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Codice deontologico dell'assistente sociale: I doveri dell’assistente sociale nei confronti dei destinatari dei servizi sociali

Una riflessione sui principi del codice deontologico per la tutela della riservatezza e del segreto professionale
Titolo III, Capo I, II, III del Codice Deontologico (artt. 11 – 32)

 

Sia per quanto riguarda i rapporti dell’assistente sociale con l’esterno sia per i rapporti verso l’interno, è necessario fare riferimento alle norme costituzionali e legislative, che costituiscono da sempre il presupposto giuridico in cui si delinea la professione sociale. A tal proposito non è trascurabile, inoltre, un’attenta valutazione della c.d. deontologia professionale, disciplinata dal Codice deontologico, approvato ed entrato in vigore con la l. n. 84 del 23 marzo1993. La professione, attraverso l’intervento del Consiglio Nazionale dell’Ordine, ha voluto darsi un Codice, che sarà promulgato alcuni anni dopo, il 18 aprile 1998. Questo strumento, che costituisce il DNA della professione sociale, riconosce nuovi parametri di professionalità, un ethos costituito da un insieme di valori e norme. Storicamente questo Codice deriva dalle Charity Organisations Society (1869), che hanno rivoluzionato il concetto di “povertà” liberandolo dal giudizio di “colpa”, introducendo invece la concezione di “diritto-dovere dell’assistenza”. Si giunge al codice di M. Richmond (1919), che metteva in rilievo il valore della persona attraverso i principi del rispetto, dell’autodeterminazione, della personalizzazione dell’aiuto, dell’accettazione[1].

 

Dopo il Congresso internazionale di fondazione dell’ International Council of Social Welfare, tenutosi a Parigi nel 1928, vi fu l’influenza del periodo fascista che offrì una lettura meramente ideologica ai valori che si stavano profilando nel servizio sociale. Si arriva alla data significativa del 1946, che segna il dopoguerra con la volontà di riprendere i temi cari ai concetti di libertà, di uguaglianza, di solidarietà, di socialità che erano stati soffocati dal conflitto bellico. Nel Convegno di Tramezzo (1946), sul lago di Como, si costruivano e organizzavano i pensieri della dottrina che avrebbe poi dato vita al Codice deontologico. Il Convegno di Bruxelles (1947), promosso dall’unione Cattolica Internazionale di Servizio Sociale (UICSS), il Seminario di studio di servizio sociale tenutosi in Svizzera (1948), la Scuola romana, la Scuola pisana e quella torinese furono il trampolino di lancio di un primo esperimento di norme codificate, il Codice di morale del servizio sociale.

 

La stesura fu a cura del canonico V.L. Heylen, constava di ben 459 articoli che avevano un’impronta dichiaratamente confessionale, ma dove già si collocava un capitolo dedicato al segreto professionale e alla riservatezza. Nel 1956 vi fu un’altra tappa importante con la pubblicazione, a cura dell’UICSS, della Guide International de morale; era un’opera ancora più vasta con 829 articoli, che aveva uno scopo ricognitivo della concezione di “natura” del servizio sociale, di elementi soprannaturali ritenuti fondanti l’attività di assistente sociale, di raccomandazioni nel non smodare in cibi e bevande alcooliche. Era un modo di concepire la figura dell’assistente sociale come un esempio morale, sia nelle scuole dottrinali di ispirazione laica sia in quelle di ispirazione cristiana. Un peso rilevante in Italia è rappresentato dalla divulgazione del pensiero di scuola anglosassone, per mezzo della traduzione dai “Quaderni” della Collana di Servizio Sociale dell’Amministrazione per le Attività Assistenziali Italiane e Internazionali (AAI).

 

Un momento importante (e che viene periodicamente rinnovato) è quello del Seminario di studio di Malosco (Tn)[2], presso la Fondazione Emanuela Zancan (1967); è stata un’occasione per sviluppare contestualmente concezioni etiche, filosofiche ed anche teologiche, dove si è cercato di delineare valori comuni e dove si sono liberamente confrontate opinioni contrastanti.

 

Un’altra tappa che favorisce l’evoluzione del sistema sociale verso gli ultimi orientamenti legislativi, è costituita dalla pubblicazione da parte della Federazione Internazionale degli Assistenti Sociali (IFSW – Portorico, 1976) del Codice internazionale di etica professionale degli assistenti sociali, ma in Italia ha avuto una scarsa risonanza. Invece un ruolo di forte interesse hanno suscitato i Convegni di Siena (1984) e di Verona (1985), dedicati agli insegnamenti specifici di orientamento alla professione sociale, fino al Convegno dell’Alta Val d’Elsa (1989) che ha partorito il primo “Codice deontologico degli assistenti sociali”.

 

Negli anni novanta proseguono con intensità i seminari di studio intorno al tema dell’assistenza sociale in Italia e all’estero, fino a quando nel 1992 il XVII Congresso Nazionale degli Assistenti Sociali ha redatto la prima stesura dell’attuale Codice deontologico. Così, sulle tracce del “giuramento di Ippocrate” (V sec. a.C.)[3] e su quelle del medico ebreo egiziano Mosè Maimonide del XII secolo[4], si è ritenuto che sia un elemento essenziale per la fisionomia di una professione avere un corpus di regole e di norme di comportamento, che orientino verso atteggiamenti professionalmente corretti. I nuovi parametri della deontologia dell’assistente sociale si estrinsecano nel dovere d’ “informare” il destinatario in ordine ai propri diritti, nel contesto della relazione d’aiuto (art. 8); il dovere di “protezione” delle informazioni apprese da terzi e comprese nella documentazione prodotta (art. 9); il dovere di esperire il “consenso” dell’utente in ordine alla presenza di eventuali terzi nell’ambito della relazione d’aiuto (art. 11); il dovere di esperire il consenso informato dell’utente in caso di trasferimento della relazione d’aiuto ad un altro collega che la prosegue (art. 13); il dovere di informare l’utente circa l’esistenza di incarichi di assistenza sociale disposti, nei suoi confronti, dalla magistratura (art. 14); gli obblighi di riservatezza e di segreto professionale (artt. da 17 a 23).

 

E’ di tutta evidenza, poi, che i principi ispiratori dei codici sono le parti più significative. Particolarmente il titolo I del Codice si è ispirato ai valori sanciti dalla Costituzione, dalla Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo e da numerose Carte dei diritti umani di tradizione europea.

 

Il segreto professionale è un dovere, prima etico e poi giuridico, di non rivelare notizie apprese in forza di un rapporto fiduciario che si è instaurato tra i servizi e i loro destinatari. Le motivazioni che sorreggono il segreto professionale si fondano sulla dignità della persona, sui suoi diritti costituzionalmente garantiti, sulla tutela della professione sociale che deve sempre essere dedicata al servizio delle persone. Questi valori prescindono dalla legge, cioè non hanno la necessità di essere confermati dalla legge, ma trovano riconoscimento nella priorità a loro conferita rispetto al diritto; nel caso di conflitto tra etica e diritto positivo viene riaffermato il valore dell’etica. Il segreto professionale esprime dei contenuti che superano ciò che può essere richiesto dalla legge. La riservatezza non è solo un obbligo che deriva dal segreto professionale in senso stretto, cioè giuridicamente protetto, ma è un modo di procedere con la necessaria discrezione nell’uso di informazioni, che chiunque è tenuto a considerare nell’esercizio del proprio ruolo. Si deve trovare sempre l’equilibrio nel discernere ciò che deve rimanere riservato e ciò che è opportuno divulgare, ai fini di un proficuo rapporto tra gli operatori del settore; altrimenti, si è in presenza di fatti pubblici, nei quali non sorgono le particolarità di cui si è detto. La percezione che si ha della capacità di riservatezza induce ad una maggiore disponibilità, incoraggiando quel rapporto fiduciario che rappresenta il punto di forza su cui basare le situazioni personali. La partecipazione consapevole nell’aiuto che viene proposto dai servizi sociali è speculare rispetto alla discrezione che viene garantita. I modi di agire hanno portato la letteratura a considerare l’utilità di ottenere il “consenso informato”, che consta nel permesso di procedere nel modo concordato; si badi che questo comportamento non esclude, anzi comprende la possibilità di dare informazioni a terzi per lo svolgimento degli atti che sono previsti dalla legge. Se poi non si riesce a far maturare le condizioni per un consenso, si pensi a situazioni sottoposte a forte controllo e tutela del soggetto debole da parte del giudice, in cui l’operatore deve informare il destinatario dei provvedimenti presi e di quelli che saranno successivamente compiuti. Essenziale è essere chiari anche in situazioni complesse e conflittuali, senza mai azzerare le risorse psico-fisiche delle persone. Ma queste condizioni possono venir meno solo in casi eccezionali e di gravità urgente, poiché si è in presenza di grave incapacità del soggetto.

