Tra duelli e tornei
Un’aura cavalleresca circondava la famiglia dei duchi d’Aosta.
El Rey Caballero: dalla sua breve e sfortunata avventura come re di Spagna (1871-1873), il capostipite Amedeo, figlio cadetto di Vittorio Emanuele II, riportò in patria almeno un soprannome. Sin da giovane, egli aveva interpretato il ruolo romantico del principe-cavaliere, inaugurato dal nonno Carlo Alberto. Ancora nella seconda metà dell’Ottocento, il mito sabaudo della dinastia di eroi veniva spettacolarizzato da una serie di feste in costume che prendeva le mosse dal Gothic revival della Restaurazione. Al ballo e al torneo per le nozze torinesi dei principi di Piemonte Umberto e Margherita (1868) Amedeo, fratello dello sposo, aveva impersonato l’antenato crociato di cui portava il nome, Amedeo VI il Conte verde.
Due dei suoi figli ereditarono la stessa fascinazione tardiva – quasi fuori tempo massimo – per un Medioevo troubadour popolato di indomiti cavalieri: ancora nel 1893 parteciparono al torneo in costume a Villa Borghese per le nozze d’argento dei sovrani. Nella vita quotidiana di Emanuele Filiberto (1869-1931), poi duca d’Aosta, e in particolare del fratello minore Vittorio Emanuele (1870 –1946), conte di Torino, quest’attrazione si traduceva nell’uso insistito di stemmi, motti ed emblemi individuali per decorare gli oggetti di cui si circondavano e gli ambienti in cui vivevano. Un questione di gusto, più che una raffinata costruzione intellettuale o una ricostruzione storicista (lontana, per dire, dall’impostazione dei restauratori-architetti dell’epoca, Alfredo D’Andrade in testa); un gusto comunque transitato da re Carlo Alberto agli Aosta, ma assente nei Savoia del ramo principale.
Avviato a una brillante carriera militare nell’arma di cavalleria, il conte di Torino – che per il resto condusse una vita piuttosto schiva – finì sui giornali nel 1897, in un momento in cui la retorica nazionale aveva un estremo bisogno di eroi: a Vaucresson (Versailles) Vittorio Emanuele sfidò a duello e batté il principe francese Henri d’Orléans, noto esploratore, reo di aver calunniato dalle pagine de Le Figaro il valore dei militari italiani presi prigionieri nella disfatta di Adua. Al suo ritorno in patria il conte di Torino fu accolto trionfalmente dai sovrani, dalla stampa e dai poeti che gravitavano sul salotto letterario della regina Margherita. Tra questi Carducci (che lo salutò come “valoroso campione dell’esercito e vindice del nome italiano”) e Pascoli, che gli dedicò un componimento, Le due spade.
“Victorius E(m)manuel”: un’iscrizione in caratteri gotici identifica il ritratto simbolico del conte, presentato - in tempi non lontani dal duello - come cavaliere in equipaggiamento da torneo, con scudo e gualdrappa ai colori dei Savoia-Aosta, banderuola e cimiero di casa Savoia. Il bozzetto, realizzato da Adolfo Dalbesio, ci è conservato in copia fotografica colorata a tempera della ditta Lovazzano, nell’archivio della ditta Musy. La firma dell’artista, parzialmente coperta dalla coloritura della fotografia, è ben leggibile in altri esemplari in bianco e nero. La composizione tradisce dei modelli colti, riprendendo i cavalieri in gran tenuta tornearia con insegne, nomi e titoli, miniati nel magnifico Grand armorial équestre de la Toison d’Or nel XV° secolo (Paris, Bibliothèque de l’Arsenal, ms. 4790).
