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Solo un momento

Solo un momento
Solo un momento

Un fatto di cronaca, terribile ma non inconsueto, un suicidio di un giovane, pone le premesse di una meditazione sul valore e il significato di questo gesto, in tutti i tempi. Accanto a Buscaroli è l’immenso scrittore francese Henry de Montherlant, a cui l’autore scrittore dedicò curatele di libri, saggi e traduzioni.

 

Solo un momento

“Esco un momento”, disse alla madre quel ragazzo di sedici anni, a Roma. E andò nel garage a impiccarsi. Non sospettava certamente di tracciare una metafora degna di uno stoico antico. Che cos’è infatti la morte di un ragazzo di sedici anni, la morte di ognuno di noi, se non un infinitesimale momento in quella fuga di atomi che è la storia universale?

Eppure, credo che nessuno, che sia padre o madre, potrà, per un pezzo sentire dai suoi figli una frase così apparentemente banale senza una stretta di panico.

Sarei capace, io, di capire quando “quel” momento viene? Ecco tutto. Per quanto mi riguarda, la frase mi torna come un motivo ossessionante. Se scrivo è forse per liberarmene, come dicono che accada nella confessione. Io mi confesso così: se la materia s’impunta, e resiste, la tiro fuori, pazientemente.

Perciò non prenderò il tono del predicatore. Non ne possiedo le certezze. Non farò neppure della sociologia, che disprezzo. Non dirò che se Marco, ragazzo di sedici anni compagno di quell’Antonio Giaquinto cui esplose la testa per un colpo di pistola alla nuca, si è impiccato in garage, la colpa è della società, di tutti noi, di tutti loro.

Marco non aveva più motivi di uccidersi di quanti non ne abbiano i suoi coetanei in questo paese che ogni giorno conta di meno, pesa di meno, si spegne.

Non aveva più motivi di uccidersi di tutti i milioni di adolescenti dell’Europa morta. La polemica delle generazioni è stata rifatta tante volte, da quando i “beat” inglesi si ribellarono assistendo a un dramma intitolato “Vòltati indietro con rabbia”. E se guardate dall’altra parte, scoprirete altre ragioni, Jan Palach, ricordate?.

Voglio offrire al ragazzo che è andato a uccidersi, nascondendo il suo gesto dietro quella metafora pudica e tremenda, il semplice fiore di un tentativo di capirlo.

Tentativo rischioso, perché potrebbe essere un elogio ispirato dall’ammirazione. E, si sa, non bisogna offrire queste solidarietà che possono diventare contagiose. “il suicidio condivide, con un certo numero di azioni, proprio delle minoranze, il temibile onore d’essere considerato un delitto, pur senza esserlo. E’ un falso delitto, un atto che nessuna ragione morale consente di trattare come un delitto, e che tuttavia l’umanità, tranne certi paesi e periodi, considera come un delitto, dai tempi più remoti”, scrisse Henry de Montherlant, che di suicidio doveva morire.

Prevedo l’obiezione: ma quale somiglianza ci può essere tra il suicidio di un anziano scrittore decadente a quello d’un ragazzo in boccio?

E invece c’è: è la solitudine del gesto, l’estrema solitudine del dominio di sé. “Il suicida è un vinto, dovette essere un tema di scuola nella Roma antica.

Ma che male c’è ad essere vinto?”, è il grido di Montherlant. Marco si è dichiarato vinto da qualche male troppo grande per lui, e ne ha tratto le conseguenze.

Per quanto sia terribile, per quanto si possa e si debba esortare i giovani generosi come lui, e sensibili alle sorti degli altri, a “prendere l’armi contro un mare di guai e guerreggiando por fine ad essi”, come dice Amleto; a vivere, insomma, per le proprie idee di pietà e di giustizia, invece che morire, nessuno ha il diritto di vilipendere il suicidio di questo ragazzo, come hanno fatto quanti hanno insinuato che fosse fragile di mente, impressionabile, facile alle suggestioni; o, peggio, quelli che l’hanno imbrancato nello stesso garage dei viziosi, degli sbandati, dei drogati, nelle vaste categorie dei relitti.

Sarebbe come certe equazioni lombrosiane tra genio e follia, certe spiegazioni sociologiche della delinquenza giovanile come un oscuro e frustrato desiderio d’epopea.

Anche io, confesso, ho creduto in passato che nella rivolta, nella contestazione e perfino nella delinquenza dei giovani si liberassero energie che in altri tempi si sfogavano nelle rivoluzioni, nelle grandi avventure collettive, coloniali o nazionali. Ma imparai a ricredermi. Ricordo l’impressione che mi fecero certe parole che sui piloti suicidi giapponesi scrisse il loro capo, l’ ammiraglio Teraoka: “Visitando le loro famiglie, ho potuto constatare che si trattò sempre dei figli migliori. Affettuosi, gentili verso i più anziani, disciplinati e silenziosi a scuola”.

Se penso a lontane figure di eroi, mi vengono in mente persone gentili e miti, come il maltese Borg Pisani, uomo di studi e di biblioteche, che giudò con una lampada un altro assalto suicida, quello dei nostri mas, a Malta. Lo stesso in cui cadde Teseo Tesei, un altro primo della classe, un taciturno.

E poi penso a Francesco Baracca, a Buscaglia, a Gino Visentini, l’asso dei cacciatori in Etiopia, a Carlo Fecia di Fossato, il nostro maggiore sommergibilista, suicida nell’anniversario dell’8 settembre, e continuo a non trovare tipi turbolenti e vocianti, ma una schiera di introversi, delicati, silenziosi.

Avevano ben altro dentro, che l’inadattabilità degl’inquieti, o la sete di violenza dei teppisti. Avevano l’animo mite e gentile, come Marco. Che nessuno lo imiti, per carità.

E tutti gli altri imparino piuttosto a vivere, con o senza la sete di giustizia. Ma che nessuno offenda il piccolo caduto solitario di una oscura quanto altera protesta.

Da “Il Giornale”, 26 gennaio 1979