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Un “brand” sociale: promozione e rapporti di forza nei consegnamenti degli stemmi

Il 3 luglio 1688 i de Aymeta, notabili di Centallo (un sacerdote, un notaio collegiato e i loro nipoti) registrano il loro scudo a Fossano e il blasonatore ducale Borgonio rilascia loro un’attestazione (“testimoniali di consegna”), qui in copia del 1879 (Archivio di Stato di Torino, Camera dei Conti di Piemonte, art. 852 § 2, mazzo 2, n. 156)
Il 3 luglio 1688 i de Aymeta, notabili di Centallo (un sacerdote, un notaio collegiato e i loro nipoti) registrano il loro scudo a Fossano e il blasonatore ducale Borgonio rilascia loro un’attestazione (“testimoniali di consegna”), qui in copia del 1879 (Archivio di Stato di Torino, Camera dei Conti di Piemonte, art. 852 § 2, mazzo 2, n. 156)

Gli stemmi, per citare Michel Pastoureau, “costituiscono il più grande complesso di immagini profane che il Medioevo occidentale ci abbia lasciato”. Utilizzati in origine dall’aristocrazia militare, si estendono presto al resto della società perché vengono incontro a un bisogno profondo e generale: affermare l’identità degli individui e delle comunità, come i nostri moderni loghi. E quasi ovunque, nel Medioevo e in buona parte dell’età moderna e contemporanea, possono essere assunti liberamente. Quasi.

Qualche raro principe decide infatti di metterli sotto il proprio controllo. I primi (e resteranno a lungo i soli) sono, nel Quattrocento, il re d’Inghilterra, quello di Portogallo, e tra i due … il duca di Savoia, nel 1430. Nel quinto libro dei suoi Statuti, il duca Amedeo VIII vieta a chiunque non abbia uno stemma “ab antiquo (“da tempo antico”: espressione piuttosto vaga e negoziabile) oppure concesso dall’imperatore, dal duca di Savoia o da chi ne abbia l’autorità, di assumere e utilizzare uno scudo nuovo.

Perché tanta attenzione?

Dal momento che i loro titolari li utilizzano come contrassegni di proprietà e per ricordare il proprio ruolo al resto della comunità, gli stemmi (o “armi”) sono dei “marcatori sociali”: senza divenire segni di nobiltà, sottolineano comunque una distinzione, sono status symbols.

Quando in età moderna lo Stato dei Savoia si costruisce in base a un nuovo modello politico e amministrativo, fortemente accentrato, i duchi si ricordano dell’antica norma, che era velocemente caduta nel dimenticatoio. Per di più, le casse dello Stato sono spesso vuote, viste le frequenti guerre, così le finanze ducali sono alla ricerca di nuove fonti di reddito. Per le province “di qua dai monti” – essenzialmente il Piemonte – si dispongono allora i “consegnamenti d’arma”: campagne di verifica e registrazione del diritto di individui e comunità a possedere e utilizzare uno stemma, dietro pagamento di una tassa. Se ne hanno tre: nel 1580, nel 1614 e nel 1687-1689. L’Archivio di Stato di Torino conserva parte della documentazione prodotta in quelle occasioni, nel fondo della Camera dei Conti di Piemonte: copie autentiche di singole attestazioni di registrazione, il sunto e le rubriche delle consegne del 1614, le rubriche e due dei registri originali del 1687-1689 con i consegnamenti registrati a Torino.

Il significato dell’operazione è chiarito nell’editto di Vittorio Amedeo II del 23 maggio 1687:

L’uso dell’armi gentilizie, che fra gli preggi delle famiglie s’è in ogni tempo reputato il più riguardevole, distinguendo le nobili dall’ordinarie, e l’ordinarie dalle più communi del popolo, siam’informati esser così scaduto di stima per la licenza presasi da molti d’inventarle a proprio capriccio, e valersene (…) con insegne non convenevoli alla qualità loro, che ci troviam in obligo di provedervi”.

E si aggiunge: il consegnamento può offrire al sovrano un censimento delle persone meritevoli (i notabili minori della capitale e delle province, s’intende) da cui attingere “nell’occasione di impieghi, tanto di giustizia quanto del militare”. In gioco, quindi, ci sono il monopolio dei segni di distinzione e l’offerta di una promozione sociale (base di un ceto di funzionari fedeli), contro il pagamento della tassa di registrazione dello stemma.

