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Sulla società naturale e sul matrimonio

Considerazioni sul significato costituzionale della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio

Introduzione

È sempre più frequente sentir discorrere di famiglia e matrimonio nonché sulle diverse appendici, che i termini qui evocati, suscitano nei diversi ambienti e a seconda della prospettiva del momento.

È possibile il matrimonio tra coppie omosessuali? La famiglia “tradizionale” composta da maschio e femmina deve essere superata? È essa stessa un ostacolo al riconoscimento ed allo sviluppo delle aspettative o, se si preferisce, al rispetto dei diritti di chi ama un altro essere umano del proprio sesso? Si può ancora valutare come essenziale, ai fini sociali e giuridici, una discriminazione “sul sesso”? E, poi, ma soprattutto, perché mai imporre come naturale ciò che in realtà (come alcuni studi dimostrerebbero) è frutto per lo più di convenzioni, abitudini e persino preconcetti? Non è forse vero, dal punto di vista scientifico e/o sociologico, che la famiglia tradizionale e soprattutto la famiglia legittima è “ente morale” cioè ente che, per definizione, sussiste solo ed in quanto riconosciuto dall’ordinamento giuridico?

Le predette domande (a cui possono affiancarsi altre innumerevoli questioni) si fondano nella sostanza sopra un nucleo essenziale: il se, il quando, il come ed il perché della famiglia è definito da norme giuridiche. Poiché queste sono frutto di convenzioni sociali e di scelte politiche, allora nulla vieta logicamente e giuridicamente di modificarle. Ogni regola (per definizione) è limite e se questo limite non può dirsi come essenziale anche se scritto in una costituzione, proprio perché è frutto di mesta e caduca volontà umana, allora può essere oltrepassato o almeno ridefinito.

Peraltro – è doveroso riconoscere – superare o derogare un ostacolo normativo, non significa necessariamente abolire ogni criterio o ambito di regolamentazione. Non vi è dubbio, infatti, che anche i più convinti assertori della massima libertà di scelta del sesso del coniuge convengono certamente che vi dovrà pur sempre essere una qualche regolamentazione, più o meno stringente, ma il tutto (almeno in un’ottica seria e non lasciva) dovrà giustificarsi di volta in volta ed essere sentito come pregnante dalla società in quel momento, ben sapendo comunque che col tempo e con l’acquisizione e sviluppo di conoscenze, cultura e consapevolezza ogni disposizione, che in un particolare momento potrebbe apparire come essenziale e invincibile, un domani potrà subire la scure della Storia.

Chi crede e vive nel positivismo giuridico – fatte salve ovviamente alcune posizioni di circostanza – ritiene che le sopraesposte considerazioni siano fondate e che nulla impedirebbe (poco importa se democraticamente o per atto arbitrario d’imperio) una codificazione e un riconoscimento della famiglia legittima composta da sposi dello stesso sesso. Del resto, questa ipotesi non è più meramente teorica ed il riconoscimento delle coppie omosessuali è dato ormai acquisito.

È oltremodo chiaro che anche innanzi al rifiuto (qualcuno potrebbe dire) “ostinato” di questo o quell’ordinamento statale alla tutela della same sex family, fatta propria da un Paese limitrofo o d’Oltreoceano o con cui si scambiano merci e si affidano i propri debiti, qualcuno un po’ cinicamente potrebbe ritenere che l’apertura alla “libertà matrimoniale sul sesso dei coniugi” sia un fatto ormai prossimo, data ormai la permeabilità dei diversi sistemi giuridici e la sempre più cogente necessità di dare la più ampia eco alle aspettative ed ai desideri personalissimi dei singoli.

Ecco che allora una discussione pro veritate sui temi qui introdotti pare essere priva di qualunque supporto effettivamente scientifico, poiché nessuna scienza umana e soprattutto giuridica potrebbe impedire l’accoglimento e lo sviluppo di un fenomeno che – piaccia o non piaccia – si sta comunque affermando da sé.

Tutto insomma risiederebbe nelle fragili coscienze dei singoli. In questo contesto, anche i riferimenti religiosi specie se di matrice cattolica sarebbero puri criteri personali di giudizio, poiché sarebbero mesti richiami al rispetto di principi e norme che non vincolano e non possono vincolare chi non li accetta per propria libera scelta, non fosse altro che in virtù del primo (non solo storicamente) diritto fondamentale dell’uomo: la libertà religiosa.

Chi scrive non teme di accettare i suddetti presupposti, eppure ritiene che l’impostazione di tutte le problematiche richiamate e qui solo accennate, siano (così si diceva un tempo in logica) mal formulate e che, in fondo, si deve semplicemente ammettere e riconoscere, al di là di ogni subdola visione, che la legge ed il diritto positivo in genere non possono mai mutare la natura delle cose.

La norma giuridica, essendo fondata sul linguaggio, può chiamare con nomi simili cose diversissime e persino escludere che una cosa esista o sia mai esistita. In alcuni casi, può anche, per raggiungere alcuni effetti, ammettere, senza diritto di prova contraria, che un evento o un fatto si sia davvero realizzato, quando magari agli occhi del mondo intero il tutto rappresenti una vera e propria farsa. La disposizione normativa, insomma, sol che il Principe voglia od il giudice dica, può confondere i significati ed i referenti semantici e ciò non solo per errore ma per cosciente decisione.

Dato un interesse da perseguire, la legge dà questo straordinario potere al Sovrano: egli può far finta che il mondo corrisponda ai suoi desiderata e rimuovere così (seppur nella sua sola testa ed in quella di coloro che gli hanno prestato cieca ubbidienza) ogni ostacolo che lo avvilisce o frena.

Ma al di là di ogni disgressione accademica e dovendo affrontare una questione serissima, è bene non divagare.

Il punto del discorso tutto sta in ciò: se ed in che termini possa concepirsi la famiglia legittima come società naturale.

Se, infatti, non è possibile dare concretezza a questa definizione, ogni argomentazione “razionale” a tutela della famiglia tradizionale, sia o meno accompagnata da sincero e devoto spirito religioso, sarebbe vana ed il tutto dovrebbe affrontarsi con le meste logiche del potere e, quindi, con il principio per cui vale solo la voce e la volontà dei più o dei più forti.

Né può appagare lo sforzo, certamente apprezzabile specie nelle intenzioni, di chi aggancia ogni argomento sul dato testuale di questa o quella costituzione o di questa o quella convenzione internazionale, poiché così facendo in fondo si segue inevitabilmente la logica di chi vuol superare il senso tradizionale della famiglia, poiché il tutto è pur sempre agganciato ad un fragile testo normativo. Del resto, anche l’art. 29 della Costituzione italiana, così tante volte invocato da questa o quella parte, non definisce ma presuppone la famiglia come società naturale e non è un caso che le tesi pro o a favore di questa o quella connotazione della famiglia possono essere, non solo giuridicamente, condivise se e solo se vi è un consenso su ciò che significhi l’espressione “società naturale”.

Di seguito, quindi, si cercherà di dare una risposta a tale questione; all’esito, si trarranno alcune conseguenze, che si reputa necessarie, alla luce dei tempi moderni e delle più immediate esigenze.

Una sola avvertenza, che si reputa indispensabile e doverosa tanto da doversi esplicitare senza equivoci e con massima franchezza.

Le osservazioni seguenti rappresentano una sostanziale modifica di una serie di considerazioni esposte da chi scrive altrove, considerazioni che oggi si ritiene di abbandonare definitivamente e senza riserve, non solo per ragioni connesse ad una rinnovata coscienza personale attinente alla propria religiosità cattolica, ma perché frutto di clamorosi errori categoriali. Non si intende abiurare alcuno scritto precedente, non volendo e potendo negare l’atto compiuto, ma si intende dare conto di un mutamento – così si crede, magari ingenuamente - verso il meglio.

Insomma, al di là di ogni ipocrisia e orgoglio di mesto studioso, si riconosce erga omnes di aver sbagliato, sperando che con le parole seguenti si possa in qualche modo contribuire a chiarire alcuni aspetti dell’odierno dibattito sulla natura e fine della famiglia non solo cristiana.

La famiglia è l’unica società naturale

Il concetto di società, quale che sia la visione del mondo di riferimento, è strettamente connessa con l’uomo, nel senso che se vi è una società la stessa non può che essere composta da uomini.

