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Avvocati e giudici e il piacere inquieto che gli procura Il garbuglio di Garlasco

La lettera aperta dell'Autrice
il garbuglio di garlasco
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Avvocati e giudici e il piacere inquieto che gli procura Il garbuglio di Garlasco

Pubblichiamo la risposta dell’autrice del libro “Il garbuglio di GarlascoGabriella Ambrosio sotto forma di lettera aperta alla recensione scritta da Vincenzo Giglio
 

Gentile Vincenzo Giglio, lei ha impostato la sua recensione al mio libro “Il garbuglio di Garlasco” come una lettera aperta, e nella stessa forma ora mi sento autorizzata a risponderle. Innanzitutto, per ringraziarla di un giudizio così articolato, completo e lusinghiero. Ma anche per la possibilità, a partire dalle sue parole, di spiegare meglio la mia posizione come autrice di un libro che sorprendentemente nel suo primo mese di vita è stato letto, come la sua stessa lettura testimonia, da moltissime persone che nei tribunali o dei tribunali vivono. Me lo dovevo aspettare? Non lo so. Di certo non l’avevo messo in conto. Quando scrivo, ho sempre in mente un lettore, a lui mi rivolgo ad ogni passo. Il lettore che avevo in mente mentre scrivevo “Il garbuglio” non era mai stato in un’aula di tribunale, e delitti di cronaca come Garlasco li aveva conosciuti solo sui giornali. Era a questo lettore che parlavo, e infatti facevo attenzione a spiegargli alcuni passaggi più tecnici. Era con lui che condividevo quel rovello, la preoccupazione che mi cresceva dentro mano mano che andavo avanti a “spazzare le nuvole” come dice lei.

Ed ecco che giudici e avvocati in questi giorni mi mettono a parte del senso di inquietudine che gli sta procurando la lettura di questo libro. E persino dello smarrimento nel leggerne alcune pagine. Inquietudine? Smarrimento? Bene.

Marco Brando in una recensione ha scritto che il mio libro ha quella particolare “modalità di scrittura, dove lo stile dell’inchiesta giornalistica si intreccia con il genere della fiction. Un romanzo in cui la storia non è verosimile: è proprio vera”. Scrivere un “romanzo in cui ogni parola è vera”, come credo disse Truman Capote, che si è inventato il genere, richiede uno sforzo di gran lunga maggiore che non scrivere una fiction. Non mi riferisco ai mesi passati a leggere le migliaia e migliaia di pagine dei tre gradi di merito e due di cassazione, e di altri processi in qualche modo collegati; e naturalmente a spulciare le sit, le intercettazioni, le perizie, le memorie e le contromemorie; o a leggere o guardare e prendere nota di tutto quello che era apparso sui media, incluso le dichiarazioni a volte estemporanee dei tanti protagonisti. Mi riferisco invece, soprattutto, all’enorme responsabilità di mettere in scena col loro nome e cognome persone che hanno ancora  un ruolo o sono coinvolte emotivamente in questa vicenda.

Ma la scelta di scrivere in questa forma, che ti catapulta senza difese dentro le vite degli altri, sta dando i suoi frutti. Ad esempio, appunto, questo “piacere inquieto” che lei denuncia, e da cui mette in guardia mentre consiglia la lettura del libro. Di questo ‘piacere inquieto’, vorrei offrire una mia interpretazione. Un avvocato, leggendo le pagine del “Garbuglio”, non ritrova necessariamente se stesso attraverso gli atti dell’uno o dell’altro avvocato della storia; e nemmeno un giudice si ritrova necessariamente attraverso il lavoro di un altro giudice. Il libro non li costringe a guardarsi allo specchio. Va oltre, comporta un rischio maggiore: li porta a scoprire la radice della propria umanità dentro la persona dell’indagato o del testimone spaventato o dei loro compaesani o nel coro degli spettatori o di chi sa chi altro, nelle cui scarpe li costringe a camminare per tutto il tempo della lettura.

Il lettore rifà il percorso di chi ha scritto, e come già accaduto non senza sofferenza allo scrittore, arriva anche lui a toccare e riconoscere il nocciolo di se stesso attraverso il dolore, la menzogna, gli impulsi, l’ipocrisia, la superficialità, il coraggio, la forza, gli errori, le paure, gli incubi che

permeano la vita di tutti noi. Tutto questo esce dalla singola vicenda e dalla statistica stessa. Ci fa immergere nel comune pozzo della nostra mediocrità e ritrovarci con la voglia di capire meglio, noi stessi e gli altri. Quell’inizio di una coscienza che poi ci porta ad agire per cambiare in meglio il mondo in cui viviamo.

Ancora una volta la ringrazio per aver fatto del mio libro una lettura così attenta. Mi ha lusingato sapere che si legga “in breve tempo” (ho sempre pensato che il tempo ideale di lettura di certi libri sia quello della durata di un film o forse di due film), ma che poi rimanga dentro e l’abbia fatta pensare “a lungo”.

Che sia riuscito a “uscire dagli angusti confini del processo e a percorrere tante strade”.

E più di tutto forse, mi ha lusingato quell’immagine poetica del quasi inconsapevole “spalatore di nuvole”. Non ho mai letto i gialli di Fred Vargas, e quindi non conoscevo Adamsberg, appunto definito “spalatore di nuvole”. Scopro che è un detective che nelle sue indagini prende la strada più lunga e più difficile, ma grazie a una forte dose di empatia arriva a comprendere le ragioni e a illuminare così le situazioni più intricate. Uno che indaga senza indagare, che pensa senza dirselo: quello che fa appunto uno scrittore.

E l’accostamento finisce qua, perché Adamsberg è un detective e io non ho voluto fare del giornalismo investigativo.

“Il garbuglio di Garlasco” non dà sentenze, su nessuno, com’è naturale in un libro che voglia abbracciare la complessità. Il giudizio è dei tribunali: e molti lavori ho fatto nella vita ma mai avrei fatto il giudice, non è nelle mie capacità.

È vero, ho spalato alcune nuvole, e spazzato qualche strada. Ma non sta a uno scrittore rendere il cielo trasparente.

Quello che auguro a chiunque sia interessato alla nostra giustizia e ai modi a volte drogati della sua narrazione, come cittadino o come professionista, è che non sia veritiera una delle frasi più citate da un giallo di Fred Vargas: “Certe cose si impelagano per un sacco di pessimi motivi e non le puoi disimpelagare, nemmeno per un sacco di buoni motivi.”

Perché quello della giustizia è un tema enorme, che coinvolge tutte le nostre vite, anche quelle di chi non entrerà mai in un tribunale. Lo farei dire a Sciascia: “Tutto è legato, per me, al problema della giustizia: in cui s’involge quello della libertà, della dignità umana, del rispetto fra uomo e uomo.”