Scalia, una vita alla Corte suprema USA
Scalia, una vita alla Corte suprema USA
Si pubblica di seguito, per gentile concessione dell’editore, uno stralcio dell’introduzione a Antonin Scalia (Ibl libri, 212 pp., 14 euro), la prima monografia in lingua italiana dedicata alla vita, al pensiero e all’opera di Justice Antonin Scalia, per trent’anni giudice della Corte suprema USA.
Nei corridoi dell’imponente palazzo che ospita la Corte suprema degli Stati Uniti d’America, sono esposti i quadri che ritraggono gli uomini e le donne che, nei quasi duecentocinquant’anni di storia dell’istituzione, hanno servito come suoi giudici. L’ultimo quadro a essere stato appeso è quello che ha come soggetto Antonin Scalia, morto il 13 febbraio 2016, dopo quasi trent’anni di servizio alla Corte. Il quadro non è una raffigurazione della sola presenza fisica di Scalia, ma anche della sua judicial philosophy, ossia dei metodi interpretativi e delle opinioni costituzionali che egli ha coltivato per tutta la sua vita. Scalia è infatti seduto alla scrivania del suo ufficio, con una mano poggiata su tre oggetti: una copia dei Federalist Papers, raccolta di saggi in favore della ratificazione della Costituzione federale scritti da Alexander Hamilton, James Madison e John Jay; un dizionario di lingua inglese (il Webster’s Second International); un ritratto di san Tommaso Moro, il celebre giurista inglese che preferì morire da martire, anziché tradire le proprie più intime convinzioni. Ciascuno di questi tre oggetti racconta qualcosa di Scalia. Anzitutto, ai Federalist Papers, che possono a ragione ritenersi il testo fondante della scienza costituzionalistica d’oltreoceano, egli si è costantemente richiamato ogni qualvolta ha voluto evocare la filosofia politica e istituzionale che sta alle radici della Costituzione americana. Ancora, il dizionario segnala in modo icastico l’attenzione riservata alle parole della legge e alla ricostruzione del loro significato, operazione costitutiva di quella metodologia originalista e testualista, che, più di tutti, egli ha reso celebre. Infine, san Tommaso Moro ha sommamente incarnato quel senso di coerenza intellettuale, nella elaborazione e nella difesa pubblica delle proprie radicate opinioni, che egli ha esposto per tutto il corso della sua carriera.
Una carriera che, con un tocco di colore ma non di esagerazione, può dirsi da “star”: Scalia è stato apprezzato o disprezzato, addirittura amato o odiato, ma non ha mai lasciato freddi gli animi, esattamente come si conviene a una forza in grado di incidere sui termini del discorso. All’inizio della sua carriera, e per molti anni a seguire, la sua era considerata una voce isolata ed eccentrica. Alla fine di essa, non c’era collega alla Corte suprema, politico, avvocato, professore o studente universitario, che non soltanto avesse preso sul serio quella voce, ma che non avesse riconosciuto che essa è stata la più influente degli ultimi decenni. La conferma della centralità di Scalia nel dibattito pubblico americano si è avuta proprio con la sua morte. I giudici della Corte suprema sono nominati dal Presidente e soggetti a conferma del Senato. Come è noto, le elezioni del novembre 2016 si sono risolte in uno dei più grandi shock politici degli ultimi decenni, con la vittoria di Trump su Clinton. Toccò dunque al primo – che, per guadagnarsi il consenso dei voti degli elettori più conservatori, aveva promesso di selezionare giudici esclusivamente sulla scorta degli insegnamenti di Scalia – scegliere il successore di quest’ultimo. E, il 31 gennaio 2017, egli mantenne la sua promessa, annunciando la nomina di Neil Gorsuch, giudice d’appello per il decimo circuito che ha costruito la propria giurisprudenza applicando proprio la metodologia originalista e testualista perfezionata da Scalia.
Se è vero che la storia non si fa con i “se” e con i “ma”, è altrettanto vero che ci sono certi “se” irresistibili. Cosa sarebbe successo, se la nomination di Garland fosse andata a buon fine, oppure se Trump, sconfitto alle elezioni da Clinton, non avesse potuto dar seguito alla promessa di nominare giudici che condividessero la cosiddetta judicial philosophy di Scalia? Pacifico il cambio di maggioranza in seno alla Corte, cosa sarebbe stato dell’eredità intellettuale di Scalia? Sarebbe forse finita, più o meno rapidamente, dimenticata? Siamo dell’avviso che ciò possa essere escluso, tanto l’impatto che Scalia ha avuto sul dibattito giuridico e culturale americano è stato grande, tanto l’influenza che egli ha esercitato, negli Stati Uniti e nel mondo, è stata profonda, tanto brillanti e seducenti sono state le soluzioni interpretative che egli ha promosso in una carriera lunghissima. Scalia si è guadagnato probabilmente l’“immortalità” grazie alla difesa – costante e mai tentennante, con toni spesso caustici e mai compromissori – del principio per cui la legge va interpretata secondo il significato che un cittadino medio ragionevole gli avrebbe attribuito al tempo della sua entrata in vigore. Egli è destinato a essere ricordato in compagnia di altri autorevoli giuristi che, come lui, hanno servito come giudici della Corte suprema e hanno fatto la storia del diritto statunitense: John Marshall, Joseph Story, John Marshall Harlan I, Oliver Wendell Holmes, Louis Brandeis, Benjamin Cardozo, Felix Frankfurter, Hugo Black, Robert Jackson, Earl Warren, William Brennan.
