Avanti: la parola del momento
Mai come in questo periodo si sentono espressioni, già piuttosto usuali, quali “occorre andare avanti” o “bisogna guardare avanti”.
“Avanti” è una parola della lingua comune (per lo più emerge come avverbio), utilizzata largamente e direi quasi inflazionata. Ad essa si ricorre quanto più si avverte la necessità di non fermarsi oppure si intende infondere coraggio (Coraggio), promuovere fiducia https://www.filodiritto.com/incertezza-occasione-di-fiducia, schiudere una prospettiva di futuro e di superamento delle incertezze o delle difficoltà del presente.
Eppure, la parola “avanti” ha una duplicità di significati che ne mostra il nodo semantico ambivalente e forse irrisolto, rendendola capace, allo stesso tempo, di fascinare e di intimorire, di attrarre e di respingere.
Tale duplicità semantica si gioca nella dialettica dello spazio e del tempo evocata dalla parola “avanti”. Se riferito allo spazio, l’avverbio avanti si contrappone a dietro o indietro: indica la direzione. Viene adoperato per lo più con verbi di moto: “andare avanti” o “guardare avanti” (e, per converso, “rimanere” o “essere indietro”) sono esempi perfettamente calzanti. Se guardato nella prospettiva temporale, avanti indica anteriorità ed è sempre posposto al sostantivo o al verbo (“il giorno avanti”, “l’anno avanti”). Quando utilizziamo la parola avanti, possiamo perciò evocare sia un orientamento al futuro, che può essere carico di timori o di speranza, sia la memoria di eventi passati, anch’essa possibile fonte di sofferenza o di gioia (Tu chiamale se vuoi emozioni: la gioia).
“Avanti” ci appare allora come un avverbio niente affatto insignificante, ancorché logorato dall’uso corrente.
Fiducia e ricordo, ansia e nostalgia, prospettiva d’azione e tempo (ormai) fermo sono tutti racchiuse in tale avverbio.
Avanti si piega a significati diacronicamente diversi e induce due “movimenti”: apprendere dalle esperienze passate e pensare secondo una progettualità che può snodarsi in tempi differenziati (breve, medio e lungo termine).
Credo, allora, che dovremmo essere consapevoli e custodi di tale duplicità di significati e di proiezioni dell’agire, la quale dovrebbe renderci pienamente consci che la nostra capacità di guardare avanti implica la memoria viva di ciò che è successo prima, la capacità di imparare dagli errori, derivando lezioni sia dalle pagine più dure della nostra esistenza, sia da quelle più belle.
Con questa consapevolezza, fatta di slancio vitale, ma anche di saggezza e di prudenza, proviamo a verificare quali accezioni dell’umile avverbio avanti possano essere valorizzate in un contesto di umanesimo manageriale.
Guardare avanti non dovrebbe, anzitutto, coincidere riduttivamente con l’essere costantemente proiettati sui compiti da svolgere, giocando d’anticipo e mantenendo efficienza nel raggiungimento degli obiettivi quotidiani di smaltimento del lavoro. Saper guardare avanti significa piuttosto liberare la mente dal “troppo” e dal “vano”, dal rumore e dalla fretta, per avere quella limpidezza di pensiero che consente discernimento per le scelte di medio o lungo periodo. Scelte di cui dobbiamo avvertire la responsabilità e che perciò dovrebbero essere il più possibile condivise ed eticamente sostenibili, soprattutto se impegnano il futuro di persone diverse da noi, le quali possono non avere alcuna possibilità di scelta o essere costrette a subire scelte dagli epiloghi irreversibili.
Guardare avanti implica svolgere con cura il lavoro dell’oggi per poterne raccogliere i frutti domani, in un futuro al quale guardare non solo con spirito individualistico ed efficientistico bensì con sagacia e attenzione, per gettare semi di dinamiche relazionali costruttive, inclusive, generative.
Solo se si riesce a guardare avanti, nel proprio lavoro, con una consapevolezza fatta di memoria esperienziale e di (pre)visione è possibile non rimanere condizionati o persino schiacciati dall’urgenza, che spinge, talvolta, verso decisioni immediate e di corto respiro.
In definitiva, guardare avanti significa non voltare sbrigativamente le spalle al passato, attendendo passivamente che tornino tempi migliori, ma implica principalmente il lasciarsi interrogare dalla dimensione e dal significato delle scelte che siamo chiamati a fare. Mi riferisco alle macro-scelte, di cui possiamo essere anche solo co-protagonisti, ma che debbono comunque tradursi in una coerente dimensione funzionale-operativa delle micro-scelte quotidiane.
Ora proviamo a riflettere: com’è la nostra capacità di guardare avanti? È un invito generico all’ottimismo o tiene conto anche di ciò che è successo il “giorno avanti” o un “anno avanti”? Quanto tempo ci prendiamo per guardare avanti senza false speranze o facili entusiasmi e senza essere travolti dalla routine o dalle urgenze, che sovvertono la gerarchia delle cose davvero importanti? Proviamo allora a guardare indietro per capire come andare avanti.