x

x

Tribunale di Milano: attenzione alla privacy, ce lo insegna il caso Google

Della sentenza Google si sono occupati diffusamente i media, travisandone spesso gli aspetti salienti, uno dei quali, il principale in realtà, interessa da vicino il mondo imprenditoriale.

In sintesi: la vicenda della diffusione su Google Video, nella sezione video divertenti, di un video della durata di circa tre minuti e mezzo che ritraeva offese e gravi atti denigratori compiuti da un gruppo di studenti nei confronti di un ragazzo autistico, si è conclusa con la condanna del Presidente e di un componente del Consiglio di amministrazione (poi amministratori delegati) di Google Italia S.r.l. e del responsabile delle politiche sulla privacy per l’Europa di Google Inc., per violazione dell’articolo 167 del Codice Privacy in materia di trattamento di dati personali (sensibili).

Il Giudice del Tribunale di Milano con la sentenza 1972/2010 ha applicato la disciplina privacy portata dal Decreto Legislativo 196/2003, sanzionando penalmente i soggetti individuati come responsabili, per aver trascurato l’adempimento principale: rendere l’informativa privacy corretta e completa agli interessati del trattamento dei dati personali.

Secondo il Giudice “è evidente, che NON costituisce condotta sufficiente ai fini che la legge impone, “nascondere” le informazioni sugli obblighi derivanti dal rispetto della legge sulla privacy all’interno di “condizioni generali di servizio” il cui contenuto appare spesso incomprensibile, sia per il tenore delle stesse che per le modalità con le quali vengono sottoposte all’accettazione dell’utente; tale comportamento, improntato ad esigenze di minimalismo contrattuale e di scarsa volontà comunicativa, costituisce una specie di “precostituzione di alibi” da parte del soggetto/web e non esclude, quindi, una valutazione negativa della condotta tenuta nei confronti degli utenti”. E ancora: “Esiste a parere di chi scrive, un obbligo NON di controllo preventivo dei dati immessi nel sistema, ma di corretta e puntuale informazione, da parte di chi accetti ed apprenda dati provenienti da terzi, ai terzi che questi dati consegnano. Lo impone non solo la norma di legge (art. 13 DL citato), ma anche il buon senso, nella particolare modulazione dello stesso che può applicarsi alla gestione di un sistema informatico”.

Vediamo nel dettaglio in cosa è consistita la violazione rilevata dal Giudice: “tutte le informazioni comunicate all’utente relative alla Privacy fanno riferimento, senza possibilità di dubbio, alla tutela della privacy dell’utente medesimo, utente che accetta di sottoscrivere il contratto con Google e che carica il video (o qualsiasi altro dato o informazione) in suo possesso, senza fare alcun esplicito riferimento alla privacy di altre persone eventualmente presenti nel video o nel contenuto dell’uploading; è ben vero che al punto 9 dei "termini e condizioni del programma di caricamento di Google video" si chiede all’utente di garantire che il contenuto "autorizzato" che sta caricando non violi "diritti o obblighi verso qualsiasi persona, inclusi ...i diritti di privacy" ma l’avviso in questione, al di là della sua genericità ed astrattezza, è dato in modo "nascosto ed anonimo", quasi a garantirsi (come si è già detto) la presenza di un alibi in un eventuale momento successivo di contrasto”.

In altre parole, la sentenza ci ricorda che la privacy è una disciplina attenzionata (come si diceva una volta per le persone oggetto di indagini) dalle autorità e dalla magistratura, e che specie gli adempimenti base devono essere curati sul piano formale e sostanziale, con particolare cura alle tante iniziative avviate in rete presupponendo la raccolta di dati personali (comuni e sensibili). Del resto, il Garante ha comunicato che vigilerà nei prossimi mesi proprio su quest’ultimo fronte.

Utilizzando le parole chiave della pronuncia, possiamo pertanto concludere affermando che il titolare del trattamento dei dati personali non è tenuto a fare l’impossibile (il brocardo recita “Ad impossibilia nemo tenetur”), ma a muoversi (specie in rete) con diligenza e buon senso, questo sì.

Può darsi che non riesca a vedere gli aspetti peculiari della pronuncia che altri invece hanno rilevato, ma a me sembra che il percorso logico del giudicante sia tutto sommato condivisibile.