 

La riservatezza può essere considerata un’estensione concettuale e teorica del segreto, è quindi da intendersi non solo come obbligo a non rivelare notizie apprese in forza di un rapporto fiduciario, da cui potrebbe derivare nocumento alle persone che le hanno fornite (segreto professionale in senso stretto, giuridicamente protetto), ma anche come impegno ad usare con discrezione le informazioni acquisite nell’esercizio del ruolo ricoperto (a meno che non siano fatti pubblici) e come capacità di discernimento tra ciò che va mantenuto riservato e ciò che è utile e necessario comunicare, in un lavoro integrato degli operatori.

 

Il segreto professionale va distinto dal segreto d’ufficio, che era stato previsto per coloro che svolgono una funzione pubblica (cfr. art. 326 c.p. e 201 del c.p.p., nonché l’art. 28 della l. n. 241/1990). Il segreto d’ufficio è stato pensato e disciplinato prevalentemente a tutela della pubblica amministrazione e del servizio pubblico e, indirettamente, anche a tutela della professionalità degli operatori. In ogni caso il segreto d’ufficio non può essere invocato per coprire disfunzioni o inadempienze del servizio pubblico, come si ricava anche dalla recente normativa sul procedimento amministrativo e sull’accesso ai documenti amministrativi (l. n. 241/1990 e l. n. 15/2005). Il segreto d’ufficio può coprire anche l’operato degli assistenti sociali che lavorano nella pubblica amministrazione, ma, da solo, non tutela adeguatamente la riservatezza dovuta alle persone destinatarie dei servizi. Infatti il segreto d’ufficio evita l’uscita all’esterno delle notizie, ma ne consente la circolazione interna; quindi, occorre invece riaffermare la necessità che l’operatore sociale possa far valere il diritto al segreto professionale, a tutela della privacy dell’utente e a salvaguardia della propria autonomia professionale.

 

Ciò detto, è importante identificare in linea di massima per quali attività e a quali livelli di collocamento funzionale l’assistente sociale sia tenuto ad attenersi semplicemente al segreto d’ufficio o anche al segreto professionale, e se e quanto questo diritto/dovere gli sia riconosciuto a livello giuridico, oltre che organizzativo. In sostanza, il segreto professionale è certamente doveroso nel lavoro sui “casi”, attraverso gli strumenti classici, cioè i colloqui, le registrazioni, i piani di lavoro, le relazioni ecc. Gli assistenti sociali con funzioni di coordinamento e supervisione sono tenuti al segreto per gli stessi tipi di interventi ed anche per i casi supervisionati. Restano invece iscritte al segreto d’ufficio tutte le attività dell’assistente sociale, in riferimento alla produzione di documenti ufficiali, trasmissibili o allegabili, che costituiscono parte integrante di atti pubblici (delibere, decreti e altri provvedimenti), come anche le attività di raccolta ed elaborazione dei dati.

 

Allo stato attuale emerge la considerazione che l’eterogeneità delle posizioni lavorative degli assistenti sociali determina, in molti casi, il rischio dell’assenza del dovere/diritto del segreto professionale per l’assistente sociale che rivesta mansioni esecutive.

 

Per le considerazioni fatte si ritiene pertanto che si debba invocare non solo il dovere, ma anche il diritto dell’ assistente sociale di vedersi riconosciuto, più esplicitamente di quanto fatto fino ad ora, l’esercizio del segreto professionale, che gli deriva dal valore eticamente fondante della professione stessa.

 

Ciò può essere confermato anche dalla l. n. 241/1990 (art. 24, comma 2, punti 3 e 4), nella stesura dei decreti attuativi e nelle sue modifiche successive.

 

E’ anche utile osservare che il rischio di scarsa tutela della riservatezza delle informazioni negli uffici di servizio sociale non costituisce un problema recente, né certo solo imputabile al processo di informatizzazione. Le attuali cartelle in forma cartacea non sono probabilmente più protette e sicure di un file del computer; senza contare che il maggiore pericolo, da questo punto di vista, può essere rappresentato dall’imprudenza, dalla loquacità, dalla leggerezza individuale dei singoli operatori, che spesso non valutano, con sufficiente serietà professionale, gli ambiti, gli interlocutori, i tempi. L’educazione alla riservatezza è e resta sempre un punto di partenza e non di arrivo, per coloro che operano in un contesto così complesso e sottoposto, spesso, anche ai riflettori mediatici.

 

Ciò detto, è comunque importante valutare bene l’impatto di una crescente informatizzazione e gli orientamenti da assumere a tutela della riservatezza, per beneficiare dei vantaggi che questa comporta senza trascurare le insidie che contiene.

 

Sembra necessario, a questo riguardo distinguere tre tipi di documentazione di servizio sociale:

 

a) una documentazione riservata, ad uso strettamente personale dell’operatore, sottoposta a segreto professionale e quindi da divulgare in senso informatico da parte dello stesso operatore interessato, ma con accesso riservato (ad es. tramite una parola chiave);

 

b) una documentazione più sintetica, c.d. di esercizio, informatizzata, ma sottoposta, in questo caso, al segreto d’ufficio;

 

c) una documentazione informatizzata di governo, a livello centrale.

 

Rispetto alla divulgazione e all’operatività del sistema informativo, una prima attenzione viene rivolta alla preselezione ed esclusione delle informazioni soggette al segreto professionale.

 

Una seconda attenzione riguarda la predisposizione di documenti semplificati e sintetici, da elaborare secondo programmi di software, che devono essere predisposti in collaborazione con gli operatori e non imposti, cioè preconfezionati all’esterno, evitando il rischio che questo comportamento potrebbe manifestare.

 

Infine, vanno studiate le possibilità ed i limiti del raccordo (compatibilità, comunicabilità) con i sistemi informatici di altri servizi socio-sanitari (servizi di salute mentale, infermieristici di base, servizi per la tossicodipendenza ecc.) per una gestione integrata dei progetti di intervento, scopo essenziale della riforma introdotta dalla l. n. 328/2000.

 

La legislazione sociale minorile degli ultimi anni ha ulteriormente confermato una chiamata in causa dei servizi sociali locali da parte dell’autorità giudiziaria (altrimenti può intervenire l’omissione di atti d’ufficio). Ciò può significare la richiesta di trasmissione di dati che sono soggetti al segreto professionale, nell’ambito di un processo di aiuto (già in atto o da attivare) rispetto al diritto prevalente del minore o della persona in condizioni di difficoltà {ad es. un anziano).

 

L’ autorità giudiziaria con cui più frequentemente si hanno rapporti è costituita da:

 

- Procura e Tribunale per i minori (civile e penale);

 

- Giudice tutelare (I.V.G. di minorenni, tutela adulti e minori, controllo sull’esecuzione delle sentenze di separazione e divorzio rispetto ai minori);

 

- Tribunale ordinario;

 

- Difensore civico.