Nel prosieguo dell’opera torneremo più volte sull’analisi dei pregi (e dei limiti) dell’impostazione testualista e originalista di Scalia. Il modo probabilmente più semplice – e adeguato a questa pagina introduttiva – per delinearne le coordinate fondamentali è riportare una istruttiva storiella raccontata da Alex Kozinski. Un giorno, Kozinski invitò Scalia a pranzo, proponendogli una pizza in compagnia. Scalia accettò di buon grado, ponendo però una condizione: «la pizza deve essere quella di AV Ristorante». Kozinski, conoscendo l’amore leggendario di Scalia per la pizza, si adeguò volentieri, scoprendosi però deluso dalla qualità degli ingredienti e dalla cottura. Così, quando qualche settimana più tardi i due si diedero nuovamente appuntamento, Kozinski pensò bene di sorprendere l’amico, ordinando da una diversa (e assai rinomata) pizzeria. Scalia non apprezzò il gesto, sottolineando, una volta vista la pizza, che «non è quella di AV Ristorante». Il commento di Kozinski sintetizza bene il senso di questa (gustosa) storiella: «[s]e c’è una cosa cara a Scalia, è il significato letterale (plain meaning). Mi aveva detto che la pizza avrebbe dovuto essere quella di AV Ristorante. Non mi aveva detto che questa volta avrebbe dovuto essere quella di AV Ristorante, ma che la prossima volta avrei potuto sorprenderlo. […] Scalia mi ha insegnato una lezione quel giorno: “la pizza deve essere quella di AV Ristorante” significa semplicemente che “la pizza deve essere quella di AV Ristorante”. Né più, né meno».
Antonin Scalia è noto al nostro pubblico nazionale, o quantomeno alla sezione di esso che sta all’incrocio fra giuristi interessati alla comparazione o alla teoria generale e cittadini appassionati di cose americane. Tuttavia, mentre in lingua italiana possono leggersi pregevoli studi sui metodi interpretativi che egli ha difeso per tutta la sua vita, sono assenti biografie intellettuali del giudice statunitense presentate in forma monografica. Probabilmente anche per tale ragione, è diffuso l’equivoco che vuole Scalia come una sorta di difensore del conservatorismo politico, quasi che si trattasse dell’archetipo di un giudice che (una volta tanto, direbbe qualcuno) infonde nelle sentenze valori e principi di destra. È indubbio che Scalia fosse politicamente un conservatore, ma da ciò non segue che l’originalismo e il testualismo siano metodi “politicamente” conservatori, come confermato dal fatto che diversi intellettuali americani, sia libertari che progressisti, si considerano originalisti e testualisti.
Il libro che qui si presenta vuole essere, non può che essere, una prima introduzione ad Antonin Scalia, un tentativo cioè di descrivere, in un’ordinata sintesi, la sua vita, il suo pensiero e la sua influenza. Molto altro su di lui si sarebbe dovuto scrivere, ma si sono voluti (potuti) comunque delineare i fondamenti culturali che stanno alla base, anzitutto, della convinzione che, per garantire certezza e prevedibilità del diritto, la norma sia da intendere secondo il suo tenore letterale, senza preoccuparsi delle intenzioni di chi ha redatto e approvato la legge; ancora, dell’affermazione che il giudice deve applicare la legge per come è, e non per come vorrebbe che fosse, e che spetta alle maggioranze politiche la responsabilità di determinare il corso del rinnovamento sociale; infine, della consapevolezza che è nella frammentazione e nella diffusione dei poteri che si ritrova la prima garanzia di una società libera.
Sia chiaro: le idee di Scalia possono condividersi o meno (lo stesso autore di queste pagine le approva solo fino a un certo punto), ma al fine di formarsi un’opinione compiuta è necessario conoscerle nella loro interezza. Questo è il primo scopo del libro che avete tra le mani. Ve ne è un secondo, e cioè verificare quali peculiari aspetti della judicial philosophy di Scalia possano essere di utile impiego all’interno del nostro contesto giuridico, sicché la conoscenza del pensiero e dell’opera del nostro autore non resti fine a se stessa, ma possa invece eventualmente costituire lievito di una specifica proposta culturale.