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Art. 93 - Poteri di accesso e accertamento del prefetto

1. Per l’espletamento delle funzioni volte a prevenire infiltrazioni mafiose nei pubblici appalti, il prefetto dispone accessi ed accertamenti nei cantieri delle imprese interessate all’esecuzione di lavori pubblici, avvalendosi, a tal fine, dei gruppi interforze di cui all’articolo 5, comma 3, del decreto del Ministro dell’interno 14 marzo 2003, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 54 del 5 marzo 2004.

2. Ai fini di cui al comma 1 sono imprese interessate all’esecuzione di lavori pubblici tutti i soggetti che intervengono a qualunque titolo nel ciclo di realizzazione dell’opera, anche con noli e forniture di beni e prestazioni di servizi, ivi compresi quelli di natura intellettuale, qualunque sia l’importo dei relativi contratti o dei subcontratti.

3. Al termine degli accessi ed accertamenti disposti dal prefetto, il gruppo interforze redige, entro trenta giorni, la relazione contenente i dati e le informazioni acquisite nello svolgimento dell’attività ispettiva, trasmettendola al prefetto che ha disposto l’accesso.

4. Il prefetto, acquisita la relazione di cui al comma 3, fatta salva l’ipotesi di cui al comma 5, valuta se dai dati

raccolti possano desumersi, in relazione all’impresa oggetto di accertamento e nei confronti dei soggetti che risultano poter determinare in qualsiasi modo le scelte o gli indirizzi dell’impresa stessa, elementi relativi a tentativi di infiltrazione mafiosa di cui all’articolo 84, comma 4 ed all’articolo 91, comma 6. In tal caso, il prefetto emette, entro quindici giorni dall’acquisizione della relazione del gruppo interforze, l’informazione interdittiva, previa eventuale audizione dell’interessato secondo le modalità individuate dal successivo comma 7. (1)

5. Qualora si tratti di impresa avente sede in altra provincia, il prefetto che ha disposto l’accesso trasmette senza ritardo gli atti corredati dalla relativa documentazione al prefetto competente, che provvede secondo le modalità stabilite nel comma 4.

[6. Ai fini dell’adozione degli ulteriori provvedimenti di competenza di altre amministrazioni, dell’informazione è data tempestiva comunicazione, anche in via telematica, a cura del prefetto, ai seguenti soggetti:

a) stazione appaltante;

b) Camera di commercio del luogo ove ha sede l’impresa oggetto di accertamento;

c) prefetto che ha disposto l’accesso;

d) Osservatorio centrale appalti pubblici, presso la direzione investigativa antimafia;

e) Osservatorio dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture istituito presso l’Autorità di vigilanza

sui contratti pubblici, ai fini dell’inserimento nel casellario informatico di cui all’articolo 7, comma 10, del decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163;

f) Ministero delle infrastrutture e dei trasporti;

g) Ministero dello sviluppo economico.] (2)

7. Il  prefetto  competente  all'adozione  dell'informazione, sulla base della documentazione e delle  informazioni  acquisite  nel corso dell'accesso, può invitare in sede di  audizione  personale  i soggetti interessati a produrre  ogni  informazione  ritenuta  utile, anche  allegando  elementi   documentali,   qualora   non   ricorrano particolari esigenze di celerità del procedimento ovvero esigenze di tutela di  informazioni  che,  se  disvelate,  sono  suscettibili  di pregiudicare procedimenti amministrativi o attività  processuali  in corso,  ovvero   l'esito   di   altri   procedimenti   amministrativi finalizzati alla prevenzione delle infiltrazione mafiose. (3)

8. All’audizione di cui al comma 7, si provvede mediante comunicazione formale da inviarsi al responsabile legale dell’impresa, contenente l’indicazione della data e dell’ora e dell’Ufficio della prefettura ove dovrà essere sentito l’interessato ovvero persona da lui delegata.

9. Dell’audizione viene redatto apposito verbale in duplice originale, di cui uno consegnato nelle mani dell’interessato.

10. I dati acquisiti nel corso degli accessi di cui al presente articolo devono essere inseriti a cura della Prefettura della provincia in cui è stato effettuato l’accesso, nel sistema informatico, costituito presso la Direzione investigativa antimafia, previsto dall’articolo 5, comma 4, del citato decreto del Ministro dell’interno in data 14 marzo 2003.

11. Al fine di rendere omogenea la raccolta dei dati di cui al precedente comma su tutto il territorio nazionale, il personale incaricato di effettuare le attività di accesso e accertamento nei cantieri si avvale di apposite schede informative predisposte dalla Direzione investigativa antimafia e da questa rese disponibili attraverso il collegamento telematico di interconnessione esistente con le Prefetture – Uffici Territoriali del Governo.