 

I rapporti con il Tribunale dei minori e con il Giudice tutelare possono riguardare:

 

- situazioni già seguite e quindi con relazione di aiuto in atto e relativo rapporto fiduciario;

 

- situazioni ancora sconosciute al servizio, per cui è richiesta un’indagine professionale;

 

- nuove situazioni segnalate da parte dello stesso servizio sociale locale.

 

Rispetto ai rapporti con il tribunale ordinario, va sottolineato che la chiamata in causa del servizio sociale locale è discrezionale da parte del tribunale stesso. Se è vero che l’ente locale, già in virtù degli artt. 22 e 23 del d.p.r. 616/77, aveva ed ha un dovere di tutela nei confronti del minore, è anche vero che in assenza di protocolli tra ente locale e tribunale, la posizione dell’assistente sociale risulta indebolita rispetto alle sue prerogative e ciò pone maggiori problemi per la trasmissione di informazioni e la conseguente riservatezza.

 

Per quanto riguarda le forze dell’ordine (polizia giudiziaria, polizia municipale, polizia penitenziaria, carabinieri) va considerata, come discriminante per la trasmissione di notizie ed informazioni, l’esistenza o meno di una collaborazione non informale, ma effettiva; ciò può realizzarsi attraverso un protocollo che faccia parte di un progetto, in modo che questa ulteriore possibilità diventi una risorsa, una collaborazione, una risposta alle esigenze sempre più complesse e differenziate delle persone.

 

Il problema della riservatezza nella comunicazione delle informazioni si pone in modo particolare nel rapporto con le reti, cioè con quelle risorse formali ed informali che possono essere utilizzate e promosse nelle comunità locali. In modo prioritario va riaffermata, secondo l’orientamento prevalente, l’esigenza sul piano deontologico di trasmettere unicamente le informazioni utili e fruibili. Mentre a livello di reti formali (servizi pubblici e privati presenti nella comunità e quindi in modo più diretto i loro operatori) la trasmissione di notizie può articolarsi secondo prassi già in uso o indirizzarsi verso la costruzione di protocolli di intesa. Particolare attenzione merita il problema della trasmissione di notizie a componenti della famiglia “allargata”, della famiglia affidataria, ai vicini, ai volontari singoli o ad associazioni o gruppi, non vincolati da espliciti obblighi di riservatezza.

 

La qualità e la quantità di notizie da trasmettere va valutata caso per caso, tenendo conto del tipo di problema che si affronta, del legame del soggetto con la persona aiutata, della funzione più o meno consistente da svolgere nel processo di aiuto, della capacità di comprensione e di uso delle informazioni che il soggetto dimostra, della volontà degli interessati di rendere noti fatti personali.

 

Si ritiene anche che agli operatori professionali possa competere, inoltre, il compito di contribuire ad una formazione consapevole dei volontari, in ordine alla responsabilità e all’impegno di riservatezza richiesti.

 

Alcune recenti disposizioni legislative in materia di procedimenti amministrativi e di accesso ai documenti della pubblica amministrazione (l. n. 241/1990 modificata dalla l. n. 15/2005), pongono alcuni problemi in ordine al pieno adempimento del diritto della persona alla riservatezza e alla contemporanea affermazione del diritto-dovere al segreto professionale da parte dell’assistente sociale. Le affermazioni che seguono hanno lo scopo di destare attenzione e vigilanza su questi aspetti e propongono interpretazioni del dettato legislativo, per conciliare l’esigenza giuridica di fornire garanzie di trasparenza dell’azione amministrativa e il rispetto dal punto di vista deontologico della riservatezza di cui si è ampiamente detto. Le parti delle leggi in questione che hanno destato maggiori preoccupazioni a riguardo sono quelle che regolano l’accesso dei cittadini agli atti e ai documenti amministrativi (capo V della l. n. 241/1990) e l’istituzione dell’Albo dei beneficiari di provvidenze economiche (art. 22, l. n. 412/1991, legge finanziaria per il 1992).

 

Per ciò che concerne l’accesso ai documenti in possesso delle pubbliche amministrazioni, è stata realizzata l’eventualità che il cittadino che ne “abbia interesse per la tutela di situazioni giuridicamente rilevanti” (art. 22, comma 1, l. n. 241/1990) possa accedere anche solo in visione ad atti o documenti del servizio sociale (accesso parziale), ad esempio la cartella sociale o parti di essa, come già avviene, peraltro, con le cartelle cliniche.

 

A conforto di questi principi è l’art. 24 della legge n. 241 del 1990, che stabilisce che “le amministrazioni dello Stato dovranno dotarsi di regolamenti che, in base a uno o più decreti da emanarsi da parte del governo, individuino le categorie di documenti da escludersi dal diritto d’accesso, in relazione all’esigenza di salvaguardare «la riservatezza di terzi, persone [...] garantendo peraltro la visione degli atti relativi ai procedimenti amministrativi la cui conoscenza sia necessaria per curare o per difendere i loro interessi giuridici” (art. cit., comma 4, lett. d) ).

 

In ordine invece all’esigenza di trasparenza negli atti della pubblica amministrazione, la legge finanziaria del 1991 aveva previsto, per tutte le amministrazioni dello Stato, l’istituzione dell’Albo dei beneficiari di provvidenze di natura economica, in cui siano indicati annualmente i soggetti, ivi comprese le persone fisiche, ai quali “siano stati erogati in ogni esercizio finanziario contributi...”. L’Albo deve anche indicare “la disposizione di legge in base alla quale hanno luogo le erogazioni”; può essere consultato da ogni cittadino e le amministrazioni ne assicurano “la massima facilità d’accesso e pubblicità”. Sembra, ad una prima impressione, una riedizione dell’Elenco dei Poveri di ottocentesca memoria, all’interno di un più vasto elenco di soggetti che fruiscono di provvidenze economiche pubbliche a vario titolo (ad es. le società sportive).

 

Per un servizio sociale professionale pienamente “integrato” in un nuovo concetto di pubblica amministrazione, non si può che ribadire l’assoluta responsabilità dell’ente locale nell’assolvimento di un obbligo legislativo, cui il singolo operatore o servizio non può non concorrere. Ciò non esime, comunque, dall’esplicitare nelle forme e nei modi ritenuti più opportuni la difficoltà etica ad accettare che un bisogno (di qualsiasi natura esso sia) sia reso noto e sancito dall’affissione ad un albo di pubblico dominio.

 

Ora è necessario approfondire i riflessi che i principi di etica della professione sociale comportano nei confronti del diritto, della tutela della privacy e dell’identità della persona, che coinvolgono un aspetto importante e sicuramente non trascurabile della sua vita relazionale, la reputazione.

 

Gli artt. 22, 23 e 41 della legge n. 675/1996 (modif. dalla l. n. 196/2003) costituiscono un insieme di norme che individuano l’ambito giuridico, che configura il quadro delle responsabilità dei “titolari” dei dati personali in ambito sanitario; gli stessi sono chiamati ad operare il trattamento dei dati dei soggetti “portatori di interesse (stakeholder)”, cioè le persone fisiche a cui il servizio sociale si rivolge. La l. n. 675/1996 definisce con precisione il trattamento, la comunicazione e la diffusione dei dati personali. Con il primo s’intendono tutte le operazioni che riguardano la raccolta, la registrazione, la conservazione, le modifiche, la selezione, il raffronto, il blocco, la cancellazione dei dati; il secondo consiste nel far conoscere, in qualunque modo, i dati personali ad uno o più soggetti individuati e diversi dall’interessato; con la diffusione la legge, invece, vuole dare conoscenza dei dati in modo indeterminato e con qualunque forma, senza individuare, cioè, i destinatari. Quindi risultano di tutta evidenza le responsabilità dell’operatore sociale che, in ragione delle proprie mansioni, è chiamato in via istituzionale o per prassi ad indirizzare la documentazione clinica da un medico ad un altro, senza poter verificare la presenza del consenso scritto del paziente in merito al trattamento dei suoi dati. E ciò non è un problema di poco conto.