Non era un caso. L’ingegner Dalbesio (1857- 1914) si era specializzato nella miniatura su pergamena. Nella sua folta e richiestissima produzione di stampo celebrativo la decorazione araldica e calligrafica, di gusto neomedievale e neorinascimentale, aveva una parte importante: suoi, ad esempio, sono il manifesto della sezione di storia dell’arte dell’Esposizione nazionale di Torino del 1884 al Borgo medievale di Torino (alla cui progettazione Dalbesio prese parte) e le imponenti pitture araldiche realizzate nello scalone d’onore del castello di Racconigi nel 1904-1905 su commissione regia. Dalbesio si esercitò anche nella produzione di cartoline illustrate, che commemoravano eventi risorgimentali o corpi militari del vecchio Piemonte. La sua attività per Casa Savoia aveva l’imprimatur ufficiale dal barone Antonio Manno, commissario del Re presso la Consulta araldica e vera autorità in materia, anche sotto il profilo storico: il visto di Manno compare su questo e altri bozzetti, nati dalla collaborazione tra i due e forniti - parte in originale, parte in fotografia – alla prestigiosa ditta Musy.
Celebri orafi torinesi, fornitori della Real Casa e delle case ducali di Aosta e Genova, i Musy avevano un ricco archivio, depositato dai discendenti presso l’Archivio di Stato di Torino nel 2010: per la storia dell’oreficeria tra Otto e Novecento, una vera e propria miniera di documenti, disegni, fotografie, conii, strumenti e attrezzi per la produzione. Un fascicolo apposito (Fotografie e disegni di stemmi della Real Casa) conserva bozzetti in originale e in copia delle insegne personali di Emanuele Filiberto e Vittorio Emanuele, probabilmente acquisiti come materiali di studio e ispirazione; in altri album le raffigurazioni a tema araldico sono palesemente destinate alla riproduzione diretta su argenterie, gioielli e altri preziosi.
Ma torniamo al tandem Manno-Dalbesio. Il primo era la mente storico-iconografica, il secondo la mano artistica, come rivela anche il carteggio personale di Manno, conservato anch’esso in Archivio di Stato. Era stato Manno a ideare gli stemmi della famiglia reale, sanciti da un Regio decreto del 1° gennaio 1890: quello dei duchi d’Aosta doveva essere “di rosso alla croce d’argento, con una bordura composta d’oro e d’azzurro”. Il fondo Musy propone un’interpretazione medievaleggiante di Dalbesio, approvata da Manno dove lo scudo è circondato dal collare dell’ordine dell’Annunziata, intrecciato al motto in caratteri gotici “Roy Savoye ma voye” (il re e Savoia sono la mia via).
L’elmo è ornato da una mantellina seminata di iniziali RSMV, che compendiano il motto, e sormontato dalla corona dei principi reali, dalla quale nasce il cimiero, l’aquila nera di Savoia antica. L’insieme tradisce l’influsso dell’eclettismo, con elementi di forme gotiche, rinascimentali, moderne e contemporanee, composte dall’artista in un gradevole pastiche.
Il motto personalizzato, una variante del cinquecentesco “Suivant sa voie” di Filippo di Savoia-Nemours, esprime ancora una volta l’autorappresentazione in chiave cavalleresca e militare dei due fratelli Aosta. Un tema che ritorna in due altri stemmi individuali: uno di Emanuele Filiberto, con sfoggio di bandiere sabaude e cannoni per sottolineare la sua appartenenza all’arma d’Artiglieria;
l’altro – nelle due versioni, il bozzetto e la fotografia del disegno finale – di Vittorio Emanuele, in petto all’aquila di Savoia antica e con due lance ai colori sabaudi e di San Maurizio (patrono della dinastia e dell’esercito) per evocare l’arma di Cavalleria.
Dopo la prima Guerra mondiale, la mitopoiesi nazionale si sarebbe impadronita definitivamente delle loro figure, complice l’immagine che essi stessi avevano alimentato: consacrando l’uno quale il “Duca invitto”, comandante vittorioso della Terza Armata, e lasciando all’altro – un po’ più sommessamente, nonostante il comando supremo della Cavalleria – l’aura patriottica del duello di vent’anni prima.