colpo, tu potrai essere fiera di me».

E pare paradossale che il senso del dovere si coniughi, in chi dava la propria vita, persino a un senso di colpa per aver dato troppo poco: una giovanissima partigiana russa, Irina Maložon, scrive: «Non ho paura della morte, mi dispiace soltanto di aver vissuto poco, di aver fatto poco per il mio paese», e un combattente italiano, Luigi Savergnini (magazziniere, classe 1916): «Vi bacio e vi ricolmo di baci, ricordatevi che Gino non ha mai fatto nulla di male, ha solo compiuto il suo dovere di Italiano».

 Al dovere richiamano anche quanti, non solo lo percepiscono come obbligo morale di combattere i fascisti, ma anche di impegnarsi quotidianamente: di partecipare, di fare politica, di occuparsi degli altri e della cosa pubblica. Questo messaggio sarà ben colto dalla Costituzione, che configura il voto e la partecipazione come diritti ma anche come doveri[19]. In una lunga lettera, dove addirittura prospetta le scelte che si sarebbero poste ai futuri costituenti, il giovane studente parmense di giurisprudenza Giacomo Ulivi (allievo di Opocher) scrive tra l’altro: «La “cosa pubblica” è noi stessi (…). Appunto per questo dobbiamo curarla direttamente, personalmente, come il nostro lavoro più delicato e importante. Perché da questo dipendono tutti gli altri, le condizioni di tutti gli altri». E Pietro Benedetti, già ricordato sopra: «Ma che fare? Vi sono nel mondo due modi di sentire la vita. Uno come attori, l’altro come spettatori».

Le due anime della Resistenza, come della Costituzione, sono rappresentate dal binomio giustizia e libertà. La difficoltà di conciliare i due termini è riassunta in pagine memorabili, e trova una espressione efficace nelle parole di Piero Gobetti: «la sostituzione del mito egualitario al mito libertario segnerebbe (…) l’inaridirsi dello spirito di iniziativa e di lotta di fronte al prevalere dei sogni di palingenesi e di tranquilla utopia»[20]. Trovano però composizione, le due anime, non solo nel progetto del movimento “Giustizia e libertà”, ma anche nella sintesi che, come sottolinea gran parte della dottrina costituzionalistica, seppe farne la Costituzione.

Nelle Lettere, il richiamo alla giustizia compare espressamente poche volte: più impellente, all’estero come in Italia, era quello alla libertà: contro “gli invasori”, negli scritti stranieri; contro i fascisti (non ci son che sporadici riferimenti ai nazisti o ai tedeschi), in  Italia.

Prima di tutto, viene la libertà, come la invocano il ventunenne barbiere bulgaro Ahmed Tatarov Ahmedov: «So, sorella, che rimpiangerai molto l’unico tuo fratello. Ma di cosa è vittima, del denaro? No, sorella! Do la mia vita per la libertà. Per questa santa parola migliaia sono morti e ancora muoiono»; il combattente francese Misaak Manouchian, giornalista e poeta: «Felicità a coloro che ci sopravvivranno e gusteranno la dolcezza  della libertà, della pace di domani»; o il diciottenne studente italiano Giordano Cavestro: «Voi sapete il compito che vi tocca. Io muoio, ma l’idea vivrà nel futuro, luminosa, grande e bella (…). Sui nostri corpi si farà il grande faro della Libertà».

La giustizia però aleggia sempre nelle lettere che esortano alla costruzione di un mondo migliore, al sacrificio per un ideale, e qualche volta essa è richiamata in modo diretto, unita alla libertà cui non può disgiungersi, coniugandosi nell’endiadi che più caratterizza la Resistenza e la Costituzione: «Muoio contento, per la mia Patria che ho amato tanto e per l’idea di una futura giustizia e libertà del paese» (Alessandro Teagno, 23 anni, perito agronomo).

Si ritrova, poi, in quella sua particolare declinazione che è il principio di eguaglianza. Quella formale si sarebbe tradotta, nel testo costituzionale, nella formula dell’art. 3: «Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali», e prima ancora nella decisione di chiamare tutte e tutti al voto, finalmente universale nelle elezioni del 2 giugno 1946. Le Lettere non ne parlano, di eguaglianza, ma la testimoniano nella loro ecletticità: professori e barbieri, commercianti e avvocati, impiegati e studenti e operai sono tutti accomunati dalla scelta e dal destino. Specialmente le donne pagano un tributo che non è solo – come nella tradizione delle guerre – per la perdita degli affetti dei loro uomini, padri e mariti e figli, ma che è diretto, di sangue, di torture, di violenze, di vita versata.