 

Prima dell’entrata in vigore della legge sulla privacy, le responsabilità dell’assistente sociale erano ascrivibili in modo astratto a modelli di comportamento sul piano deontologico (etico-formativo); ora, invece, il comportamento può divenire perseguibile sotto il profilo giuridico, in virtù della l. n. 675/1996 integrata dal d.lgs. n. 282/1999 recante “Disposizioni per garantire la riservatezza dei dati personali in ambito sanitario”.

 

Il decreto legislativo, all’art. 1, comma 2, disciplina “i trattamenti di dati idonei a rivelare lo stato di salute in ambito sanitario da parte di soggetti diversi da quelli indicati nel comma 1”. Il comma 1 si riferisce, infatti, solo ad organismi sanitari pubblici e a quelli esercenti le professioni sanitarie in convenzione o in accreditamento con il S.S.N.. Tra questi “soggetti diversi”, l’art. 2 (informativa e consenso) del d.lgs. n. 282/1999 ha disposto al comma 1, lett. d) la “previsione di modalità di applicazione del comma 2 del presente articolo ai professionisti sanitari diversi dai medici, che intrattengono rapporti diretti con i pazienti”. Essendo, quindi, il comma 2 dell’art. 2 del d.lgs. n. 282/1999 riferito all’art. 23 della l. n. 675/1996 (dati inerenti alla salute), ne consegue che l’assistente sociale che opera in campo sanitario intrattiene rapporti diretti con i pazienti e può trattare i loro dati personali. Il trattamento dei dati è però limitato alle operazioni indispensabili per la tutela dell’incolumità psico-fisica dell’interessato. Ciò detto, si deduce che l’assistente sociale non potrà:

 

a) “trattare” dati inerenti alla salute per motivi diversi da quelli per cui l’interessato ha manifestato il proprio consenso;

 

b) “comunicare” all’interessato, o ai suoi congiunti, i dati personali che rivelino lo stato di salute se non per il tramite di un medico, designato dall’interessato stesso o dal titolare del trattamento;

 

c) “diffondere” a terzi i dati inerenti alla salute, se non nei casi di espressa necessità comprovata dalla finalità di prevenzione e/o accertamento e/o repressione di reati, con osservanza delle norme che regolano la materia e salvi i diritti della personalità, di cui andranno salvaguardate la reputazione e l’identità personale.

 

In ragione delle considerazioni qui esposte, nel nostro ordinamento la tutela della riservatezza non comporta una tutela automatica dei diritti delle persone; né possono essere dimenticate, dagli assistenti sociali, le conseguenze giuridiche a cui è quotidianamente sottoposto il loro lavoro. Infatti, gli operatori sociali si confrontano con soggetti che prima di essere qualificati pazienti, per il ruolo che rivestono in una data circostanza, sono e restano titolari, agli effetti di legge, dei diritti della personalità (reputazione e identità personale). La reputazione è l’aspetto oggettivo di qualità personali, come il decoro e la dignità, ma anche di qualità morali, come l’onore. Per cui è possibile che la stessa persona, di cui si garantisce la riservatezza, possa essere diffamata per la rappresentazione oggettiva che attribuisce un danno alla sua reputazione, in spregio alle qualità ed ai valori che la maggior parte della collettività in cui vive gli riconosce[5]. Da tempo (Cass. 22.06.1985, n. 3769) la giurisprudenza della Corte di Cassazione ha configurato il diritto all’identità personale, in virtù dell’art. 2 Cost[6], che la sentenza della Cassazione ha ribadito. Infatti, la Corte sostiene “l’interesse giuridicamente protetto a non vedere travisato o alterato il proprio profilo intellettuale, politico, sociale, religioso, ideologico e professionale” e precisando ancora che “tale diritto trova il suo fondamento nell’art. 2 della Costituzione ed è deducibile, per analogia, dalla disciplina prevista per il diritto al nome”.

 

Pertanto, il disposto normativo degli artt. 22, 23 e 41 della l. n. 675/1996 rientra, senza ombra di dubbio, nell’ambito della tutela alla riservatezza; quindi deve essere ben ponderato dagli assistenti sociali, costituendo una responsabilità unita a quella per il trattamento dei dati sensibili (come, per esempio, le cartelle cliniche dei pazienti). Ciò comporta che, per favorire la corretta ed attuale applicazione dei contenuti della l. n. 675/1996, siano previste disposizioni transitorie, che consentano all’Ufficio dell’autorità di garanzia di applicare la legge con efficacia nel tempo. In sostanza, questo ragionamento porta a considerare che a prescindere dal generale riferimento normativo ai “diritti inviolabili dell’uomo”, di cui all’art. 2 Cost., la riservatezza come bene giuridico autonomo aveva trovato dimora nell’ordinamento solo a seguito di comprovati comportamenti illeciti, tali da delineare una responsabilità del loro autore ai sensi dell’art. 2043 del Codice Civile. Invece, con la l. n. 675/1996 sono stati sanciti una serie di comportamenti che, se integrati, non richiedono alcun accertamento specifico per dimostrare l’eventuale violazione della riservatezza. Allora si può sostenere finalmente che la riservatezza è oggi un bene giuridico autonomo rispetto agli altri beni che esprimono i diritti della personalità (la reputazione e l’identità personale).

 

Per questi motivi, anche l’assistente sociale, così come il medico, si deve attenere ai precetti deontologici, non solo come riferimento etico della professione, ma anche come strumento normativo attraverso cui può essere individuata (e quindi perseguita) la sua responsabilità professionale. Questa responsabilità, infine, è vista nei confronti delle leggi dello Stato e anche in relazione ai diritti fondamentali della personalità del singolo, dei suoi interessi legittimi quale utente nei casi in cui l’assistente sociale è espressione di una pubblica amministrazione.



[1] A questo proposito v. D. BRIELAND, History and evolution of social work practice, in Enciclopedia of social work, National Association of Social Workers, NASW, Silver Spring, Md., USA, 1987.

 

[2] E’ una splendida località denominata “Regole di Malosco”, in provincia di Trento. Essa si trova nell’Alta Anaunia (alta valle di Non – Obernonsthaal), appena dopo il Comune di Ronzone, sulla strada statale n. 43 del Passo Mendola.

 

[3]Fu colui che, già a quel tempo, diede la definizione di “diagnosi”, “prognosi” e di “cartella clinica”. Ancora oggi, nell’Isola di Kos, in Grecia, che gli diede i natali, viene annualmente festeggiato come un medico benefattore; infatti, egli non pretendeva onorari per visitare i pazienti, i quali si sentivano liberi di offrire ciò che ritenevano congruo in cambio della prestazione.

 

[4]Egli pregava dicendo: “Fammi essere soddisfatto di ogni cosa, eccetto della grande scienza della mia professione. Non permettere che nasca in me pensiero di aver raggiunto una conoscenza sufficiente, ma concedimi la forza, la possibilità e l’ambizione di ampliarla sempre più. Perché l’arte è grande, ma la mente dell’uomo è in continua espansione”.

 

[5] Per esempio, desumere che la positività ad un test di HIV sia la risposta ad un comportamento dedito all’uso di stupefacenti o ad un atteggiamento sessuale disinvolto, senza un riscontro o un’ammissione da parte del soggetto, è lesivo della reputazione e dell’identità personale.

