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Burocrazia buona: processo e procedimento, una dichiarazione d’amore al diritto amministrativo

Ritratti di architettura
Ph. Elena Franco / Ritratti di architettura

Nell’ultimo decennio abbiamo assistito a un incremento esponenziale, se non a un vero e proprio abuso, del termine processo nell’ambito della programmazione e del governo dell’azione amministrativa, in primis nel sistema universitario.

L’origine di questo utilizzo improprio del termine, spesso sostituito al più corretto concetto di procedimento o comunque considerato come sinonimo, nasce con la riforma del sistema universitario, introdotta dalla legge n. 240/2010.

Tale disattenzione o, meglio, comprensione insufficiente del lessico amministrativo è stata accentuata ancor di più a seguito dell’entrata in vigore del Decreto Legislativo n. 18/2012 rubricato Introduzione di un sistema di contabilità economico-patrimoniale e analitica, del bilancio unico e del bilancio consolidato nelle università, a norma dell’articolo 5, comma 1, lettera b), e 4, lettera a), della legge 30 dicembre 2010, n. 240.

L’introduzione di un sistema di contabilità economico-patrimoniale, in sostituzione di quello finanziario (peraltro non del tutto abbandonato, per necessità di dialogo con gli apparati ministeriali), consacrava pertanto – ma solo teoricamente – l’avvio del processo di aziendalizzazione dell’università italiana.

A detta di molti, infatti, l’università finalmente avrebbe potuto iniziare ad agire per processi e per filiere produttive, abbandonando così quella che molti non hanno esitato a definire una sterile logica burocratica.

Fortunatamente, autorevoli esponenti della dottrina hanno sottolineato l’assoluta inapplicabilità del concetto produttivo a un sistema che, per propria natura, forma capitale umano e, proprio in virtù di questa peculiare caratteristica dell’oggetto della “produzione”, sfugge a ogni logica di misurazione secondo lo schema INPUT->OUTPUT/OUTCOME.

Semmai, la letteratura più raffinata aveva colto l’utilità dell’introduzione del sistema economico-patrimoniale quale strumento di misurazione dei costi del sistema università; il concetto di processo però era già stato recepito dagli “aziendalisti di maniera” in luogo di quello di procedimento.

Invero, nozioni elementari di sociologia delle amministrazioni pubbliche o, meglio ancora, di teoria organica del diritto amministrativo, fanno capire che il processo altro non è che il sottile filo rosso che unisce i diversi procedimenti fondanti le diverse strutture dell’organizzazione di un’entità amministrativa, dando così sostanza e organicità all’azione della stessa.

Come si può comprendere, c’è poco di aziendalistico, semplicemente la capacità di analizzare l’amministrazione nel suo complesso, quale universitas rerum, sviluppando l’osservazione trasversale, anziché ancorarsi alla logica verticistica, a compartimenti stagni, tipica dell’amministrazione burocratica ancién régime.

Burocrazia, intesa non con accezione negativa. Max Weber ne sottolineava quella intrinsecamente positiva, poiché attribuiva al potere dell’ufficio (etim. boureau kratòs) l’esercizio di funzioni ordinate fondamentali, volte ad assicurare l’esistenza stessa del sistema. Negativa è, semmai, l’accezione comune percepita che impersonifica il funzionario esule nella torre d’avorio, lontano dalla comunità cui i suoi indirizzi sono volti e che molta letteratura di settore ha descritto.

Per dimostrare che non si tratta di parole vuote di significato, in questa riflessione, la cartina di tornasole è rinvenibile nel processo Carriera dello studente.

Infatti, fin dal suo ingresso nel mondo universitario, lo studente compie azioni che si traducono, sotto il profilo strettamente legato alla gestione, in singoli procedimenti amministrativi (l’immatricolazione, la richiesta di esonero delle tasse, la rinuncia agli studi, solo per citarne alcuni), e si relaziona con unità organizzative responsabili distinte (UOR, art. 4-6 della legge 241/1990), articolate in maniera differente e con modelli organizzativi diversificati da un ateneo all’altro.

A parità di procedimenti, dunque, esiste una pluralità di modelli procedurali e manageriali, in ossequio al principio di autonoma organizzazione dell’ente consacrato nella legge n. 168/1989.

Ed è proprio in questo particolare contesto di analisi che, spostando il punto di vista dal singolo procedimento amministrativo, ma elevandolo ed astraendolo si osserva un “processo” nella sua interezza, che consente a chi governa l’ente, come a chi paga e usufruisce dei servizi (lo studente) di comprendere, in un’ottica di assoluta trasparenza e osmosi tra le strutture, il sistematico funzionamento della tecnostruttura, per dirla alla Mintzberg.

Resta l’obbligo, in capo al funzionario, di difendere l’integrità e l’ordinata gestione, non solo formale ma anche sostanziale, degli atti amministrativi che compongono, nella serie temporale prevista, il singolo procedimento amministrativo, al fine di dare ordine all’azione amministrativa e assicurare quell’efficienza dell’azione tanto cara al legislatore.

Ciò, in ultima analisi, si traduce nel puntuale rispetto delle norme regolamentari, ma soprattutto imperative, che trovano fondamento nell’articolo 97, commi 2 e 3, della Costituzione, quanto mai attuale oggi: “2. I pubblici uffici sono organizzati secondo disposizioni di legge [95 c.3], in modo che siano assicurati il «buon andamento e l’imparzialità dell’amministrazione. 3. Nell’ordinamento degli uffici sono determinate le sfere di competenza, le attribuzioni e le responsabilità proprie dei funzionari».

Tali principi esaltano l’attualità indiscussa del diritto amministrativo, se calata nel contesto di un palese e generale senso civico, declinato in attuazione dei principi costituzionali, e del procedimento, non certo del processo organizzativo. Non si tratta di discutere o di vantare primati o supremazia, ma di essere votati alla illuminata e ragionata concretezza, in un bilanciamento tra il giurista e il manager.

I modelli organizzativi per processi, infatti, sono intrinsecamente evanescenti: nulla resta dopo il processo. Gli atti amministrativi, invece, sono la parte persistente e i documenti amministrativi che li rappresentano (art. 22, legge 241/1990), sono il residuo formale e affidabile di quanto deciso o agito. Due facce della stessa medaglia, due concetti volti a rappresentare un’endiadi, due aspetti meritevoli di attenzione concettuale e lessicale.

In conclusione, tra evanescenza e persistenza, nel giudizio amministrativo sono sindacabili gli atti così come formalmente esibiti. Ciò significa che nessun dirigente potrà difendersi, di fronte ad alcune patologie rilevate sugli atti amministrativi prodotti in giudizio (carenza di motivazione, contraddittorietà, assenza di data certa, etc.), di aver comunque bene operato per processi, esibendo diagrammi di flusso in luogo di provvedimenti amministrativi, quest’ultimi scritti con attenzione al linguaggio e al diritto.

Su questo tema tra evanescenza del processo e persistenza del procedimento, con una visione diplomatistica della questione, esiste un video a cui rinviamo per ulteriori approfondimenti:

YouTube: Processi e procedimenti