Paola Garelli (nome di battaglia Mirka, fucilata a Savona): «Io sono tranquilla. – scrive alla figlioletta – Tu devi dire ai nostri cari parenti, nonna e gli altri, che mi perdonino il dolore che do loro. Non devi piangere né vergognarti per me. Quando sarai grande capirai meglio. Ti chiedo una cosa sola: studia, io ti proteggerò dal cielo»;  Irma Marchiani (Anty, fucilata a Pavullo), nella cui ultima lettera si trova condensato in poche righe tutto quello di cui ho detto sinora (famiglia, futuro, Patria, dovere, libertà): «Mia adorata Pally, sono gli ultimi istanti della mia vita. Pally adorata ti dico a te saluta e bacia tutti quelli che mi ricorderanno. Credimi non ho mai fatto nessuna cosa che potesse offendere il nostro nome. Ho sentito il richiamo della Patria per la quale ho combattuto, ora sono qui… tra poco non sarò più, muoio sicura di aver fatto quanto era possibile affinché la libertà trionfasse».

E poi tutte le combattenti narrate da Sonia Residori in Donne in guerra. La quotidianità femminile nel Polesine del secondo conflitto mondiale, e in Il Guerriero giusto e l’Anima bella. L’identità femminile nella Resistenza Vicentina (1943-45) [21], e da Benito Gramola nel suo libro Le donne e la Resistenza. Interviste a staffette e a partigiane vicentine[22]: Luigina, Agnese, Rina, Alberta, Flora, Lina, Maria, Teresa, Lisetta, Elena, Cesira, Angelina, Elisabetta, Giovanna, Lia, Ida, Zaira, Leda, Nora e tante altre (come sono semplici i loro nomi!). «Proprio le donne – scrive Gramola – che il fascismo voleva soltanto belle e forti, madri sottomesse e poco colte, seppero mobilitarsi in massa per difendere la loro dignità e il loro diritto a una funzione attiva nella società civile; anzi difesero e incoraggiarono alla ribellione gli stessi soldati, che scappavano a casa per cercarvi riparo e protezione». 

La sintesi di giustizia e libertà, alla fine, non è solo la lotta a ciò che nega la giustizia e la libertà – il fascismo – ma anche la giustezza della causa che ha come meta questo connubio, ovunque: «Andrò incontro alla morte a occhi aperti perché muoio per una causa giusta. Morte ai fascisti!» griderà un giovane rumeno, Filomon Sirbu.

3. I messaggi trasmessi dalla musica

Con testi tutti di anonimo (indice di un’origine sovranamente popolare), e spesso su arie riprese da antiche canzoni (la continuità della Storia), come le Lettere anche la musica partigiana trasmette – mediando le sensazioni, la personalità, l’etica, la militanza e la visione politica dei combattenti – gli stessi valori che sarebbero confluiti nella Costituzione. Storie d’amore, mamma, affetti, la casa, si mescolano all’ideale: Ohi partigiano invita a «non pianger più/se qui non c’è la mamma»; in Fischia il vento «ogni contrada/è patria del ribelle/ogni donna/ a lui dona un sospir»; nel Canto del partigiano (la musica è quella della Valcamonica) la lotta è descritta nel dialogo con Nineta («Ricordi/Nineta/quel mese/d’aprile?/La luna/le stelle/parlavan/d’amor»; e ancora «senza fascisti/ritroveremo/la bella libertà/o mia morosa/ti farò sposa/solo se vincerò»); Cosa rimiri mio bel partigiano fa valere il valore del combattente, né importa non avere nulla, di fronte al padre riottoso a concedere la mano della figlia a un ribelle: «Io rimiro la figlia tua/la più bella della città/dei tedeschi paura non ho». È, ante litteram, l’articolo 3, comma 2 della Costituzione, che obbliga la Repubblica a «rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che (…) impediscono il pieno sviluppo della persona umana».