 

[6] “La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali, ove si svolge la sua personalità…”

Codice Deontologico assistente sociale Titolo III, Capo I, II, III (artt. 11 – 32)

Sia per quanto riguarda i rapporti dell’assistente sociale con l’esterno sia per i rapporti verso l’interno, è necessario fare riferimento alle norme costituzionali e legislative, che costituiscono da sempre il presupposto giuridico in cui si delinea la professione sociale. A tal proposito non è trascurabile, inoltre, un’attenta valutazione della c.d. deontologia professionale, disciplinata dal Codice deontologico, approvato ed entrato in vigore con la l. n. 84 del 23 marzo1993. La professione, attraverso l’intervento del Consiglio Nazionale dell’Ordine, ha voluto darsi un Codice, che sarà promulgato alcuni anni dopo, il 18 aprile 1998. Questo strumento, che costituisce il DNA della professione sociale, riconosce nuovi parametri di professionalità, un ethos costituito da un insieme di valori e norme. Storicamente questo Codice deriva dalle Charity Organisations Society (1869), che hanno rivoluzionato il concetto di “povertà” liberandolo dal giudizio di “colpa”, introducendo invece la concezione di “diritto-dovere dell’assistenza”. Si giunge al codice di M. Richmond (1919), che metteva in rilievo il valore della persona attraverso i principi del rispetto, dell’autodeterminazione, della personalizzazione dell’aiuto, dell’accettazione[1].

 

Dopo il Congresso internazionale di fondazione dell’ International Council of Social Welfare, tenutosi a Parigi nel 1928, vi fu l’influenza del periodo fascista che offrì una lettura meramente ideologica ai valori che si stavano profilando nel servizio sociale. Si arriva alla data significativa del 1946, che segna il dopoguerra con la volontà di riprendere i temi cari ai concetti di libertà, di uguaglianza, di solidarietà, di socialità che erano stati soffocati dal conflitto bellico. Nel Convegno di Tramezzo (1946), sul lago di Como, si costruivano e organizzavano i pensieri della dottrina che avrebbe poi dato vita al Codice deontologico. Il Convegno di Bruxelles (1947), promosso dall’unione Cattolica Internazionale di Servizio Sociale (UICSS), il Seminario di studio di servizio sociale tenutosi in Svizzera (1948), la Scuola romana, la Scuola pisana e quella torinese furono il trampolino di lancio di un primo esperimento di norme codificate, il Codice di morale del servizio sociale.

 

La stesura fu a cura del canonico V.L. Heylen, constava di ben 459 articoli che avevano un’impronta dichiaratamente confessionale, ma dove già si collocava un capitolo dedicato al segreto professionale e alla riservatezza. Nel 1956 vi fu un’altra tappa importante con la pubblicazione, a cura dell’UICSS, della Guide International de morale; era un’opera ancora più vasta con 829 articoli, che aveva uno scopo ricognitivo della concezione di “natura” del servizio sociale, di elementi soprannaturali ritenuti fondanti l’attività di assistente sociale, di raccomandazioni nel non smodare in cibi e bevande alcooliche. Era un modo di concepire la figura dell’assistente sociale come un esempio morale, sia nelle scuole dottrinali di ispirazione laica sia in quelle di ispirazione cristiana. Un peso rilevante in Italia è rappresentato dalla divulgazione del pensiero di scuola anglosassone, per mezzo della traduzione dai “Quaderni” della Collana di Servizio Sociale dell’Amministrazione per le Attività Assistenziali Italiane e Internazionali (AAI).

 

Un momento importante (e che viene periodicamente rinnovato) è quello del Seminario di studio di Malosco (Tn)[2], presso la Fondazione Emanuela Zancan (1967); è stata un’occasione per sviluppare contestualmente concezioni etiche, filosofiche ed anche teologiche, dove si è cercato di delineare valori comuni e dove si sono liberamente confrontate opinioni contrastanti.

 

Un’altra tappa che favorisce l’evoluzione del sistema sociale verso gli ultimi orientamenti legislativi, è costituita dalla pubblicazione da parte della Federazione Internazionale degli Assistenti Sociali (IFSW – Portorico, 1976) del Codice internazionale di etica professionale degli assistenti sociali, ma in Italia ha avuto una scarsa risonanza. Invece un ruolo di forte interesse hanno suscitato i Convegni di Siena (1984) e di Verona (1985), dedicati agli insegnamenti specifici di orientamento alla professione sociale, fino al Convegno dell’Alta Val d’Elsa (1989) che ha partorito il primo “Codice deontologico degli assistenti sociali”.

 

Negli anni novanta proseguono con intensità i seminari di studio intorno al tema dell’assistenza sociale in Italia e all’estero, fino a quando nel 1992 il XVII Congresso Nazionale degli Assistenti Sociali ha redatto la prima stesura dell’attuale Codice deontologico. Così, sulle tracce del “giuramento di Ippocrate” (V sec. a.C.)[3] e su quelle del medico ebreo egiziano Mosè Maimonide del XII secolo[4], si è ritenuto che sia un elemento essenziale per la fisionomia di una professione avere un corpus di regole e di norme di comportamento, che orientino verso atteggiamenti professionalmente corretti. I nuovi parametri della deontologia dell’assistente sociale si estrinsecano nel dovere d’ “informare” il destinatario in ordine ai propri diritti, nel contesto della relazione d’aiuto (art. 8); il dovere di “protezione” delle informazioni apprese da terzi e comprese nella documentazione prodotta (art. 9); il dovere di esperire il “consenso” dell’utente in ordine alla presenza di eventuali terzi nell’ambito della relazione d’aiuto (art. 11); il dovere di esperire il consenso informato dell’utente in caso di trasferimento della relazione d’aiuto ad un altro collega che la prosegue (art. 13); il dovere di informare l’utente circa l’esistenza di incarichi di assistenza sociale disposti, nei suoi confronti, dalla magistratura (art. 14); gli obblighi di riservatezza e di segreto professionale (artt. da 17 a 23).

Codice deontologico dell'assistente sociale: le parti più significative

E’ di tutta evidenza, poi, che i principi ispiratori dei codici deontologici degli assistenti sociali sono le parti più significative. Particolarmente il titolo I del Codice si è ispirato ai valori sanciti dalla Costituzione, dalla Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo e da numerose Carte dei diritti umani di tradizione europea.

 

Il segreto professionale è un dovere, prima etico e poi giuridico, di non rivelare notizie apprese in forza di un rapporto fiduciario che si è instaurato tra i servizi e i loro destinatari. Le motivazioni che sorreggono il segreto professionale si fondano sulla dignità della persona, sui suoi diritti costituzionalmente garantiti, sulla tutela della professione sociale che deve sempre essere dedicata al servizio delle persone. Questi valori prescindono dalla legge, cioè non hanno la necessità di essere confermati dalla legge, ma trovano riconoscimento nella priorità a loro conferita rispetto al diritto; nel caso di conflitto tra etica e diritto positivo viene riaffermato il valore dell’etica. Il segreto professionale esprime dei contenuti che superano ciò che può essere richiesto dalla legge. La riservatezza non è solo un obbligo che deriva dal segreto professionale in senso stretto, cioè giuridicamente protetto, ma è un modo di procedere con la necessaria discrezione nell’uso di informazioni, che chiunque è tenuto a considerare nell’esercizio del proprio ruolo. Si deve trovare sempre l’equilibrio nel discernere ciò che deve rimanere riservato e ciò che è opportuno divulgare, ai fini di un proficuo rapporto tra gli operatori del settore; altrimenti, si è in presenza di fatti pubblici, nei quali non sorgono le particolarità di cui si è detto. La percezione che si ha della capacità di riservatezza induce ad una maggiore disponibilità, incoraggiando quel rapporto fiduciario che rappresenta il punto di forza su cui basare le situazioni personali. La partecipazione consapevole nell’aiuto che viene proposto dai servizi sociali è speculare rispetto alla discrezione che viene garantita. I modi di agire hanno portato la letteratura a considerare l’utilità di ottenere il “consenso informato”, che consta nel permesso di procedere nel modo concordato; si badi che questo comportamento non esclude, anzi comprende la possibilità di dare informazioni a terzi per lo svolgimento degli atti che sono previsti dalla legge. Se poi non si riesce a far maturare le condizioni per un consenso, si pensi a situazioni sottoposte a forte controllo e tutela del soggetto debole da parte del giudice, in cui l’operatore deve informare il destinatario dei provvedimenti presi e di quelli che saranno successivamente compiuti. Essenziale è essere chiari anche in situazioni complesse e conflittuali, senza mai azzerare le risorse psico-fisiche delle persone. Ma queste condizioni possono venir meno solo in casi eccezionali e di gravità urgente, poiché si è in presenza di grave incapacità del soggetto.