È oltremodo evidente che se si fa riferimento ad una società naturale, da contrapporsi ad una non naturale cioè artificiale e, dunque, in ultima analisi giuridica, ogni azione della stessa, dalla sua costituzione al suo scioglimento, deve fondarsi sopra una libera, e, quindi non coercibile volontà dei suoi membri. Vi deve, quindi, essere sempre (e deve sempre potersi concepire) una effettiva e reale volontà congiunta di mettersi insieme e di stare insieme. Insomma, solo la comune e costante volontà dei membri deve essere la fonte di ogni criterio d’azione di ciascun componente: qui l’assoluta sovranità della società è tutto e se manca o può mancare per qualsiasi ragione, viene meno la sua naturalità. Ma – è bene evidenziare – non si tratta una esaltazione dell’autonomia di ciascun singolo, ma della formazione di un’unica, coordinata ed autarchica volontà di tutti i singoli.

Inoltre, perché si possa parlare correttamente di una società naturale, l’unione umana deve essere tale che tutti gli atti e le relazioni dei suoi componenti siano tali per cui non è immaginabile (e non solo per le difficoltà pratiche del caso) altro rapporto o interazione umana se non tra i soci. Se, infatti, così non fosse, dovrebbe esserci una qualche regola (poco importa di quale natura) ai quali i soci dovrebbero attenersi nel relazionarsi con gli altri, ma in tal modo verrebbe meno l’assoluta sovranità della società e, quindi, la sua naturalità.

Da tutto ciò consegue che ove questa comune volontà venga meno per qualunque ragione, anche solo per atto unilaterale o per fatto naturale (per esempio la morte), è necessario che l’esistenza della società naturale debba venire meno.

Ma come si può realisticamente concepire un simile sistema? Non è forse vero che ibi societas, ibi ius?

Si è detto che la società naturale è e non può che essere costituita da essere umani.

La pluralità dei suoi componenti, quindi, è elemento essenziale senza il quale non è concepibile.

Da ciò deriva che gli uomini debbano essere almeno due. Ma può essa essere costituita da più di due persone?

La risposta è negativa e tale conclusione è presto dimostrata.

Se, infatti, la società naturale deve sussistere solo grazie alla effettiva e concreta volontà di tutti i suoi componenti, se questi sono tre o più di tre, è ipotizzabile il caso in cui, venendo meno un socio, la società resti grazie alla volontà degli altri: in questo modo, si contraddice l’assunto e quindi va scartata l’ipotesi in questione.

Da ciò possono desumersi una serie di considerazioni fondamentali.

Solo una società di due soli membri può essere naturale ed ogni altra composizione o non è società o, se lo è, è concepibile solo in senso non puramente naturale.

Nello stesso modo, tutte le regole della società sono regole che devono essere poste e condivise da tutti i membri ed essere necessariamente rispettate, poiché in questo contesto il dissenso o provoca la caducazione della società (a causa dell’insorgere della contrapposizione) o l’abrogazione della norma violata (in ragione dell’eventuale consenso dell’altra parte).

Ecco che allora in una società puramente naturale non è, per definizione, logicamente concepibile il dissenso e neppure la contrapposizione.

Tutto è fatto e vive per una comunione di volontà, che si traduce concretamente nell’adozione da parte dei suoi membri di comportamenti condivisi e apprezzati da tutti, tanto che l’azione e l’omissione dell’uno può, a tutta ragione, essere considerato come azione ed omissione dell’altro.

Solo nei confronti di regole poste dall’esterno potrebbe essere ammessa una dissociazione o, se si preferisce, un dissenso, poiché la violazione della regola dell’estraneo di per sé non implicherebbe la disgregazione della società naturale. Ma ciò, come più sopra notato, non è ammissibile o concepibile se vi è un terzo soggetto umano originario. Sicché ciò è ipotizzabile solo in ragione di un intervento spirituale, che, a tutti gli effetti anche logici, deve qualificarsi come sovrannaturale.

Lo sviluppo naturale della famiglia naturale

Quanto sopra riferito potrebbe essere criticato sulla scorta di semplici obiezioni: perché mai due solitari, quanto immaginifici soggetti dovrebbero stare insieme? E poi in che modo potrebbe darsi uno sviluppo della società naturale se essa è concepibile con due soli membri?

Ad entrambe le domande possono darsi chiare risposte.

Iniziamo dal “perché dell’unione”.

L’unica ragione che può spingere due soggetti a stare insieme è quella di voler stare insieme per una qualche necessità e perché due soggetti, che siano i soli viventi, possano in effetti unirsi è che abbiano effettivo interesse a far ciò.

Ciò può essere solo se siano da considerarsi in tutto e per tutto simili nella loro essenza, ma anche in tutto e per tutto complementari nella loro esistenza.

Anche adottando una visione squisitamente economica, del resto, non potrebbe concepirsi in questo contesto il mero duplicato, poiché in tal caso, tutto quel che potrebbe fare uno lo potrebbe fare anche l’altro e non vi sarebbe quindi interesse, se non occasionale, a stare insieme.

Non è quindi razionalmente concepibile che i due membri della società naturale siano, dal punto di vista delle caratteristiche esterne e sotto il profilo delle proprie capacità, del tutto identici.

La volontà di stare insieme si traduce, dunque, in necessità solo se vi sono cose che l’uno e l’altro non possono fare se non stando insieme.

In linea teorica, tale comune volontà può essere collegata solo a fini specifici o per prefissate esigenze oppure essere connessa genericamente in vista di ogni bisogno che dovesse sorgere nel corso della durata della vita dell’uno e dell’altro. Solo in quest’ultimo caso, la società naturale è correttamente concepibile poiché essa non può che essere vista che in maniera totalizzante, poiché solo in questo caso è possibile immaginare la realizzazione piena e costante di quella volontà comune dei suoi membri, che è alla base della vita stessa della società naturale. D’altra parte, se così non fosse, vi sarebbero bisogni od esigenze a priori divergenti che potrebbero essere soddisfatti dall’uno o dall’altro al di fuori della società naturale, con ciò contravvenendo l’ipotesi iniziale della perfetta assonanza di intenti e soprattutto dell’inesistenza di una vita del singolo al di fuori della società naturale. Ecco che allora la forma perpetua è l’unica forma che può rappresentare la struttura originaria e fondamentale dell’unione naturale.

Se la società naturale non può concepirsi se non in maniera perpetua, è evidente che i diversi scopi pratici della vita quotidiana, così come possono sorgere, così possono mutare o estinguersi. Ma ciò non significa che non sia immaginabile un fine, alla cui realizzazione debbano partecipare entrambi i membri, che una volta realizzato sia capace non solo di non perire ma anzi di svilupparsi da sé collegandosi proprio alla vita di coloro, che hanno costituito la società naturale, e persino di sopravvivere alla morte di entrambi.

Del resto, così come vi possono essere fini egoistici, cioè che soddisfino esclusivamente i bisogni dei membri della società naturale, così è immaginabile che vi sia anche almeno un fine altruistico e, quindi, che vi sia la volontà di soddisfare i bisogni di un altro essere umano, essere, che pur non essendo ancora in vita sin dall’inizio, potrà vivere solo grazie all’opera e alla volontà congiunta dei due soggetti costituenti la società naturale.

Questo fine altruistico è dato ed è rappresentato dalla filiazione naturale.

Tutto ciò fornisce una risposta anche al secondo interrogativo.

Se la società naturale è fatta da uomini, lo sviluppo della società segue il valore mortale dei suoi membri. Quindi, si potrebbe pensare che essa non possa sopravvivere alla morte di questo o quel socio.

Tale prospettiva sarebbe corretta se non fosse concepibile, appunto, uno sviluppo naturale della società naturale, il che però è contraddetto dal concetto di filiazione appena riferito.

È vero, come più sopra indicato, che la società naturale non può essere costituita da più di due membri, ma è pur vero che se il numero dei soci aumenta in ragione di un atto o, se si preferisce, di un fatto naturale, allora sopravviene un elemento che è figlio (in tutti i sensi) della società naturale e, quindi, suo prodotto che per ciò stesso, pur modificandone la struttura, non ne determina di per sé la semplice morte ma, se del caso e più correttamente, una sua evoluzione.

Detto ancor più chiaramente, la società naturale, allorché aumenta la presenza dei suoi membri per la nascita di uno o più figli, non è più la stessa e pone le basi per una nuova società, che muove da quella naturale e che ne costituisce il suo naturale sviluppo: dalla relazione a due, si passa ad una a tre o a quattro e così via, ma in tale sviluppo relazionale non si perde mai, se non a prezzo di rompere e disgregare la stessa società naturale originaria, la comunione iniziale.

I coniugi (ci sia permesso di utilizzare questo termine), quindi, continuano a vivere mossi da volontà identiche, ma i loro atti non sono più rivolti solo a loro stessi ma anche alla loro prole, ai loro figli, atti che evidentemente potranno avere un contenuto materiale (il mantenimento e sviluppo del corpo) o spirituale (l’educazione, cioè la trasmissione di pensieri ed esperienze).