 Se la parola “Patria” mai compare nelle canzoni partigiane (ma forse ciò è dovuto anche a problemi di rima), il “popolo” echeggia ne La Brigata Garibaldi («al traditor fascista/ce la faremo pagare/delle barbarie commesse/sul nostro popolo fedel»).

Anche nella musica – al pari che nella lettera di Pietro Benedetti – vi sono riferimenti a un concetto diverso e più ampio di “Patria”, rappresentata dall’umanità intera o dai popoli (al plurale), qualche volta accompagnati da una precisa identificazione delle condizioni di classe (Il Canto del partigiano denuncia le condizioni del proletariato combattente: «Figli di nessuno/per i monti noi andiam/ci disprezza ognuno/perché laceri noi siam»), o della rivendicazione che tale missione è affidata a uno schieramento preciso («La stella rossa in fronte» della Brigata Garibaldi, o «la Rossa sua bandiera» di Bella ciao, che però nella versione cantata da altre formazioni diventa “bella”): così, la libertà portata dal partigiano è, sempre ne La Brigata Garibaldi, «ai popoli oppressi» (ai quali «la civiltà noi porterem»).

Essendo fieri canti di guerra, nelle canzoni i buoni dolci sentimenti che caratterizzano quasi tutte le Lettere si accompagnano assai più all’incitamento alla lotta (Col parabello in spalla); il nemico sono sia i fascisti (nel Canto del partigiano i traditori sono loro), sia qualche volta i tedeschi: «Quando si tratta di attaccare/noi garibaldini siamo i primi (…) Contro i tedeschi/i repubblichini/combatteremo/siam partigiani», recita Valsesia.

 La lotta è sempre animata da un ideale, per il quale non importa morire: con sintesi efficace, ne Il partigiano si canta: «Perché se libero/un uomo muore/che cosa importa di morir». Nell’ultima strofa di Fischia il vento, con echi leopardiani  («passata è la tempesta»), «Cessa il vento/calma è la bufera/torna a casa/il fiero partigian» per costruire un’Italia e un mondo migliori; ma già prima l’immagine è per la conquista della «rossa primavera/dove sorge il sol dell’avvenir». In Là su quei monti: «Il partigiano/l’arma alla mano/guarda lontano».

 C’è un curioso parallelismo con le Lettere: l’idea di libertà ricorre molto più spesso che quella di giustizia, come in due tra le canzoni più famose: La Brigata Garibaldi si apre con l’invocazione «Libertà, sì, libertà, sì/siam partigian»; e Bella ciao chiude con «Questo è il fiore/del partigiano/morto per la libertà». La giustizia, oltre indirettamente che nelle strofe “classiste”, si rinviene solo nelle esortazioni alla vendetta (che ne è una componente raramente evocata nelle Lettere): sia nel passo già citato de La Brigata Garibaldi («al traditor fascista/ce la faremo pagare»), sia ad es. in Fischia il vento («dura vendetta/verrà dal partigian»), sia in Dongo («sui tiranni alfin la vendetta/sarà sempre tremenda quaggiù»).

L’endiadi giustizia e libertà, evocata nella lettera di Alessandro Tegno, si trova infine, di nuovo, in Là su quei monti: «Il partigiano/l’arma alla mano/guarda lontano/guarda lontano/ con la certezza/che porterà/giustizia, giustizia/e libertà».

Un’ultima annotazione: nelle ballate partigiane si trovano anche ironiche interpretazioni storiografiche sulla caduta del fascismo e sulla transizione: Dongo, pur in una versione caricaturale della fine di Mussolini, ne narra la cattura e le ragioni; ma soprattutto La Badogliede nega la tesi della rottura tra gli ordinamenti succedutisi dal ’22 al ’48 – liberale, fascista, provvisorio, repubblicano – affermandone la continuità sostanziale, con riferimento alla fase del Governo di Badoglio, accusato di connivenza col passato regime: i versi ne ricordano gli episodi e le tappe (dal periodo fascista del Maresciallo all’impresa di Etiopia al ducato di Addis Abeba alla guerra di Francia a quella di Grecia, fino all’“occasione” di fine di luglio), denunciando la correità di un re vile e mendace (il «degno compare Vittorio»), complice in una «fuga ingloriosa a terre sicure».