 

La riservatezza può essere considerata un’estensione concettuale e teorica del segreto, è quindi da intendersi non solo come obbligo a non rivelare notizie apprese in forza di un rapporto fiduciario, da cui potrebbe derivare nocumento alle persone che le hanno fornite (segreto professionale in senso stretto, giuridicamente protetto), ma anche come impegno ad usare con discrezione le informazioni acquisite nell’esercizio del ruolo ricoperto (a meno che non siano fatti pubblici) e come capacità di discernimento tra ciò che va mantenuto riservato e ciò che è utile e necessario comunicare, in un lavoro integrato degli operatori.

 

Il segreto professionale va distinto dal segreto d’ufficio, che era stato previsto per coloro che svolgono una funzione pubblica (cfr. art. 326 c.p. e 201 del c.p.p., nonché l’art. 28 della l. n. 241/1990). Il segreto d’ufficio è stato pensato e disciplinato prevalentemente a tutela della pubblica amministrazione e del servizio pubblico e, indirettamente, anche a tutela della professionalità degli operatori. In ogni caso il segreto d’ufficio non può essere invocato per coprire disfunzioni o inadempienze del servizio pubblico, come si ricava anche dalla recente normativa sul procedimento amministrativo e sull’accesso ai documenti amministrativi (l. n. 241/1990 e l. n. 15/2005). Il segreto d’ufficio può coprire anche l’operato degli assistenti sociali che lavorano nella pubblica amministrazione, ma, da solo, non tutela adeguatamente la riservatezza dovuta alle persone destinatarie dei servizi. Infatti il segreto d’ufficio evita l’uscita all’esterno delle notizie, ma ne consente la circolazione interna; quindi, occorre invece riaffermare la necessità che l’operatore sociale possa far valere il diritto al segreto professionale, a tutela della privacy dell’utente e a salvaguardia della propria autonomia professionale.

 

Ciò detto, è importante identificare in linea di massima per quali attività e a quali livelli di collocamento funzionale l’assistente sociale sia tenuto ad attenersi semplicemente al segreto d’ufficio o anche al segreto professionale, e se e quanto questo diritto/dovere gli sia riconosciuto a livello giuridico, oltre che organizzativo. In sostanza, il segreto professionale è certamente doveroso nel lavoro sui “casi”, attraverso gli strumenti classici, cioè i colloqui, le registrazioni, i piani di lavoro, le relazioni ecc. Gli assistenti sociali con funzioni di coordinamento e supervisione sono tenuti al segreto per gli stessi tipi di interventi ed anche per i casi supervisionati. Restano invece iscritte al segreto d’ufficio tutte le attività dell’assistente sociale, in riferimento alla produzione di documenti ufficiali, trasmissibili o allegabili, che costituiscono parte integrante di atti pubblici (delibere, decreti e altri provvedimenti), come anche le attività di raccolta ed elaborazione dei dati.

 

Allo stato attuale emerge la considerazione che l’eterogeneità delle posizioni lavorative degli assistenti sociali determina, in molti casi, il rischio dell’assenza del dovere/diritto del segreto professionale per l’assistente sociale che rivesta mansioni esecutive.

 

Per le considerazioni fatte si ritiene pertanto che si debba invocare non solo il dovere, ma anche il diritto dell’ assistente sociale di vedersi riconosciuto, più esplicitamente di quanto fatto fino ad ora, l’esercizio del segreto professionale, che gli deriva dal valore eticamente fondante della professione stessa.

 

Ciò può essere confermato anche dalla l. n. 241/1990 (art. 24, comma 2, punti 3 e 4), nella stesura dei decreti attuativi e nelle sue modifiche successive.

 

E’ anche utile osservare che il rischio di scarsa tutela della riservatezza delle informazioni negli uffici di servizio sociale non costituisce un problema recente, né certo solo imputabile al processo di informatizzazione. Le attuali cartelle in forma cartacea non sono probabilmente più protette e sicure di un file del computer; senza contare che il maggiore pericolo, da questo punto di vista, può essere rappresentato dall’imprudenza, dalla loquacità, dalla leggerezza individuale dei singoli operatori, che spesso non valutano, con sufficiente serietà professionale, gli ambiti, gli interlocutori, i tempi. L’educazione alla riservatezza è e resta sempre un punto di partenza e non di arrivo, per coloro che operano in un contesto così complesso e sottoposto, spesso, anche ai riflettori mediatici.

 

Ciò detto, è comunque importante valutare bene l’impatto di una crescente informatizzazione e gli orientamenti da assumere a tutela della riservatezza, per beneficiare dei vantaggi che questa comporta senza trascurare le insidie che contiene.

 

Codice deontologico dell'assistente sociale: i diversi tipi di documentazione

 

Sembra necessario, a questo riguardo distinguere tre tipi di documentazione di servizio sociale:

 

a) una documentazione riservata, ad uso strettamente personale dell’operatore, sottoposta a segreto professionale e quindi da divulgare in senso informatico da parte dello stesso operatore interessato, ma con accesso riservato (ad es. tramite una parola chiave);

 

b) una documentazione più sintetica, c.d. di esercizio, informatizzata, ma sottoposta, in questo caso, al segreto d’ufficio;

 

c) una documentazione informatizzata di governo, a livello centrale.

 

Rispetto alla divulgazione e all’operatività del sistema informativo, una prima attenzione viene rivolta alla preselezione ed esclusione delle informazioni soggette al segreto professionale.

 

Una seconda attenzione riguarda la predisposizione di documenti semplificati e sintetici, da elaborare secondo programmi di software, che devono essere predisposti in collaborazione con gli operatori e non imposti, cioè preconfezionati all’esterno, evitando il rischio che questo comportamento potrebbe manifestare.

 

Infine, vanno studiate le possibilità ed i limiti del raccordo (compatibilità, comunicabilità) con i sistemi informatici di altri servizi socio-sanitari (servizi di salute mentale, infermieristici di base, servizi per la tossicodipendenza ecc.) per una gestione integrata dei progetti di intervento, scopo essenziale della riforma introdotta dalla l. n. 328/2000.

 

La legislazione sociale minorile degli ultimi anni ha ulteriormente confermato una chiamata in causa dei servizi sociali locali da parte dell’autorità giudiziaria (altrimenti può intervenire l’omissione di atti d’ufficio). Ciò può significare la richiesta di trasmissione di dati che sono soggetti al segreto professionale, nell’ambito di un processo di aiuto (già in atto o da attivare) rispetto al diritto prevalente del minore o della persona in condizioni di difficoltà {ad es. un anziano).

 

L’ autorità giudiziaria con cui più frequentemente si hanno rapporti è costituita da:

 

- Procura e Tribunale per i minori (civile e penale);

 

- Giudice tutelare (I.V.G. di minorenni, tutela adulti e minori, controllo sull’esecuzione delle sentenze di separazione e divorzio rispetto ai minori);

 

- Tribunale ordinario;

 

- Difensore civico.