Da questa prospettiva, deriva che la società non naturale cioè artificiale ovvero sociale, così come concepita ai giorni nostri, può nascere in senso naturale solo se si pone alla sua base una società naturale, cioè una società composta di due soli membri che abbiano, grazie alla loro unione, la capacità e la possibilità di procreare.

Una simile società naturale non può che essere composta da un uomo e da una donna.

Conclusioni parziali

Da tutto quanto sopra esposto deriva che solo con riferimento all’unione tra un uomo ed una donna può darsi una effettiva società naturale, cioè una società tra uomo e donna, che è l’unica che può avere in sé la ragione di una sua stabilità perpetua, cioè legata alla vita dei suoi membri, e che è capace di poter dar vita in maniera naturale ad un ente diverso.

In questa società naturale, che è naturalmente protesa a durare in perpetuo, l’uomo e la donna vivono insieme, agiscono insieme e vogliono tutto insieme e si predispongono a poter dare insieme la vita ad altri esseri umani.

Una simile società naturale prende il nome di famiglia e la sua essenza è ben rappresentata dalla biblica espressione “una carne sola”.

La concezione antichissima della famiglia posta alla base del villaggio inteso come unione di famiglie, di aristotelica memoria, dunque, ben si comprende in questa prospettiva, così come si comprende il fatto che non possa concepirsi altra società naturale se non quella composta tra uomo e donna. Infatti, senza eredi naturali ovvero senza che la società naturale possa trasformarsi naturalmente, la stessa sarebbe di per sé destinata a scomparire a priori. Ciò può non avvenire se e solo se essa è vista nella sua composizione eterosessuale, poiché solo con la filiazione naturale è possibile, come già ripetutamente accennato, un suo sviluppo e, dunque, una sua sopravvivenza seppur sotto altra forma.

D’altra parte, una società naturale, per essere davvero tale, deve pur sempre avere un qualche carattere di naturalità, id est di non dipendenza assoluta dalla volontà umana dei “fondatori” per la sua sopravvivenza, e tale carattere, non potendosi immaginare che risieda nell’atto costitutivo o nello svolgimento di singoli atti o pensieri, non può che rinvenirsi proprio nella possibilità del suo sviluppo a mezzo di atti naturali e, quindi, della procreazione.

Il riconoscimento della famiglia come società naturale nella comunità

Ma ciò detto, è pur vero che, in senso contrario e demolitorio, si potrebbe obiettare che la società naturale, così come sopra descritta, non esiste se non nelle favole o richiamando subdolamente testi sacri, sicché come potrebbe tutto ciò servire da assunto argomentativo per la società umana attuale che è composta da miliardi di persone per di più appartenenti a religioni diverse ed addirittura da atei? Come potrebbe tutto ciò impedire, proprio perché si assume che dalla società naturale deve nascere un qualcosa di diverso, alla società civile di riconoscere giuridicamente la famiglia omosessuale? Non si tratterebbe, infatti, di vedere riconosciuta una qualche forma naturale di società composta da membri delle stesso sesso, ma di ammettere che dalla società civile possono sorgere altre forme di famiglia e comunque di unione di vita tra esseri umani.

Un tale approccio, che pure ha un suo innegabile fascino argomentativo, sorvola una serie di elementi che è bene non trascurare.

È chiaro che nella pluralità della società umana le forme e le modalità di esplicazione del rapporto tra gli uomini sono pressoché infinite. Nello stesso modo, però, non si può ammettere che ogni forma o, se si preferisce, società di vita tra esseri umani sia per ciò solo identica alle altre. Da questo punto di vista, quel che è fondamentale è comprendere la peculiarità della società naturale, qui identificata nella famiglia, all’interno della società civile.

Il matrimonio

Fino a che la società naturale resta tale e, dunque, sino a che non vi sono altri membri che i due fondatori e non esiste altro mondo che il loro mondo originario, non si pone neppure concettualmente il problema della manifestazione o del riconoscimento della famiglia naturale.

Tale riconoscimento o per meglio dire il riconoscimento dell’unione stabile di vita tra uomo e donna, invece, diviene necessario allorché tale comunità si inserisce in un contesto più ampio e si pone, dunque, a contatto con la società civile e, fuor di metafora, con altri uomini e altre donne. Ciò perché, se non vi fosse un chiaro segno distintivo, tale unione potrebbe essere confusa o addirittura ritenuta come non percepibile, con conseguente perdita di qualsiasi valore. Inoltre senza una definizione dei contenuti di tale unione tutto apparirebbe come vuoto e, dunque, privo di rispetto o, per meglio dire, incapace di poter essere rispettato.

Peraltro in questo contesto, il riferimento semantico alla società naturale, così come più sopra definita, non sarebbe peregrino, poiché servirebbe per effettuare un richiamo preziosissimo all’identità delle ragioni, che possono spingere, pur nel nuovo contesto, un uomo ed una donna a vivere insieme fino alla morte e, soprattutto, a dare la vita ai propri figli. In altri termini, se è vero che la società composta tra uomo e donna non può, a stretto rigore di logica, essere intesa come “naturale”, ove si inserisca in una civiltà costituita da molti soggetti, è pur vero che si possono, ciò non di meno, individuare analogie o, per meglio dire, identità sulle ragioni della costituzione dell’unione, sulla forma del suo sviluppo e soprattutto sulla sua durata perpetua.

Anche nella società civile, infatti, un uomo e una donna possono voler vivere insieme sino alla morte, agendo sempre di comune accordo ed impegnarsi a mantenere ed educare i propri figli. Ma, mentre nella società naturale “fatto e diritto” sono intimamente connessi e non trova applicazione la legge di Hume, così che non è ipotizzabile, come accennato, alcuna frizione o disubbidienza fino a che la società naturale persiste, una simile volontà assume, nel contesto civile, un impegno dinamico e programmatico. Infatti, anche solo per definizione, da questa visuale una vita in assoluta solitudine con il coniuge non è pensabile così come una totale dipendenza reciproca, sicché vi saranno fisiologici margini di autonomia non concepibili nello stato naturale e, quindi, attività e contatti con soggetti terzi. Ecco che allora ben può comprendersi come l’unione tra uomo e donna possa permanere pur non essendoci nei fatti una piena e costante comunione di vita e di pensieri.

Il segno, il simbolo che permette di manifestare all’esterno, al fine del riconoscimento erga omnes di tale unione e comunque dell’impegno volontario dell’uomo e della donna di vivere insieme in una comunione spirituale o materiale con promessa reciproca di dare la vita e di darsi alla vita che verrà, si chiama, almeno nella nostra tradizione, matrimonio.

È, dunque, con il matrimonio o, meglio, solo con esso che è possibile ricostituire nell’evo contemporaneo una unione tra uomo e donna, che miri a vivere secondo i criteri ed i principi della famiglia della società naturale.

Fuori dal matrimonio, infatti, manca non solo il pieno riconoscimento sociale della famiglia ma soprattutto ogni impegno perpetuo e reciproco di fedeltà e di donazione alla vita.

Il valore essenziale della famiglia fondata sul matrimonio

Alla luce di quanto sopra ben si comprende allora l’importanza ed il senso del riconoscimento della famiglia legittima come società naturale fondata sul matrimonio.

Si tratta, al di là di ogni tensione ideologica, del riconoscimento del diritto di un uomo e di una donna di vivere insieme nella comunità umana secondo i criteri propri della società naturale e, dunque, secondo una comunione di vita spirituale, che possa svilupparsi naturalmente mediante la procreazione e la filiazione.

La società civile, quindi, accettando di riconoscere una simile unione pone il proprio sviluppo naturale e fisiologico innanzi tutto sulle basi dello sviluppo naturale e fisiologico dell’istituto familiare, che per ciò stesso non può essere deviato dalla sua ragione d’essere e dai suoi fini e compiti.

Una società civile, che non riconosca la famiglia legittima come società naturale fondata sul matrimonio, mira a sganciare il proprio sviluppo e la propria sopravvivenza da ogni connessione naturale, divenendo per ciò solo un mero e mesto artificio destinato a soccombere inesorabilmente.

Ma tale riconoscimento per essere effettivo non può limitarsi ad una mera tolleranza e neppure ad una semplice considerazione programmatica, dovendo invece essere l’effettiva base essenziale per permettere lo sviluppo della società nel suo insieme.