Conclusione

Non si può capire e interpretare il diritto, specialmente quello costituzionale, senza leggerne nella storia le ragioni; né si può bene intendere cosa sia la sovranità popolare, se la si giustifichi solo alla luce dei dati formali[23]. Le idee della Resistenza sono le idee dei suoi militanti e dei suoi martiri, presi a uno a uno, presi nelle distinte formazioni combattenti, presi nel loro insieme. Sono le idee confluite, nell’Europa liberata dai fascismi, in un nuovo modello di Stato ma, prima ancora, di società, e in Italia in una nuova Costituzione, la cui Prima parte continuo a considerare, anche se ormai è quasi eresia, “la più bella del mondo”. Una Costituzione ispirata e scritta da chi era convinto, come la partigiana Eleonora Candia, «di essere dalla parte del giusto, e questo non era poco»; che «Gli ideali superano la paura. E per qualsiasi ideale che si decida di inseguire arriva sempre il momento in cui bisogna pagare». E che, per questo ideale, «ricordatevi che dovete essere disposti anche a combattere»[24].

Lo scritto è il testo della relazione al Convegno del 30 Maggio 2014 «Resistenza e diritto pubblico», tenuta presso il Centro Documentazione e  Ricerca Famiglia Trentin, Venezia – Giudecca, Villa Heriot.

Lo scritto è stato pubblicato in Annuario di diritto comparato e di studi legislativi 2015, Esi, Napoli, 2015, pp. 521-534, in Quaderni sulla Resistenza e la RSI (1943-1945), n. 1, 2014, pp. 1-8, in F. Cortese (a cura di), Resistenza e diritto pubblico, Firenze Un. Press, 2016, pp. 241-252.

Analizzando le lettere dei condannati a morte della Resistenza europea e le canzoni partigiane italiane, ne evidenzia i valori che sarebbero poi confluiti nel costituzionalismo post-bellico, e in particolare nella Costituzione italiana; specialmente, quelli di giustizia e di libertà, ma anche di dovere, di Patria, di internazionalismo.

 

Note

[1] La “fase della poesia” delle Regioni, come ebbe a definirla il Presidente del Consiglio regionale B. Marchetti in altro convegno coevo.

[2] L’elevata caratura scientifica dell’evento è testimoniata dai nomi dei partecipanti: oltre a Opocher e Scarpelli, basti pensare a Benvenuti, Berti, Gallo, Cavallari, Bettiol, Neppi Modona, Grevi, Paladin, Galante Garrone, Trabucchi, Smuraglia, Vassalli, tra tanti altri. Gli atti sono raccolti in E. OPOCHER, F. BENVENUTI, G. BERTI, E. GALLO, Giustizia e Resistenza, Marsilio, Padova, 1977.

[3] Lettere dei condannati a morte della Resistenza europea (a cura di P. Malvezzi e G. Pirelli), Einaudi, Torino, 1963.

[4] E. OPOCHER, L’ideale di Giustizia della Resistenza, in E. OPOCHER, F. BENVENUTI, G. BERTI, E. GALLO, Giustizia e Resistenza, cit., p. 8 s.

[5] U. SCARPELLI, Intervento, in E. OPOCHER, F. BENVENUTI, G. BERTI, E. GALLO, Giustizia e

Resistenza, cit., p. 234 s.

[6] U. SCARPELLI, Intervento, cit., p. 235. Sul contributo della Resistenza alla formulazione della Costituzione italiana c’è un’ampia letteratura giuridica. Mi limito a segnalare AA.VV., Le idee costituzionali della Resistenza. Atti del Convegno di studi. Roma, 19, 20 e 21 ottobre 1995 (a cura di C. Franceschini, S. Guerrieri e G. Monina), Presidenza del Consiglio dei Ministri, Roma, 1997; utile anche AA.VV., Scelte della Costituente e cultura giuridica (a cura di U. De Siervo), 2 voll., il Mulino, Bologna, 1980.

[7] E. OPOCHER, L’ideale di Giustizia della Resistenza, cit., p. 9.