 

I rapporti con il Tribunale dei minori e con il Giudice tutelare possono riguardare:

 

- situazioni già seguite e quindi con relazione di aiuto in atto e relativo rapporto fiduciario;

 

- situazioni ancora sconosciute al servizio, per cui è richiesta un’indagine professionale;

 

- nuove situazioni segnalate da parte dello stesso servizio sociale locale.

 

Rispetto ai rapporti con il tribunale ordinario, va sottolineato che la chiamata in causa del servizio sociale locale è discrezionale da parte del tribunale stesso. Se è vero che l’ente locale, già in virtù degli artt. 22 e 23 del d.p.r. 616/77, aveva ed ha un dovere di tutela nei confronti del minore, è anche vero che in assenza di protocolli tra ente locale e tribunale, la posizione dell’assistente sociale risulta indebolita rispetto alle sue prerogative e ciò pone maggiori problemi per la trasmissione di informazioni e la conseguente riservatezza.

 

Per quanto riguarda le forze dell’ordine (polizia giudiziaria, polizia municipale, polizia penitenziaria, carabinieri) va considerata, come discriminante per la trasmissione di notizie ed informazioni, l’esistenza o meno di una collaborazione non informale, ma effettiva; ciò può realizzarsi attraverso un protocollo che faccia parte di un progetto, in modo che questa ulteriore possibilità diventi una risorsa, una collaborazione, una risposta alle esigenze sempre più complesse e differenziate delle persone.

 

Il problema della riservatezza nella comunicazione delle informazioni si pone in modo particolare nel rapporto con le reti, cioè con quelle risorse formali ed informali che possono essere utilizzate e promosse nelle comunità locali. In modo prioritario va riaffermata, secondo l’orientamento prevalente, l’esigenza sul piano deontologico di trasmettere unicamente le informazioni utili e fruibili. Mentre a livello di reti formali (servizi pubblici e privati presenti nella comunità e quindi in modo più diretto i loro operatori) la trasmissione di notizie può articolarsi secondo prassi già in uso o indirizzarsi verso la costruzione di protocolli di intesa. Particolare attenzione merita il problema della trasmissione di notizie a componenti della famiglia “allargata”, della famiglia affidataria, ai vicini, ai volontari singoli o ad associazioni o gruppi, non vincolati da espliciti obblighi di riservatezza.

 

La qualità e la quantità di notizie da trasmettere va valutata caso per caso, tenendo conto del tipo di problema che si affronta, del legame del soggetto con la persona aiutata, della funzione più o meno consistente da svolgere nel processo di aiuto, della capacità di comprensione e di uso delle informazioni che il soggetto dimostra, della volontà degli interessati di rendere noti fatti personali.

 

Si ritiene anche che agli operatori professionali possa competere, inoltre, il compito di contribuire ad una formazione consapevole dei volontari, in ordine alla responsabilità e all’impegno di riservatezza richiesti.

 

Alcune recenti disposizioni legislative in materia di procedimenti amministrativi e di accesso ai documenti della pubblica amministrazione (l. n. 241/1990 modificata dalla l. n. 15/2005), pongono alcuni problemi in ordine al pieno adempimento del diritto della persona alla riservatezza e alla contemporanea affermazione del diritto-dovere al segreto professionale da parte dell’assistente sociale. Le affermazioni che seguono hanno lo scopo di destare attenzione e vigilanza su questi aspetti e propongono interpretazioni del dettato legislativo, per conciliare l’esigenza giuridica di fornire garanzie di trasparenza dell’azione amministrativa e il rispetto dal punto di vista deontologico della riservatezza di cui si è ampiamente detto. Le parti delle leggi in questione che hanno destato maggiori preoccupazioni a riguardo sono quelle che regolano l’accesso dei cittadini agli atti e ai documenti amministrativi (capo V della l. n. 241/1990) e l’istituzione dell’Albo dei beneficiari di provvidenze economiche (art. 22, l. n. 412/1991, legge finanziaria per il 1992).

 

Per ciò che concerne l’accesso ai documenti in possesso delle pubbliche amministrazioni, è stata realizzata l’eventualità che il cittadino che ne “abbia interesse per la tutela di situazioni giuridicamente rilevanti” (art. 22, comma 1, l. n. 241/1990) possa accedere anche solo in visione ad atti o documenti del servizio sociale (accesso parziale), ad esempio la cartella sociale o parti di essa, come già avviene, peraltro, con le cartelle cliniche.

 

A conforto di questi principi è l’art. 24 della legge n. 241 del 1990, che stabilisce che “le amministrazioni dello Stato dovranno dotarsi di regolamenti che, in base a uno o più decreti da emanarsi da parte del governo, individuino le categorie di documenti da escludersi dal diritto d’accesso, in relazione all’esigenza di salvaguardare «la riservatezza di terzi, persone [...] garantendo peraltro la visione degli atti relativi ai procedimenti amministrativi la cui conoscenza sia necessaria per curare o per difendere i loro interessi giuridici” (art. cit., comma 4, lett. d) ).

 

In ordine invece all’esigenza di trasparenza negli atti della pubblica amministrazione, la legge finanziaria del 1991 aveva previsto, per tutte le amministrazioni dello Stato, l’istituzione dell’Albo dei beneficiari di provvidenze di natura economica, in cui siano indicati annualmente i soggetti, ivi comprese le persone fisiche, ai quali “siano stati erogati in ogni esercizio finanziario contributi...”. L’Albo deve anche indicare “la disposizione di legge in base alla quale hanno luogo le erogazioni”; può essere consultato da ogni cittadino e le amministrazioni ne assicurano “la massima facilità d’accesso e pubblicità”. Sembra, ad una prima impressione, una riedizione dell’Elenco dei Poveri di ottocentesca memoria, all’interno di un più vasto elenco di soggetti che fruiscono di provvidenze economiche pubbliche a vario titolo (ad es. le società sportive).

 

Per un servizio sociale professionale pienamente “integrato” in un nuovo concetto di pubblica amministrazione, non si può che ribadire l’assoluta responsabilità dell’ente locale nell’assolvimento di un obbligo legislativo, cui il singolo operatore o servizio non può non concorrere. Ciò non esime, comunque, dall’esplicitare nelle forme e nei modi ritenuti più opportuni la difficoltà etica ad accettare che un bisogno (di qualsiasi natura esso sia) sia reso noto e sancito dall’affissione ad un albo di pubblico dominio.

 

I riflessi del codice deontologico dell'assistente sociale nei confronti del diritto

Ora è necessario approfondire i riflessi che i principi di etica della professione sociale comportano nei confronti del diritto, della tutela della privacy e dell’identità della persona, che coinvolgono un aspetto importante e sicuramente non trascurabile della sua vita relazionale, la reputazione.

 

Gli artt. 22, 23 e 41 della legge n. 675/1996 (modif. dalla l. n. 196/2003) costituiscono un insieme di norme che individuano l’ambito giuridico, che configura il quadro delle responsabilità dei “titolari” dei dati personali in ambito sanitario; gli stessi sono chiamati ad operare il trattamento dei dati dei soggetti “portatori di interesse (stakeholder)”, cioè le persone fisiche a cui il servizio sociale si rivolge. La l. n. 675/1996 definisce con precisione il trattamento, la comunicazione e la diffusione dei dati personali. Con il primo s’intendono tutte le operazioni che riguardano la raccolta, la registrazione, la conservazione, le modifiche, la selezione, il raffronto, il blocco, la cancellazione dei dati; il secondo consiste nel far conoscere, in qualunque modo, i dati personali ad uno o più soggetti individuati e diversi dall’interessato; con la diffusione la legge, invece, vuole dare conoscenza dei dati in modo indeterminato e con qualunque forma, senza individuare, cioè, i destinatari. Quindi risultano di tutta evidenza le responsabilità dell’operatore sociale che, in ragione delle proprie mansioni, è chiamato in via istituzionale o per prassi ad indirizzare la documentazione clinica da un medico ad un altro, senza poter verificare la presenza del consenso scritto del paziente in merito al trattamento dei suoi dati. E ciò non è un problema di poco conto.