La tutela ed il valore del vincolo matrimoniale

Non basta quindi non privare di significato il concetto di famiglia legittima, ma è indispensabile procedere secondo logiche di assistenza e di incentivo in favore della stessa e del suo sviluppo e ciò non per bieco perbenismo, ma per il semplice fatto che se il nucleo essenziale della società non è fondato su solide basi e, quindi, su volontà capaci (almeno in potenza) di vincere i propri egoismi, l’edificio sovrastante cadrà se non alla prima alla seconda scossa e soprattutto, una volta caduto, nessuno sarà in grado di ricostruirlo.

Nello stesso modo, i vincoli di fedeltà e di unione matrimoniale non possono essere concepiti come meri impegni programmatici, ma devono essere dei veri e propri diritti e doveri assoluti, cioè diritti e doveri che devono essere rispettati da chiunque e, quindi, dagli estranei alla coppia ma anche dalla coppia stessa.

Con ciò non si pretende né si vuole invocare alcuna super-tutela giuridica di stampo scioccamente repressivo, ma è evidente che perché una istituzione possa dirsi esistente è necessario che i suoi elementi costitutivi siano rispettati, il che non può che tradursi nel considerare come illegittimo ogni atto proteso a violare e a ledere detti vincoli e, quindi, il senso ed il significato del matrimonio.

La famiglia e rapporti umani naturali nella società

Parlare oggi della famiglia non legittima o di fatto come “società naturale”, per quanto sopra esposto, è un non senso.

Nello stesso modo, paragonare la famiglia legittima fondata sul matrimonio all’unione di vita tra persone dello stesso sesso è improponibile, non solo perché si tratterebbe comunque di coppie assolutamente diverse proprio in base al sesso dei componenti, ma anche perché solo la famiglia in senso tradizionale, cioè quella fondata tra uomo e donna, protesa a procreare naturalmente può dare un fondamento naturale e necessario ad una qualunque comunità sociale.

Nello stesso modo, oggi il richiamo alla società naturale è e può essere ammesso solo se lo si ricollega al concetto di matrimonio.

Fuori da quest’ambito vi è solo confusione, che nei fatti produce insicurezza e tensione ideologica.

Gli uomini e le donne, come accennato, possono nella situazione attuale trovare mille e più forme di adesione reciproca, ma quand’anche tale unioni siano riconosciute, in alcun modo può invocarsi il paradigma della famiglia legittima e ancor più della società naturale per effettuare equiparazioni impossibili.

Il legislatore anche costituzionale - è innegabile - ben potrebbe fingere o far finta che i sopra riferiti fenomeni siano la stessa cosa, ma si tratterebbe - è altrettanto innegabile - di vera finzione.

Ma se così è, ciò vuol dire che nessuno spazio di riconoscimento è ammissibile per le coppie omosessuali o per le famiglie di fatto? Nessun diritto, dunque, può essere concesso a chi vive sinceramente con un’altra persona ancorché non sposata? Ed è mai possibile che due omosessuali, che magari vivono la propria condizione nel pieno rispetto reciproco e in assoluta continenza, non possano che essere dipinti a tinte fosche e lasciati sempre e comunque da soli?

Credo in tutta sincerità di no e ciò specialmente avendo alla mente numerosi istituti i cui connotati sono prevalentemente patrimoniali. Ma se è innegabile che nessun uomo può legittimamente interferire con la forza sulle scelte personali di vita dell’altro e neppure si può accettare di offendere l’identità sessuale di una qualunque persona, si deve pur riconoscere che tutte queste situazioni non sono e non possono essere valutate come espressioni del medesimo genus a cui appartiene la famiglia legittima fondata da un uomo ed una donna.

È, infatti, nei contenuti dell’atto di matrimonio che si rinvengono gli elementi essenziali di tale distinzione e non solo nella storia degli istituti qui richiamati; contenuti che non possono essere mutati nella loro parte essenziale, anche se si è spinti dalla migliore intenzione, poiché in tal modo si priva il matrimonio del suo valore fondamentale e cioè di essere l’atto con il quale è possibile che un uomo ed una donna possano dar vita tra loro ad una comunione di vita che si regga sopra i criteri propri di una società naturale, ad una comunione di vita che è la sola capace di svilupparsi naturalmente.

Perdere di vista questa peculiarità significa allora cancellare ogni cosa: solo nell’ombra dei concetti ogni cosa è ammissibile, poiché lì nulla è veramente tale quale appare e lì tutti possono dire tutto ed il contrario di tutto.

Conclusioni

È così giunto il tempo di concludere.

Nella tradizione occidentale il concetto di “società naturale” è stato evocato infinite volte e quasi sempre in contrapposizione alla società civile: vuoi per legittimarla, vuoi per determinarne alcune modifiche sostanziali.

Ecco che allora il suo espresso richiamo in Carte fondamentali, come quella italiana, può far pensare che il riferimento semantico sia quello di una semplice unione di uomini (poco importa se di maschi o di femmine) non fondata sopra vincoli giuridici e, dunque, di forza.

Se tale stato pre-civile sia il luogo della felicità degli uomini liberi oppure dell’oppressione del più forte, è questione dibattuta da secoli ed ogni opzione sul punto, in fondo, è buona secondo le necessità del momento.

Se, tuttavia, si considera il significato che in effetti può davvero avere l’espressione “società naturale”, allora ci si rende conto che essa non è costituita da vuote parole ed ha una reale e chiara consistenza, essendo riferibile ad una sola forma di comunità umana: all’unione originaria di vita tra l’uomo e la donna.

Tale unione, tuttavia, nella sua realtà storica o, se si preferisce, nella sua immanenza è ormai andata perduta per sempre, proprio in virtù dello sviluppo della società umana e non è nei fatti replicabile; replicabile o recuperabile, se si preferisce, è solo (ed il punto non è poco o di poco conto) il senso ed il valore spirituale ed ontologico di quella unione originaria, proprio (e solo) attraverso l’istituto del matrimonio e, quindi, attraverso l’impegno solenne preso innanzi alla propria comunità di amarsi e rispettarsi ogni giorno e per tutta la vita, volendo gli sposi dare vita e darsi ai propri figli per puro spirito di altruismo, per puro amore.

Per taluni e specie per qualche studioso, che ancor vede il giusnaturalismo necessariamente agganciato a valori inafferrabili o in vista della nascita di “nuove società libere” e non anche a doverosi criteri razionali e di valore per la tutela concreta e quotidiana della dignità umana contro gli abusi del potere, ciò può far sorridere o inorridire, essendo impensabile che la società attuale non nasca da un accordo ma – udite, udite – da un gesto d’amore originario.

Così anche il positivista ed il politico di turno potranno girarsi altrove, non avendo piacere di sentire che una costituzione possa fare come propria una visione di altissimo profilo dogmatico e di spiritualità profonda non soggetta alla prova dei voti e che vede nell’uomo e nelle donne non già soggetti economici, ma persone capaci di darsi all’altro e di impegnarsi per l’altro senza avere o pretendere nulla in cambio, se non amore e rispetto reciproci.

Certo è, però, che è giunto il tempo di appropriarsi di visioni non miopi dell’uomo e soprattutto di evitare che considerazioni generiche (e per ciò stesso apparentemente condivisibili) sulla relatività dei valori possano da sole giustificare ogni cosa.

Chi scrive sa e si rende conto, anche per la professione che svolge, che considerare il matrimonio come promessa ed impegno reciproco dei coniugi di amarsi e rispettarsi tutta la vita ha ed assume sempre più una connotazione idealistica, data la realtà odierna.

Lo Stato, peraltro, pur riconoscendo la valenza religiosa del matrimonio, senza particolari problemi ammette che esso possa essere sciolto senza l’intervento dell’Autorità sacra che lo ha celebrato. Ma è innegabile che ciò è frutto di un “trucco di scena”: è bastato far “duplicare” la dichiarazione degli impegni per poter così dare, nell’ordinamento statale, un’autonomia giuridica a vincoli che invece, per definizione, affondano le proprie radici nelle più profonde ragioni dell’uomo e della sua esistenza.

Ma non stupisce il fatto che sia arduo per gli uomini mantenere gli impegni assunti pur con la massima buona fede ed il massimo impegno, né che si voglia trovare il modo di eliminare ogni vincolo perpetuo; stupisce invece, e non poco, che non si comprenda che è proprio per tutto questo che la realizzazione piena e vera delle ragioni e dei fini del matrimonio, che – si ripete – può essere concepito solo nell’ambito della società umana e come atto di donazione totale e reciproca tra l’uomo e la donna, non può essere affidata esclusivamente alle mani o ai pensieri dei mortali.

Ecco perché chi crede non può che accettare e farsi carico della verità del seguente versetto: “Quello che Dio ha congiunto, l’uomo non lo separi” (Mt. 19, 6).