Il 3 luglio 1688 i de Aymeta, notabili di Centallo (un sacerdote, un notaio collegiato e i loro nipoti) registrano il loro scudo a Fossano e il blasonatore ducale Borgonio rilascia loro un’attestazione (“testimoniali di consegna”), qui in copia del 1879 (Archivio di Stato di Torino, Camera dei Conti di Piemonte, art. 852 § 2, mazzo 2, n. 156)
Fig. 1a: Il 3 luglio 1688 i de Aymeta, notabili di Centallo (un sacerdote, un notaio collegiato e i loro nipoti) registrano il loro scudo a Fossano e il blasonatore ducale Borgonio rilascia loro un’attestazione (“testimoniali di consegna”), qui in copia del 1879 (Archivio di Stato di Torino, Camera dei Conti di Piemonte, art. 852 § 2, mazzo 2, n. 156)
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Fig. 1b: Il 3 luglio 1688 i de Aymeta, notabili di Centallo (un sacerdote, un notaio collegiato e i loro nipoti) registrano il loro scudo a Fossano e il blasonatore ducale Borgonio rilascia loro un’attestazione (“testimoniali di consegna”), qui in copia del 1879 (Archivio di Stato di Torino, Camera dei Conti di Piemonte, art. 852 § 2, mazzo 2, n. 156)

Risultato: di coloro che registrano nel 1687-89 le proprie insegne, solo il 37 % sono feudatari e il 9 % nobili che non possiedono feudi. Nel 54 % rimanente rientrano persone che servono a corte (il medico o lo speziale personale del duca, cavallerizzi, segretari); tanti sono i professionisti (avvocati, notai, medici) o gli ufficiali; altri ancora sono mercanti/ banchieri, negozianti, artigiani qualificati: orefici, gioiellieri, pittori, sarti, librai, fabbricanti di pennacchi, speziali (farmacisti); fornitori ufficiali della corte come il ceraio e …il distillatore ducale (i cui liquori dovevano essere particolarmente apprezzati dal duca, visto che l’aveva premiato concedendogli uno stemma). Il 17 % di queste famiglie entrerà più tardi nella feudalità, indice che la consegna dello scudo araldico è uno degli “ascensori sociali” disponibili. Non va poi dimenticato un bel numero (130 circa) di comunità, dalle città ai piccoli centri rurali, e anche alcuni collegi professionali e “università” (corporazioni) che registrano orgogliosamente le proprie insegne.

Per provare l’uso antico dello stemma si possono produrre dei testimoni, o portare delle prove iconografiche esposte agli occhi di tutti. Così il 3 marzo 1614 Oddino Busca Genuzio, senatore e avvocato fiscale nella città di Asti, presenta lo scudo di famiglia e lo dice adoperato da più di 60 anni “in tutti gli occorrenti, massime i sigilli, pitture, sculture, sposalitii, funerali et altre honoranze, sì in publico che in privato, liberamente”. Per provarlo, produce quattro testimoni e un’attestazione notarile che lo scudo è ancora visibile in una “pittura e scultura antichissima, in un’anchona [un dipinto d’altare] nella chiesa della Madallena” di Asti.

Fig. 2: “Testimoniali” di presentazione d’arma dei Busca Genuzio di Asti, rilasciate il 3 marzo 1614 a Torino, in copia del 9 giugno 1655 (Archivio di Stato di Torino, Camera dei Conti di Piemonte, art. 852 § 2, mazzo 1, n. 1bis)
Fig. 2: “Testimoniali” di presentazione d’arma dei Busca Genuzio di Asti, rilasciate il 3 marzo 1614 a Torino, in copia del 9 giugno 1655 (Archivio di Stato di Torino, Camera dei Conti di Piemonte, art. 852 § 2, mazzo 1, n. 1bis)

E gli stemmi in sé? Nel 1580 il loro contenuto non interessa veramente ai commissari, che non hanno nemmeno la padronanza del linguaggio specifico dell’araldica. In seguito le cose vanno meglio: vengono coinvolti dei “tecnici” – l’araldo ducale nel 1614, il “blasonatore” nel 1687/1689 - che devono verificare la correttezza degli scudi, crearne di nuovi a chi ne faccia richiesta, miniarli nei Libri del blasone, il corrispondente figurato dei registri. Purtroppo perduti, possiamo immaginare questi volumi splendidi, sfavillanti di colori e traboccanti di figure disegnate con maestria. Non a caso, il blasonatore nel 1687 è Giovanni Tommaso Borgonio, noto calligrafo, incisore, miniatore, cartografo.

Custodite in rari archivi privati o comunali si conservano ancora alcune delle artistiche “fedi” o “testimoniali” di consegnamento, le attestazioni illustrate che venivano rilasciate a chi ne faceva richiesta. In Archivio di Stato se ne conservano poche, in copia antica oppure ottocentesca, che danno solo vagamente l’idea degli originali. Così la copia del 1847 dell’attestazione rilasciata nel 1688 ai De Rossi da Moncalieri (Gerolamo ”zeccante”, ossia impiegato della zecca, e i figli) riproduce lo scudo che usavano da più di 60 anni: ci sono ancora i festoni floreali e le volute metamorfiche dai colori tenui, tipici di Borgonio, ma il copista ottocentesco s’inciampa miseramente sul leone dello scudo, che potrebbe essere disegnato da un bambino.