 

Prima dell’entrata in vigore della legge sulla privacy, le responsabilità dell’assistente sociale erano ascrivibili in modo astratto a modelli di comportamento sul piano deontologico (etico-formativo); ora, invece, il comportamento può divenire perseguibile sotto il profilo giuridico, in virtù della l. n. 675/1996 integrata dal d.lgs. n. 282/1999 recante “Disposizioni per garantire la riservatezza dei dati personali in ambito sanitario”.

 

Il decreto legislativo, all’art. 1, comma 2, disciplina “i trattamenti di dati idonei a rivelare lo stato di salute in ambito sanitario da parte di soggetti diversi da quelli indicati nel comma 1”. Il comma 1 si riferisce, infatti, solo ad organismi sanitari pubblici e a quelli esercenti le professioni sanitarie in convenzione o in accreditamento con il S.S.N.. Tra questi “soggetti diversi”, l’art. 2 (informativa e consenso) del d.lgs. n. 282/1999 ha disposto al comma 1, lett. d) la “previsione di modalità di applicazione del comma 2 del presente articolo ai professionisti sanitari diversi dai medici, che intrattengono rapporti diretti con i pazienti”. Essendo, quindi, il comma 2 dell’art. 2 del d.lgs. n. 282/1999 riferito all’art. 23 della l. n. 675/1996 (dati inerenti alla salute), ne consegue che l’assistente sociale che opera in campo sanitario intrattiene rapporti diretti con i pazienti e può trattare i loro dati personali. Il trattamento dei dati è però limitato alle operazioni indispensabili per la tutela dell’incolumità psico-fisica dell’interessato. Ciò detto, si deduce che l’assistente sociale non potrà:

 

a) “trattare” dati inerenti alla salute per motivi diversi da quelli per cui l’interessato ha manifestato il proprio consenso;

 

b) “comunicare” all’interessato, o ai suoi congiunti, i dati personali che rivelino lo stato di salute se non per il tramite di un medico, designato dall’interessato stesso o dal titolare del trattamento;

 

c) “diffondere” a terzi i dati inerenti alla salute, se non nei casi di espressa necessità comprovata dalla finalità di prevenzione e/o accertamento e/o repressione di reati, con osservanza delle norme che regolano la materia e salvi i diritti della personalità, di cui andranno salvaguardate la reputazione e l’identità personale.

 

In ragione delle considerazioni qui esposte, nel nostro ordinamento la tutela della riservatezza non comporta una tutela automatica dei diritti delle persone; né possono essere dimenticate, dagli assistenti sociali, le conseguenze giuridiche a cui è quotidianamente sottoposto il loro lavoro. Infatti, gli operatori sociali si confrontano con soggetti che prima di essere qualificati pazienti, per il ruolo che rivestono in una data circostanza, sono e restano titolari, agli effetti di legge, dei diritti della personalità (reputazione e identità personale). La reputazione è l’aspetto oggettivo di qualità personali, come il decoro e la dignità, ma anche di qualità morali, come l’onore. Per cui è possibile che la stessa persona, di cui si garantisce la riservatezza, possa essere diffamata per la rappresentazione oggettiva che attribuisce un danno alla sua reputazione, in spregio alle qualità ed ai valori che la maggior parte della collettività in cui vive gli riconosce[5]. Da tempo (Cass. 22.06.1985, n. 3769) la giurisprudenza della Corte di Cassazione ha configurato il diritto all’identità personale, in virtù dell’art. 2 Cost[6], che la sentenza della Cassazione ha ribadito. Infatti, la Corte sostiene “l’interesse giuridicamente protetto a non vedere travisato o alterato il proprio profilo intellettuale, politico, sociale, religioso, ideologico e professionale” e precisando ancora che “tale diritto trova il suo fondamento nell’art. 2 della Costituzione ed è deducibile, per analogia, dalla disciplina prevista per il diritto al nome”.

 

Pertanto, il disposto normativo degli artt. 22, 23 e 41 della l. n. 675/1996 rientra, senza ombra di dubbio, nell’ambito della tutela alla riservatezza; quindi deve essere ben ponderato dagli assistenti sociali, costituendo una responsabilità unita a quella per il trattamento dei dati sensibili (come, per esempio, le cartelle cliniche dei pazienti). Ciò comporta che, per favorire la corretta ed attuale applicazione dei contenuti della l. n. 675/1996, siano previste disposizioni transitorie, che consentano all’Ufficio dell’autorità di garanzia di applicare la legge con efficacia nel tempo. In sostanza, questo ragionamento porta a considerare che a prescindere dal generale riferimento normativo ai “diritti inviolabili dell’uomo”, di cui all’art. 2 Cost., la riservatezza come bene giuridico autonomo aveva trovato dimora nell’ordinamento solo a seguito di comprovati comportamenti illeciti, tali da delineare una responsabilità del loro autore ai sensi dell’art. 2043 del Codice Civile. Invece, con la l. n. 675/1996 sono stati sanciti una serie di comportamenti che, se integrati, non richiedono alcun accertamento specifico per dimostrare l’eventuale violazione della riservatezza. Allora si può sostenere finalmente che la riservatezza è oggi un bene giuridico autonomo rispetto agli altri beni che esprimono i diritti della personalità (la reputazione e l’identità personale).

 

Per questi motivi, anche l’assistente sociale, così come il medico, si deve attenere ai precetti deontologici, non solo come riferimento etico della professione, ma anche come strumento normativo attraverso cui può essere individuata (e quindi perseguita) la sua responsabilità professionale. Questa responsabilità, infine, è vista nei confronti delle leggi dello Stato e anche in relazione ai diritti fondamentali della personalità del singolo, dei suoi interessi legittimi quale utente nei casi in cui l’assistente sociale è espressione di una pubblica amministrazione.

[1] A questo proposito v. D. BRIELAND, History and evolution of social work practice, in Enciclopedia of social work, National Association of Social Workers, NASW, Silver Spring, Md., USA, 1987.

 

[2] E’ una splendida località denominata “Regole di Malosco”, in provincia di Trento. Essa si trova nell’Alta Anaunia (alta valle di Non – Obernonsthaal), appena dopo il Comune di Ronzone, sulla strada statale n. 43 del Passo Mendola.

 

[3]Fu colui che, già a quel tempo, diede la definizione di “diagnosi”, “prognosi” e di “cartella clinica”. Ancora oggi, nell’Isola di Kos, in Grecia, che gli diede i natali, viene annualmente festeggiato come un medico benefattore; infatti, egli non pretendeva onorari per visitare i pazienti, i quali si sentivano liberi di offrire ciò che ritenevano congruo in cambio della prestazione.

 

[4]Egli pregava dicendo: “Fammi essere soddisfatto di ogni cosa, eccetto della grande scienza della mia professione. Non permettere che nasca in me pensiero di aver raggiunto una conoscenza sufficiente, ma concedimi la forza, la possibilità e l’ambizione di ampliarla sempre più. Perché l’arte è grande, ma la mente dell’uomo è in continua espansione”.

 

[5] Per esempio, desumere che la positività ad un test di HIV sia la risposta ad un comportamento dedito all’uso di stupefacenti o ad un atteggiamento sessuale disinvolto, senza un riscontro o un’ammissione da parte del soggetto, è lesivo della reputazione e dell’identità personale.

 

[6] “La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali, ove si svolge la sua personalità…”