Introduzione

È sempre più frequente sentir discorrere di famiglia e matrimonio nonché sulle diverse appendici, che i termini qui evocati, suscitano nei diversi ambienti e a seconda della prospettiva del momento.

È possibile il matrimonio tra coppie omosessuali? La famiglia “tradizionale” composta da maschio e femmina deve essere superata? È essa stessa un ostacolo al riconoscimento ed allo sviluppo delle aspettative o, se si preferisce, al rispetto dei diritti di chi ama un altro essere umano del proprio sesso? Si può ancora valutare come essenziale, ai fini sociali e giuridici, una discriminazione “sul sesso”? E, poi, ma soprattutto, perché mai imporre come naturale ciò che in realtà (come alcuni studi dimostrerebbero) è frutto per lo più di convenzioni, abitudini e persino preconcetti? Non è forse vero, dal punto di vista scientifico e/o sociologico, che la famiglia tradizionale e soprattutto la famiglia legittima è “ente morale” cioè ente che, per definizione, sussiste solo ed in quanto riconosciuto dall’ordinamento giuridico?

Le predette domande (a cui possono affiancarsi altre innumerevoli questioni) si fondano nella sostanza sopra un nucleo essenziale: il se, il quando, il come ed il perché della famiglia è definito da norme giuridiche. Poiché queste sono frutto di convenzioni sociali e di scelte politiche, allora nulla vieta logicamente e giuridicamente di modificarle. Ogni regola (per definizione) è limite e se questo limite non può dirsi come essenziale anche se scritto in una costituzione, proprio perché è frutto di mesta e caduca volontà umana, allora può essere oltrepassato o almeno ridefinito.

Peraltro – è doveroso riconoscere – superare o derogare un ostacolo normativo, non significa necessariamente abolire ogni criterio o ambito di regolamentazione. Non vi è dubbio, infatti, che anche i più convinti assertori della massima libertà di scelta del sesso del coniuge convengono certamente che vi dovrà pur sempre essere una qualche regolamentazione, più o meno stringente, ma il tutto (almeno in un’ottica seria e non lasciva) dovrà giustificarsi di volta in volta ed essere sentito come pregnante dalla società in quel momento, ben sapendo comunque che col tempo e con l’acquisizione e sviluppo di conoscenze, cultura e consapevolezza ogni disposizione, che in un particolare momento potrebbe apparire come essenziale e invincibile, un domani potrà subire la scure della Storia.

Chi crede e vive nel positivismo giuridico – fatte salve ovviamente alcune posizioni di circostanza – ritiene che le sopraesposte considerazioni siano fondate e che nulla impedirebbe (poco importa se democraticamente o per atto arbitrario d’imperio) una codificazione e un riconoscimento della famiglia legittima composta da sposi dello stesso sesso. Del resto, questa ipotesi non è più meramente teorica ed il riconoscimento delle coppie omosessuali è dato ormai acquisito.

È oltremodo chiaro che anche innanzi al rifiuto (qualcuno potrebbe dire) “ostinato” di questo o quell’ordinamento statale alla tutela della same sex family, fatta propria da un Paese limitrofo o d’Oltreoceano o con cui si scambiano merci e si affidano i propri debiti, qualcuno un po’ cinicamente potrebbe ritenere che l’apertura alla “libertà matrimoniale sul sesso dei coniugi” sia un fatto ormai prossimo, data ormai la permeabilità dei diversi sistemi giuridici e la sempre più cogente necessità di dare la più ampia eco alle aspettative ed ai desideri personalissimi dei singoli.

Ecco che allora una discussione pro veritate sui temi qui introdotti pare essere priva di qualunque supporto effettivamente scientifico, poiché nessuna scienza umana e soprattutto giuridica potrebbe impedire l’accoglimento e lo sviluppo di un fenomeno che – piaccia o non piaccia – si sta comunque affermando da sé.

Tutto insomma risiederebbe nelle fragili coscienze dei singoli. In questo contesto, anche i riferimenti religiosi specie se di matrice cattolica sarebbero puri criteri personali di giudizio, poiché sarebbero mesti richiami al rispetto di principi e norme che non vincolano e non possono vincolare chi non li accetta per propria libera scelta, non fosse altro che in virtù del primo (non solo storicamente) diritto fondamentale dell’uomo: la libertà religiosa.

Chi scrive non teme di accettare i suddetti presupposti, eppure ritiene che l’impostazione di tutte le problematiche richiamate e qui solo accennate, siano (così si diceva un tempo in logica) mal formulate e che, in fondo, si deve semplicemente ammettere e riconoscere, al di là di ogni subdola visione, che la legge ed il diritto positivo in genere non possono mai mutare la natura delle cose.

La norma giuridica, essendo fondata sul linguaggio, può chiamare con nomi simili cose diversissime e persino escludere che una cosa esista o sia mai esistita. In alcuni casi, può anche, per raggiungere alcuni effetti, ammettere, senza diritto di prova contraria, che un evento o un fatto si sia davvero realizzato, quando magari agli occhi del mondo intero il tutto rappresenti una vera e propria farsa. La disposizione normativa, insomma, sol che il Principe voglia od il giudice dica, può confondere i significati ed i referenti semantici e ciò non solo per errore ma per cosciente decisione.

Dato un interesse da perseguire, la legge dà questo straordinario potere al Sovrano: egli può far finta che il mondo corrisponda ai suoi desiderata e rimuovere così (seppur nella sua sola testa ed in quella di coloro che gli hanno prestato cieca ubbidienza) ogni ostacolo che lo avvilisce o frena.

Ma al di là di ogni disgressione accademica e dovendo affrontare una questione serissima, è bene non divagare.

Il punto del discorso tutto sta in ciò: se ed in che termini possa concepirsi la famiglia legittima come società naturale.

Se, infatti, non è possibile dare concretezza a questa definizione, ogni argomentazione “razionale” a tutela della famiglia tradizionale, sia o meno accompagnata da sincero e devoto spirito religioso, sarebbe vana ed il tutto dovrebbe affrontarsi con le meste logiche del potere e, quindi, con il principio per cui vale solo la voce e la volontà dei più o dei più forti.

Né può appagare lo sforzo, certamente apprezzabile specie nelle intenzioni, di chi aggancia ogni argomento sul dato testuale di questa o quella costituzione o di questa o quella convenzione internazionale, poiché così facendo in fondo si segue inevitabilmente la logica di chi vuol superare il senso tradizionale della famiglia, poiché il tutto è pur sempre agganciato ad un fragile testo normativo. Del resto, anche l’art. 29 della Costituzione italiana, così tante volte invocato da questa o quella parte, non definisce ma presuppone la famiglia come società naturale e non è un caso che le tesi pro o a favore di questa o quella connotazione della famiglia possono essere, non solo giuridicamente, condivise se e solo se vi è un consenso su ciò che significhi l’espressione “società naturale”.

Di seguito, quindi, si cercherà di dare una risposta a tale questione; all’esito, si trarranno alcune conseguenze, che si reputa necessarie, alla luce dei tempi moderni e delle più immediate esigenze.

Una sola avvertenza, che si reputa indispensabile e doverosa tanto da doversi esplicitare senza equivoci e con massima franchezza.

Le osservazioni seguenti rappresentano una sostanziale modifica di una serie di considerazioni esposte da chi scrive altrove, considerazioni che oggi si ritiene di abbandonare definitivamente e senza riserve, non solo per ragioni connesse ad una rinnovata coscienza personale attinente alla propria religiosità cattolica, ma perché frutto di clamorosi errori categoriali. Non si intende abiurare alcuno scritto precedente, non volendo e potendo negare l’atto compiuto, ma si intende dare conto di un mutamento – così si crede, magari ingenuamente - verso il meglio.

Insomma, al di là di ogni ipocrisia e orgoglio di mesto studioso, si riconosce erga omnes di aver sbagliato, sperando che con le parole seguenti si possa in qualche modo contribuire a chiarire alcuni aspetti dell’odierno dibattito sulla natura e fine della famiglia non solo cristiana.

La famiglia è l’unica società naturale

Il concetto di società, quale che sia la visione del mondo di riferimento, è strettamente connessa con l’uomo, nel senso che se vi è una società la stessa non può che essere composta da uomini.