Della sentenza Google si sono occupati diffusamente i media, travisandone spesso gli aspetti salienti, uno dei quali, il principale in realtà, interessa da vicino il mondo imprenditoriale.

In sintesi: la vicenda della diffusione su Google Video, nella sezione video divertenti, di un video della durata di circa tre minuti e mezzo che ritraeva offese e gravi atti denigratori compiuti da un gruppo di studenti nei confronti di un ragazzo autistico, si è conclusa con la condanna del Presidente e di un componente del Consiglio di amministrazione (poi amministratori delegati) di Google Italia S.r.l. e del responsabile delle politiche sulla privacy per l’Europa di Google Inc., per violazione dell’articolo 167 del Codice Privacy in materia di trattamento di dati personali (sensibili).

Il Giudice del Tribunale di Milano con la sentenza 1972/2010 ha applicato la disciplina privacy portata dal Decreto Legislativo 196/2003, sanzionando penalmente i soggetti individuati come responsabili, per aver trascurato l’adempimento principale: rendere l’informativa privacy corretta e completa agli interessati del trattamento dei dati personali.

Secondo il Giudice “è evidente, che NON costituisce condotta sufficiente ai fini che la legge impone, “nascondere” le informazioni sugli obblighi derivanti dal rispetto della legge sulla privacy all’interno di “condizioni generali di servizio” il cui contenuto appare spesso incomprensibile, sia per il tenore delle stesse che per le modalità con le quali vengono sottoposte all’accettazione dell’utente; tale comportamento, improntato ad esigenze di minimalismo contrattuale e di scarsa volontà comunicativa, costituisce una specie di “precostituzione di alibi” da parte del soggetto/web e non esclude, quindi, una valutazione negativa della condotta tenuta nei confronti degli utenti”. E ancora: “Esiste a parere di chi scrive, un obbligo NON di controllo preventivo dei dati immessi nel sistema, ma di corretta e puntuale informazione, da parte di chi accetti ed apprenda dati provenienti da terzi, ai terzi che questi dati consegnano. Lo impone non solo la norma di legge (art. 13 DL citato), ma anche il buon senso, nella particolare modulazione dello stesso che può applicarsi alla gestione di un sistema informatico”.

Vediamo nel dettaglio in cosa è consistita la violazione rilevata dal Giudice: “tutte le informazioni comunicate all’utente relative alla Privacy fanno riferimento, senza possibilità di dubbio, alla tutela della privacy dell’utente medesimo, utente che accetta di sottoscrivere il contratto con Google e che carica il video (o qualsiasi altro dato o informazione) in suo possesso, senza fare alcun esplicito riferimento alla privacy di altre persone eventualmente presenti nel video o nel contenuto dell’uploading; è ben vero che al punto 9 dei "termini e condizioni del programma di caricamento di Google video" si chiede all’utente di garantire che il contenuto "autorizzato" che sta caricando non violi "diritti o obblighi verso qualsiasi persona, inclusi ...i diritti di privacy" ma l’avviso in questione, al di là della sua genericità ed astrattezza, è dato in modo "nascosto ed anonimo", quasi a garantirsi (come si è già detto) la presenza di un alibi in un eventuale momento successivo di contrasto”.

In altre parole, la sentenza ci ricorda che la privacy è una disciplina attenzionata (come si diceva una volta per le persone oggetto di indagini) dalle autorità e dalla magistratura, e che specie gli adempimenti base devono essere curati sul piano formale e sostanziale, con particolare cura alle tante iniziative avviate in rete presupponendo la raccolta di dati personali (comuni e sensibili). Del resto, il Garante ha comunicato che vigilerà nei prossimi mesi proprio su quest’ultimo fronte.

Utilizzando le parole chiave della pronuncia, possiamo pertanto concludere affermando che il titolare del trattamento dei dati personali non è tenuto a fare l’impossibile (il brocardo recita “Ad impossibilia nemo tenetur”), ma a muoversi (specie in rete) con diligenza e buon senso, questo sì.

Può darsi che non riesca a vedere gli aspetti peculiari della pronuncia che altri invece hanno rilevato, ma a me sembra che il percorso logico del giudicante sia tutto sommato condivisibile.