Fig. 3: “Testimoniali” di presentazione d’arma dei De Rossi di Moncalieri, rilasciate dal blasonatore Borgonio il 31 agosto 1688, in copia del 1847 (Archivio di Stato di Torino, Camera dei Conti di Piemonte, art. 852 § 2, mazzo 2, n. 106)
Fig. 3: “Testimoniali” di presentazione d’arma dei De Rossi di Moncalieri, rilasciate dal blasonatore Borgonio il 31 agosto 1688, in copia del 1847 (Archivio di Stato di Torino, Camera dei Conti di Piemonte, art. 852 § 2, mazzo 2, n. 106)

Oltre che un fatto sociale, l’araldica è anche un fatto culturale. Nel Seicento l’intervento dei professionisti della materia (l’araldo, il blasonatore) fa sì che nei consegnamenti compaiano delle “blasonature”: delle descrizioni precise e univoche in linguaggio tecnico. Ed è un linguaggio sempre più pomposo, con una sua musicalità misteriosa (nulla di esoterico, beninteso); molti termini di origine francese perché i classici del blasone all’epoca erano d’Oltralpe; qua e là anche qualche tentativo di tradurli in italiano. “Un scudo d’oro, a tre pali d’azzurro posti sotto un cheffo [francese chef], o sii capo d’oro carico d’un’aquila coronata di sable, o sii nero”. Così l’araldo Pompeo Brambilla descrive l’insegna degli Odetti, dottori in legge e avvocati, confermata e concessa dal duca in occasione del consegnamento del 1614 (sarà ripresentata nel 1689 al solito Borgonio).

In Piemonte, moltissimi stemmi tra Cinque e Seicento vengono dotati di elementi del tutto accessori, come motti e cimieri (le figure che sormontano l’elmo sopra lo scudo). La sfida è far sì che cimieri e motti si richiamino l’uno con l’altro, in giochi di “arguzia” che riflettono il gusto per gli emblemi. Il cimiero degli Odetti è un’aquila che si spezza il becco su un sasso e il motto Renovabor in dies (“mi rinnoverò di giorno in giorno”). Già i bestiari medievali narravano che il becco del rapace diventa col tempo troppo lungo e gli impedisce di nutrirsi: l’aquila lo spezza allora contro una roccia, perché glie ne cresca uno nuovo, e diventa simbolo di chi lascia alle spalle, non senza dolore, la sua vecchia condizione per trasformarsi in un uomo rinnovato.

Fig. 4: Lo stemma degli Odetti, concesso il 2 marzo 1614 e consegnato il 17 novembre 1689 (copia del 1847 dalle “testimoniali” originali rilasciate dal blasonatore Borgonio) (Archivio di Stato di Torino, Camera dei Conti di Piemonte, art. 852 § 2, mazzo 2, n. 103)
Fig. 4: Lo stemma degli Odetti, concesso il 2 marzo 1614 e consegnato il 17 novembre 1689 (copia del 1847 dalle “testimoniali” originali rilasciate dal blasonatore Borgonio) (Archivio di Stato di Torino, Camera dei Conti di Piemonte, art. 852 § 2, mazzo 2, n. 103)

Quello del 1687-1689 è l’ultimo consegnamento. Alla fine il gettito fiscale complessivo non è stato così interessante come le finanze pubbliche avevano sperato. Passato un po’ di tempo dopo ogni campagna di registrazione, i sudditi, non appena raggiungono una posizione sociale distinta, continuano a farsi autonomamente degli stemmi e il fenomeno è tutt’altro che in declino. Quando nel 1775 le regie finanze passano in rassegna nuovi possibili balzelli, qualcuno ripropone di tornare a “spremere” questo settore, introducendo dei correttivi perché l’operazione sia condotta “senz’apparenza d’asprezza né d’odiosità”: due aggettivi che la dicono lunga su come i controlli, che andavano a colpire un bisogno molto forte di autorappresentazione, erano stati percepiti in passato. E infatti, non se ne farà più nulla.

Sarà la Rivoluzione francese a dare il colpo finale a quanto rimaneva dei consegnamenti, ossia alle carte d’archivio. La blasoneria era interpretata – erroneamente - come appannaggio della nobiltà: alla cacciata del re, i rivoluzionari nel 1798 diedero l’assalto allo studio del regio blasonatore Pagan e dispersero le carte. Nel 1830 la figlia avrebbe venduto alla Camera dei Conti quel che ne rimaneva. Con un piccolo giallo finale. Davvero i magnifici Libri del blasone andarono in fumo sotto l’Albero della Libertà nel rogo dei documenti nobiliari disposto dai giacobini? A noi piace di più sperare che nel saccheggio qualcuno li abbia adocchiati come potenziale merce pregiata e li abbia fatti …sparire, e che un giorno, chissà, riemergano da qualche parte.