È oltremodo evidente che se si fa riferimento ad una società naturale, da contrapporsi ad una non naturale cioè artificiale e, dunque, in ultima analisi giuridica, ogni azione della stessa, dalla sua costituzione al suo scioglimento, deve fondarsi sopra una libera, e, quindi non coercibile volontà dei suoi membri. Vi deve, quindi, essere sempre (e deve sempre potersi concepire) una effettiva e reale volontà congiunta di mettersi insieme e di stare insieme. Insomma, solo la comune e costante volontà dei membri deve essere la fonte di ogni criterio d’azione di ciascun componente: qui l’assoluta sovranità della società è tutto e se manca o può mancare per qualsiasi ragione, viene meno la sua naturalità. Ma – è bene evidenziare – non si tratta una esaltazione dell’autonomia di ciascun singolo, ma della formazione di un’unica, coordinata ed autarchica volontà di tutti i singoli.

Inoltre, perché si possa parlare correttamente di una società naturale, l’unione umana deve essere tale che tutti gli atti e le relazioni dei suoi componenti siano tali per cui non è immaginabile (e non solo per le difficoltà pratiche del caso) altro rapporto o interazione umana se non tra i soci. Se, infatti, così non fosse, dovrebbe esserci una qualche regola (poco importa di quale natura) ai quali i soci dovrebbero attenersi nel relazionarsi con gli altri, ma in tal modo verrebbe meno l’assoluta sovranità della società e, quindi, la sua naturalità.

Da tutto ciò consegue che ove questa comune volontà venga meno per qualunque ragione, anche solo per atto unilaterale o per fatto naturale (per esempio la morte), è necessario che l’esistenza della società naturale debba venire meno.

Ma come si può realisticamente concepire un simile sistema? Non è forse vero che ibi societas, ibi ius?

Si è detto che la società naturale è e non può che essere costituita da essere umani.

La pluralità dei suoi componenti, quindi, è elemento essenziale senza il quale non è concepibile.

Da ciò deriva che gli uomini debbano essere almeno due. Ma può essa essere costituita da più di due persone?

La risposta è negativa e tale conclusione è presto dimostrata.

Se, infatti, la società naturale deve sussistere solo grazie alla effettiva e concreta volontà di tutti i suoi componenti, se questi sono tre o più di tre, è ipotizzabile il caso in cui, venendo meno un socio, la società resti grazie alla volontà degli altri: in questo modo, si contraddice l’assunto e quindi va scartata l’ipotesi in questione.

Da ciò possono desumersi una serie di considerazioni fondamentali.

Solo una società di due soli membri può essere naturale ed ogni altra composizione o non è società o, se lo è, è concepibile solo in senso non puramente naturale.

Nello stesso modo, tutte le regole della società sono regole che devono essere poste e condivise da tutti i membri ed essere necessariamente rispettate, poiché in questo contesto il dissenso o provoca la caducazione della società (a causa dell’insorgere della contrapposizione) o l’abrogazione della norma violata (in ragione dell’eventuale consenso dell’altra parte).

Ecco che allora in una società puramente naturale non è, per definizione, logicamente concepibile il dissenso e neppure la contrapposizione.

Tutto è fatto e vive per una comunione di volontà, che si traduce concretamente nell’adozione da parte dei suoi membri di comportamenti condivisi e apprezzati da tutti, tanto che l’azione e l’omissione dell’uno può, a tutta ragione, essere considerato come azione ed omissione dell’altro.

Solo nei confronti di regole poste dall’esterno potrebbe essere ammessa una dissociazione o, se si preferisce, un dissenso, poiché la violazione della regola dell’estraneo di per sé non implicherebbe la disgregazione della società naturale. Ma ciò, come più sopra notato, non è ammissibile o concepibile se vi è un terzo soggetto umano originario. Sicché ciò è ipotizzabile solo in ragione di un intervento spirituale, che, a tutti gli effetti anche logici, deve qualificarsi come sovrannaturale.

Lo sviluppo naturale della famiglia naturale

Quanto sopra riferito potrebbe essere criticato sulla scorta di semplici obiezioni: perché mai due solitari, quanto immaginifici soggetti dovrebbero stare insieme? E poi in che modo potrebbe darsi uno sviluppo della società naturale se essa è concepibile con due soli membri?

Ad entrambe le domande possono darsi chiare risposte.

Iniziamo dal “perché dell’unione”.

L’unica ragione che può spingere due soggetti a stare insieme è quella di voler stare insieme per una qualche necessità e perché due soggetti, che siano i soli viventi, possano in effetti unirsi è che abbiano effettivo interesse a far ciò.

Ciò può essere solo se siano da considerarsi in tutto e per tutto simili nella loro essenza, ma anche in tutto e per tutto complementari nella loro esistenza.

Anche adottando una visione squisitamente economica, del resto, non potrebbe concepirsi in questo contesto il mero duplicato, poiché in tal caso, tutto quel che potrebbe fare uno lo potrebbe fare anche l’altro e non vi sarebbe quindi interesse, se non occasionale, a stare insieme.

Non è quindi razionalmente concepibile che i due membri della società naturale siano, dal punto di vista delle caratteristiche esterne e sotto il profilo delle proprie capacità, del tutto identici.

La volontà di stare insieme si traduce, dunque, in necessità solo se vi sono cose che l’uno e l’altro non possono fare se non stando insieme.

In linea teorica, tale comune volontà può essere collegata solo a fini specifici o per prefissate esigenze oppure essere connessa genericamente in vista di ogni bisogno che dovesse sorgere nel corso della durata della vita dell’uno e dell’altro. Solo in quest’ultimo caso, la società naturale è correttamente concepibile poiché essa non può che essere vista che in maniera totalizzante, poiché solo in questo caso è possibile immaginare la realizzazione piena e costante di quella volontà comune dei suoi membri, che è alla base della vita stessa della società naturale. D’altra parte, se così non fosse, vi sarebbero bisogni od esigenze a priori divergenti che potrebbero essere soddisfatti dall’uno o dall’altro al di fuori della società naturale, con ciò contravvenendo l’ipotesi iniziale della perfetta assonanza di intenti e soprattutto dell’inesistenza di una vita del singolo al di fuori della società naturale. Ecco che allora la forma perpetua è l’unica forma che può rappresentare la struttura originaria e fondamentale dell’unione naturale.

Se la società naturale non può concepirsi se non in maniera perpetua, è evidente che i diversi scopi pratici della vita quotidiana, così come possono sorgere, così possono mutare o estinguersi. Ma ciò non significa che non sia immaginabile un fine, alla cui realizzazione debbano partecipare entrambi i membri, che una volta realizzato sia capace non solo di non perire ma anzi di svilupparsi da sé collegandosi proprio alla vita di coloro, che hanno costituito la società naturale, e persino di sopravvivere alla morte di entrambi.

Del resto, così come vi possono essere fini egoistici, cioè che soddisfino esclusivamente i bisogni dei membri della società naturale, così è immaginabile che vi sia anche almeno un fine altruistico e, quindi, che vi sia la volontà di soddisfare i bisogni di un altro essere umano, essere, che pur non essendo ancora in vita sin dall’inizio, potrà vivere solo grazie all’opera e alla volontà congiunta dei due soggetti costituenti la società naturale.

Questo fine altruistico è dato ed è rappresentato dalla filiazione naturale.

Tutto ciò fornisce una risposta anche al secondo interrogativo.

Se la società naturale è fatta da uomini, lo sviluppo della società segue il valore mortale dei suoi membri. Quindi, si potrebbe pensare che essa non possa sopravvivere alla morte di questo o quel socio.

Tale prospettiva sarebbe corretta se non fosse concepibile, appunto, uno sviluppo naturale della società naturale, il che però è contraddetto dal concetto di filiazione appena riferito.

È vero, come più sopra indicato, che la società naturale non può essere costituita da più di due membri, ma è pur vero che se il numero dei soci aumenta in ragione di un atto o, se si preferisce, di un fatto naturale, allora sopravviene un elemento che è figlio (in tutti i sensi) della società naturale e, quindi, suo prodotto che per ciò stesso, pur modificandone la struttura, non ne determina di per sé la semplice morte ma, se del caso e più correttamente, una sua evoluzione.

Detto ancor più chiaramente, la società naturale, allorché aumenta la presenza dei suoi membri per la nascita di uno o più figli, non è più la stessa e pone le basi per una nuova società, che muove da quella naturale e che ne costituisce il suo naturale sviluppo: dalla relazione a due, si passa ad una a tre o a quattro e così via, ma in tale sviluppo relazionale non si perde mai, se non a prezzo di rompere e disgregare la stessa società naturale originaria, la comunione iniziale.

I coniugi (ci sia permesso di utilizzare questo termine), quindi, continuano a vivere mossi da volontà identiche, ma i loro atti non sono più rivolti solo a loro stessi ma anche alla loro prole, ai loro figli, atti che evidentemente potranno avere un contenuto materiale (il mantenimento e sviluppo del corpo) o spirituale (l’educazione, cioè la trasmissione di pensieri ed esperienze).