[8] U. SCARPELLI, Intervento, cit., p. 233, cit., fa rinvio all’insegnamento di A. Gramsci per ricordare che «il vero filosofo è il politico, capace di modificare l’ambiente, inteso per ambiente l’insieme dei rapporti di cui ogni singolo entra a far parte»;  ma anche che «il vero politico è un filosofo, procedente attraverso gli studi e la riflessione ad una consapevolezza critica della struttura di quei rapporti». Sul concetto di “costituzione democratica”, e per una sua decostruzione, rinvio al mio scritto Costituzioni e democrazia: riflessioni critiche su definizioni e classificazioni nel costituzionalismo contemporaneo, in Rass. parl., aprile-giugno 2014, pp. 249 ss. e in Aa.Vv., Categorie e terminologie del diritto nella prospettiva della comparazione, Atti del 3° Colloquio Sird, Como, 14-15 marzo 2014, in corso di stampa.

[9] Bur, Milano, 1964.

[10] U. SCARPELLI, Intervento, cit., p. 236.

[11] V. Lettere di condannati a morte della Resistenza italiana (a cura di P. Malvezzi e G. Pirelli), Einaudi, Torino, 1952.

[12] All’art. 52, c. 1: «La difesa della Patria è sacro dovere del cittadino», e all’art. 59, c. 2: «Il Presidente della Repubblica può nominare senatori a vita cinque cittadini che hanno illustrato la Patria per altissimi meriti nel campo sociale, scientifico, artistico e letterario».

[13] Art. 1, c. 2: «La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione». Di C. MORTATI v. il commento all’Art. 1, in Commentario della Costituzione (a cura di  G. Branca), Zanichelli, Bologna-Roma, 1975.

[14] Sulle Teorie della nazione v. il saggio così intitolato di F. GOIO, in Quad. sc. pol., n. 2, 1994, p. 181 ss.

[15] V. ancora C. MORTATI, all’Art. 1, cit.

[16] Anche se, a onor del vero, le stesse costituzioni rappresentano un documento destinato a valere anche per le generazioni che vengono dopo, impegnando le attuali. Rinvio al mio La interpretación de la Constitución como modo ordinario de actualización de la Constitución, negli Actas del Seminario internacional “Legitimidad de la justicia constitucional: los derechos como límites al poder político”, organizado por La Corte Constitucional del Ecuador y su Centro de Estudios y Difusión del Derecho Constitucional  (Quito, Ecuador, del 6 al 8 de noviembre de 2013), raccolti in Anuario 2013 Tribunal Constitucional de la República Dominicana, T.C. de la República Dominicana, Santo Domingo, 2014, pp. 163 ss.

[17] V. la Dichiarazione di indipendenza americana («A tutti gli uomini è riconosciuto il diritto alla vita, alla libertà e al perseguimento della felicità»), preceduta dalle formulazioni di G. Filangieri e B. Franklin, da alcuni progetti di costituzione (uno, dei rivoluzionari corsi che lottavano per l'indipendenza dalla Repubblica di Genova, un secondo predisposto dal granduca di Toscana), dalla Dichiarazione dei diritti della Virginia del 1776, e seguita da alcune poche altre costituzioni.

[18] E. OPOCHER, L’ideale di Giustizia della Resistenza, cit., p. 10.

[19] Emblematica è la formulazione dell’art. 48, c. 2: «Il voto è personale ed eguale, libero e segreto. Il suo esercizio è dovere civico». In dottrina v. G. LOMBARDI, Contributo allo studio dei doveri costituzionali, Giuffrè, Milano, 1967.

[20] P. GOBETTI, Il liberalismo e le masse, I, in Rivoluzione liberale, 25 marzo 1923, SP, pp. 477-479, ora in ID., Dizionario delle idee. Le radici e le ragioni del liberalismo rivoluzionario (a cura di S.

Bucchi), Editori Riuniti, Roma, 1997,  p. 40.

[21] Rispettivamente Minelliana, Rovigo, 1996, e Editrice Centro Studi Berici, Vicenza, 2008.

[22] La Serenissima, Vicenza, 1994, p. 12.

[23] Cfr. il mio Constituciones (y reformas constitucionales) “impuestas” o “condicionadas” (para una reclasificación interdisciplinaria de la categoría), in R. ESCUREDO RODRÍGUEZ, J. CANO BUESO (eds), Crisis económica y modelo social: la sostenibilidad del Estado de bienestar (Actas del Congreso, Aguadulce, Almería, 2, 3 y 4 de Julio de 2012), Ed. Universidad de Almería, Almería, 2013, p. 75 ss.

[24] Da Il giornale di Vicenza, 25 aprile 1995.