Da questa prospettiva, deriva che la società non naturale cioè artificiale ovvero sociale, così come concepita ai giorni nostri, può nascere in senso naturale solo se si pone alla sua base una società naturale, cioè una società composta di due soli membri che abbiano, grazie alla loro unione, la capacità e la possibilità di procreare.

Una simile società naturale non può che essere composta da un uomo e da una donna.

Conclusioni parziali

Da tutto quanto sopra esposto deriva che solo con riferimento all’unione tra un uomo ed una donna può darsi una effettiva società naturale, cioè una società tra uomo e donna, che è l’unica che può avere in sé la ragione di una sua stabilità perpetua, cioè legata alla vita dei suoi membri, e che è capace di poter dar vita in maniera naturale ad un ente diverso.

In questa società naturale, che è naturalmente protesa a durare in perpetuo, l’uomo e la donna vivono insieme, agiscono insieme e vogliono tutto insieme e si predispongono a poter dare insieme la vita ad altri esseri umani.

Una simile società naturale prende il nome di famiglia e la sua essenza è ben rappresentata dalla biblica espressione “una carne sola”.

La concezione antichissima della famiglia posta alla base del villaggio inteso come unione di famiglie, di aristotelica memoria, dunque, ben si comprende in questa prospettiva, così come si comprende il fatto che non possa concepirsi altra società naturale se non quella composta tra uomo e donna. Infatti, senza eredi naturali ovvero senza che la società naturale possa trasformarsi naturalmente, la stessa sarebbe di per sé destinata a scomparire a priori. Ciò può non avvenire se e solo se essa è vista nella sua composizione eterosessuale, poiché solo con la filiazione naturale è possibile, come già ripetutamente accennato, un suo sviluppo e, dunque, una sua sopravvivenza seppur sotto altra forma.

D’altra parte, una società naturale, per essere davvero tale, deve pur sempre avere un qualche carattere di naturalità, id est di non dipendenza assoluta dalla volontà umana dei “fondatori” per la sua sopravvivenza, e tale carattere, non potendosi immaginare che risieda nell’atto costitutivo o nello svolgimento di singoli atti o pensieri, non può che rinvenirsi proprio nella possibilità del suo sviluppo a mezzo di atti naturali e, quindi, della procreazione.

Il riconoscimento della famiglia come società naturale nella comunità

Ma ciò detto, è pur vero che, in senso contrario e demolitorio, si potrebbe obiettare che la società naturale, così come sopra descritta, non esiste se non nelle favole o richiamando subdolamente testi sacri, sicché come potrebbe tutto ciò servire da assunto argomentativo per la società umana attuale che è composta da miliardi di persone per di più appartenenti a religioni diverse ed addirittura da atei? Come potrebbe tutto ciò impedire, proprio perché si assume che dalla società naturale deve nascere un qualcosa di diverso, alla società civile di riconoscere giuridicamente la famiglia omosessuale? Non si tratterebbe, infatti, di vedere riconosciuta una qualche forma naturale di società composta da membri delle stesso sesso, ma di ammettere che dalla società civile possono sorgere altre forme di famiglia e comunque di unione di vita tra esseri umani.

Un tale approccio, che pure ha un suo innegabile fascino argomentativo, sorvola una serie di elementi che è bene non trascurare.

È chiaro che nella pluralità della società umana le forme e le modalità di esplicazione del rapporto tra gli uomini sono pressoché infinite. Nello stesso modo, però, non si può ammettere che ogni forma o, se si preferisce, società di vita tra esseri umani sia per ciò solo identica alle altre. Da questo punto di vista, quel che è fondamentale è comprendere la peculiarità della società naturale, qui identificata nella famiglia, all’interno della società civile.

Il matrimonio

Fino a che la società naturale resta tale e, dunque, sino a che non vi sono altri membri che i due fondatori e non esiste altro mondo che il loro mondo originario, non si pone neppure concettualmente il problema della manifestazione o del riconoscimento della famiglia naturale.

Tale riconoscimento o per meglio dire il riconoscimento dell’unione stabile di vita tra uomo e donna, invece, diviene necessario allorché tale comunità si inserisce in un contesto più ampio e si pone, dunque, a contatto con la società civile e, fuor di metafora, con altri uomini e altre donne. Ciò perché, se non vi fosse un chiaro segno distintivo, tale unione potrebbe essere confusa o addirittura ritenuta come non percepibile, con conseguente perdita di qualsiasi valore. Inoltre senza una definizione dei contenuti di tale unione tutto apparirebbe come vuoto e, dunque, privo di rispetto o, per meglio dire, incapace di poter essere rispettato.

Peraltro in questo contesto, il riferimento semantico alla società naturale, così come più sopra definita, non sarebbe peregrino, poiché servirebbe per effettuare un richiamo preziosissimo all’identità delle ragioni, che possono spingere, pur nel nuovo contesto, un uomo ed una donna a vivere insieme fino alla morte e, soprattutto, a dare la vita ai propri figli. In altri termini, se è vero che la società composta tra uomo e donna non può, a stretto rigore di logica, essere intesa come “naturale”, ove si inserisca in una civiltà costituita da molti soggetti, è pur vero che si possono, ciò non di meno, individuare analogie o, per meglio dire, identità sulle ragioni della costituzione dell’unione, sulla forma del suo sviluppo e soprattutto sulla sua durata perpetua.

Anche nella società civile, infatti, un uomo e una donna possono voler vivere insieme sino alla morte, agendo sempre di comune accordo ed impegnarsi a mantenere ed educare i propri figli. Ma, mentre nella società naturale “fatto e diritto” sono intimamente connessi e non trova applicazione la legge di Hume, così che non è ipotizzabile, come accennato, alcuna frizione o disubbidienza fino a che la società naturale persiste, una simile volontà assume, nel contesto civile, un impegno dinamico e programmatico. Infatti, anche solo per definizione, da questa visuale una vita in assoluta solitudine con il coniuge non è pensabile così come una totale dipendenza reciproca, sicché vi saranno fisiologici margini di autonomia non concepibili nello stato naturale e, quindi, attività e contatti con soggetti terzi. Ecco che allora ben può comprendersi come l’unione tra uomo e donna possa permanere pur non essendoci nei fatti una piena e costante comunione di vita e di pensieri.

Il segno, il simbolo che permette di manifestare all’esterno, al fine del riconoscimento erga omnes di tale unione e comunque dell’impegno volontario dell’uomo e della donna di vivere insieme in una comunione spirituale o materiale con promessa reciproca di dare la vita e di darsi alla vita che verrà, si chiama, almeno nella nostra tradizione, matrimonio.

È, dunque, con il matrimonio o, meglio, solo con esso che è possibile ricostituire nell’evo contemporaneo una unione tra uomo e donna, che miri a vivere secondo i criteri ed i principi della famiglia della società naturale.

Fuori dal matrimonio, infatti, manca non solo il pieno riconoscimento sociale della famiglia ma soprattutto ogni impegno perpetuo e reciproco di fedeltà e di donazione alla vita.

Il valore essenziale della famiglia fondata sul matrimonio

Alla luce di quanto sopra ben si comprende allora l’importanza ed il senso del riconoscimento della famiglia legittima come società naturale fondata sul matrimonio.

Si tratta, al di là di ogni tensione ideologica, del riconoscimento del diritto di un uomo e di una donna di vivere insieme nella comunità umana secondo i criteri propri della società naturale e, dunque, secondo una comunione di vita spirituale, che possa svilupparsi naturalmente mediante la procreazione e la filiazione.

La società civile, quindi, accettando di riconoscere una simile unione pone il proprio sviluppo naturale e fisiologico innanzi tutto sulle basi dello sviluppo naturale e fisiologico dell’istituto familiare, che per ciò stesso non può essere deviato dalla sua ragione d’essere e dai suoi fini e compiti.

Una società civile, che non riconosca la famiglia legittima come società naturale fondata sul matrimonio, mira a sganciare il proprio sviluppo e la propria sopravvivenza da ogni connessione naturale, divenendo per ciò solo un mero e mesto artificio destinato a soccombere inesorabilmente.

Ma tale riconoscimento per essere effettivo non può limitarsi ad una mera tolleranza e neppure ad una semplice considerazione programmatica, dovendo invece essere l’effettiva base essenziale per permettere lo sviluppo della società nel suo insieme.

La tutela ed il valore del vincolo matrimoniale

Non basta quindi non privare di significato il concetto di famiglia legittima, ma è indispensabile procedere secondo logiche di assistenza e di incentivo in favore della stessa e del suo sviluppo e ciò non per bieco perbenismo, ma per il semplice fatto che se il nucleo essenziale della società non è fondato su solide basi e, quindi, su volontà capaci (almeno in potenza) di vincere i propri egoismi, l’edificio sovrastante cadrà se non alla prima alla seconda scossa e soprattutto, una volta caduto, nessuno sarà in grado di ricostruirlo.

Nello stesso modo, i vincoli di fedeltà e di unione matrimoniale non possono essere concepiti come meri impegni programmatici, ma devono essere dei veri e propri diritti e doveri assoluti, cioè diritti e doveri che devono essere rispettati da chiunque e, quindi, dagli estranei alla coppia ma anche dalla coppia stessa.

Con ciò non si pretende né si vuole invocare alcuna super-tutela giuridica di stampo scioccamente repressivo, ma è evidente che perché una istituzione possa dirsi esistente è necessario che i suoi elementi costitutivi siano rispettati, il che non può che tradursi nel considerare come illegittimo ogni atto proteso a violare e a ledere detti vincoli e, quindi, il senso ed il significato del matrimonio.

La famiglia e rapporti umani naturali nella società

Parlare oggi della famiglia non legittima o di fatto come “società naturale”, per quanto sopra esposto, è un non senso.

Nello stesso modo, paragonare la famiglia legittima fondata sul matrimonio all’unione di vita tra persone dello stesso sesso è improponibile, non solo perché si tratterebbe comunque di coppie assolutamente diverse proprio in base al sesso dei componenti, ma anche perché solo la famiglia in senso tradizionale, cioè quella fondata tra uomo e donna, protesa a procreare naturalmente può dare un fondamento naturale e necessario ad una qualunque comunità sociale.

Nello stesso modo, oggi il richiamo alla società naturale è e può essere ammesso solo se lo si ricollega al concetto di matrimonio.

Fuori da quest’ambito vi è solo confusione, che nei fatti produce insicurezza e tensione ideologica.

Gli uomini e le donne, come accennato, possono nella situazione attuale trovare mille e più forme di adesione reciproca, ma quand’anche tale unioni siano riconosciute, in alcun modo può invocarsi il paradigma della famiglia legittima e ancor più della società naturale per effettuare equiparazioni impossibili.

Il legislatore anche costituzionale - è innegabile - ben potrebbe fingere o far finta che i sopra riferiti fenomeni siano la stessa cosa, ma si tratterebbe - è altrettanto innegabile - di vera finzione.

Ma se così è, ciò vuol dire che nessuno spazio di riconoscimento è ammissibile per le coppie omosessuali o per le famiglie di fatto? Nessun diritto, dunque, può essere concesso a chi vive sinceramente con un’altra persona ancorché non sposata? Ed è mai possibile che due omosessuali, che magari vivono la propria condizione nel pieno rispetto reciproco e in assoluta continenza, non possano che essere dipinti a tinte fosche e lasciati sempre e comunque da soli?

Credo in tutta sincerità di no e ciò specialmente avendo alla mente numerosi istituti i cui connotati sono prevalentemente patrimoniali. Ma se è innegabile che nessun uomo può legittimamente interferire con la forza sulle scelte personali di vita dell’altro e neppure si può accettare di offendere l’identità sessuale di una qualunque persona, si deve pur riconoscere che tutte queste situazioni non sono e non possono essere valutate come espressioni del medesimo genus a cui appartiene la famiglia legittima fondata da un uomo ed una donna.

È, infatti, nei contenuti dell’atto di matrimonio che si rinvengono gli elementi essenziali di tale distinzione e non solo nella storia degli istituti qui richiamati; contenuti che non possono essere mutati nella loro parte essenziale, anche se si è spinti dalla migliore intenzione, poiché in tal modo si priva il matrimonio del suo valore fondamentale e cioè di essere l’atto con il quale è possibile che un uomo ed una donna possano dar vita tra loro ad una comunione di vita che si regga sopra i criteri propri di una società naturale, ad una comunione di vita che è la sola capace di svilupparsi naturalmente.

Perdere di vista questa peculiarità significa allora cancellare ogni cosa: solo nell’ombra dei concetti ogni cosa è ammissibile, poiché lì nulla è veramente tale quale appare e lì tutti possono dire tutto ed il contrario di tutto.

Conclusioni

È così giunto il tempo di concludere.

Nella tradizione occidentale il concetto di “società naturale” è stato evocato infinite volte e quasi sempre in contrapposizione alla società civile: vuoi per legittimarla, vuoi per determinarne alcune modifiche sostanziali.

Ecco che allora il suo espresso richiamo in Carte fondamentali, come quella italiana, può far pensare che il riferimento semantico sia quello di una semplice unione di uomini (poco importa se di maschi o di femmine) non fondata sopra vincoli giuridici e, dunque, di forza.

Se tale stato pre-civile sia il luogo della felicità degli uomini liberi oppure dell’oppressione del più forte, è questione dibattuta da secoli ed ogni opzione sul punto, in fondo, è buona secondo le necessità del momento.

Se, tuttavia, si considera il significato che in effetti può davvero avere l’espressione “società naturale”, allora ci si rende conto che essa non è costituita da vuote parole ed ha una reale e chiara consistenza, essendo riferibile ad una sola forma di comunità umana: all’unione originaria di vita tra l’uomo e la donna.

Tale unione, tuttavia, nella sua realtà storica o, se si preferisce, nella sua immanenza è ormai andata perduta per sempre, proprio in virtù dello sviluppo della società umana e non è nei fatti replicabile; replicabile o recuperabile, se si preferisce, è solo (ed il punto non è poco o di poco conto) il senso ed il valore spirituale ed ontologico di quella unione originaria, proprio (e solo) attraverso l’istituto del matrimonio e, quindi, attraverso l’impegno solenne preso innanzi alla propria comunità di amarsi e rispettarsi ogni giorno e per tutta la vita, volendo gli sposi dare vita e darsi ai propri figli per puro spirito di altruismo, per puro amore.

Per taluni e specie per qualche studioso, che ancor vede il giusnaturalismo necessariamente agganciato a valori inafferrabili o in vista della nascita di “nuove società libere” e non anche a doverosi criteri razionali e di valore per la tutela concreta e quotidiana della dignità umana contro gli abusi del potere, ciò può far sorridere o inorridire, essendo impensabile che la società attuale non nasca da un accordo ma – udite, udite – da un gesto d’amore originario.

Così anche il positivista ed il politico di turno potranno girarsi altrove, non avendo piacere di sentire che una costituzione possa fare come propria una visione di altissimo profilo dogmatico e di spiritualità profonda non soggetta alla prova dei voti e che vede nell’uomo e nelle donne non già soggetti economici, ma persone capaci di darsi all’altro e di impegnarsi per l’altro senza avere o pretendere nulla in cambio, se non amore e rispetto reciproci.

Certo è, però, che è giunto il tempo di appropriarsi di visioni non miopi dell’uomo e soprattutto di evitare che considerazioni generiche (e per ciò stesso apparentemente condivisibili) sulla relatività dei valori possano da sole giustificare ogni cosa.

Chi scrive sa e si rende conto, anche per la professione che svolge, che considerare il matrimonio come promessa ed impegno reciproco dei coniugi di amarsi e rispettarsi tutta la vita ha ed assume sempre più una connotazione idealistica, data la realtà odierna.

Lo Stato, peraltro, pur riconoscendo la valenza religiosa del matrimonio, senza particolari problemi ammette che esso possa essere sciolto senza l’intervento dell’Autorità sacra che lo ha celebrato. Ma è innegabile che ciò è frutto di un “trucco di scena”: è bastato far “duplicare” la dichiarazione degli impegni per poter così dare, nell’ordinamento statale, un’autonomia giuridica a vincoli che invece, per definizione, affondano le proprie radici nelle più profonde ragioni dell’uomo e della sua esistenza.

Ma non stupisce il fatto che sia arduo per gli uomini mantenere gli impegni assunti pur con la massima buona fede ed il massimo impegno, né che si voglia trovare il modo di eliminare ogni vincolo perpetuo; stupisce invece, e non poco, che non si comprenda che è proprio per tutto questo che la realizzazione piena e vera delle ragioni e dei fini del matrimonio, che – si ripete – può essere concepito solo nell’ambito della società umana e come atto di donazione totale e reciproca tra l’uomo e la donna, non può essere affidata esclusivamente alle mani o ai pensieri dei mortali.

Ecco perché chi crede non può che accettare e farsi carico della verità del seguente versetto: “Quello che Dio ha congiunto, l’uomo non lo separi” (Mt. 19, 6).