(1) Comma così modificato dall’ art. 8, comma 1, lett. a), D. LGS. 218/2012.

(2) Comma abrogato dall’ art. 5, comma 1, lett. b), D. LGS. 218/2012.

(3) Comma così sostituito dall'art. 48, comma 1, lettera b) DL 152/2021.

Rassegna di giurisprudenza

Il pericolo di infiltrazione mafiosa deve essere valutato secondo un ragionamento induttivo, di tipo probabilistico, che non richiede di attingere un livello di certezza oltre ogni ragionevole dubbio, tipica dell’accertamento finalizzato ad affermare la responsabilità penale, e quindi fondato su prove, ma implica una prognosi assistita da un attendibile grado di verosimiglianza, sulla base di indizi gravi, precisi e concordanti, sì da far ritenere “più probabile che non”, appunto, il pericolo di infiltrazione mafiosa.

Lo stesso legislatore – art. 84, comma 3, – riconosce quale elemento fondante l’informazione antimafia la sussistenza di «eventuali tentativi» di infiltrazione mafiosa «tendenti a condizionare le scelte e gli indirizzi delle società o imprese interessate».

Eventuali tentativi di infiltrazione mafiosa e tendenza di queste ad influenzare la gestione dell’impresa sono all’evidenza tutte nozioni che delineano una fattispecie di pericolo, propria del diritto della prevenzione, finalizzate, appunto, a prevenire un evento che, per la stessa scelta del legislatore, non necessariamente è attuale, o inveratosi, ma anche solo potenziale, purché desumibile da elementi non meramente immaginari o aleatori. Il pericolo – anche quello di infiltrazione mafiosa – è per definizione la probabilità di un evento e, cioè, l’elevata possibilità e non mera possibilità, la semplice eventualità che esso si verifichi.

Il diritto amministrativo della prevenzione antimafia in questa materia non sanziona perciò fatti, penalmente rilevanti, né reprime condotte illecite, ma mira a scongiurare una minaccia per la sicurezza pubblica, l’infiltrazione mafiosa nell’attività imprenditoriale, e la probabilità che siffatto “evento” si realizzi.

Il pericolo dell’infiltrazione mafiosa, quale emerge dalla legislazione antimafia, non può tuttavia sostanziarsi in un sospetto della P.A. o in una vaga intuizione del giudice, che consegnerebbero questo istituto, pietra angolare del sistema normativo antimafia, ad un diritto della paura, ma deve ancorarsi a condotte sintomatiche e fondarsi su una serie di elementi fattuali, taluni dei quali tipizzati dal legislatore (art. 84, comma 4: si pensi, per tutti, ai cosiddetti. delitti spia), mentre altri, “a condotta libera”, sono lasciati al prudente e motivato apprezzamento discrezionale dell’autorità amministrativa, che “può” – si badi: può – desumere il tentativo di infiltrazione mafiosa, ai sensi dell’art. 91, comma 6, da provvedimenti di condanna non definitiva per reati strumentali all’attività delle organizzazioni criminali «unitamente a concreti elementi da cui risulti che l’attività di impresa possa, anche in modo indiretto, agevolare le attività criminose o esserne in qualche modo condizionata».

Il codice antimafia prevede anche, nell’art. 84, comma 4, lett. d), che gli elementi sintomatici dell’infiltrazione mafiosa, anche al di là di quelli previsti dall’art. 91, comma 6, possano essere desunti anche «dagli accertamenti disposti dal prefetto», come è accaduto nel caso di specie.

Non è richiesto che siffatti accertamenti siano consistiti necessariamente nell’accesso ai cantieri, in quanto l’art. 84, comma 4, lett. d), prevede che gli accertamenti disposti dal Prefetto possano essere i più vari, «anche» avvalendosi dei poteri di accesso delegati dal Ministro dell’Interno, ai sensi del DL 6/1982 convertito con modifiche nella L. 726/1982, o di quelli di cui all’art. 93, e dunque possano consistere anche nella sola acquisizione delle relazioni dalle Forze di polizia, poi esaminate dal Gruppo interforze e dallo stesso Prefetto (v. anche art. 93, comma 4 e comma 7, ove si parla genericamente, infatti, «della documentazione e delle informazioni acquisite»).

Non si ignora che voci fortemente critiche si sono levate rispetto alla presunta indeterminatezza dei presupposti normativi che legittimano l’emissione dell’informazione antimafia, soprattutto dopo la recente pronuncia della Corte europea dei diritti dell’uomo del 23 febbraio 2017, ric. n. 43395/09, nel caso De Tommaso c. Italia, riguardante le misure di prevenzione personali, e taluni autori, nel preconizzare l’”onda lunga” di questa pronuncia anche nella contigua materia della documentazione antimafia, hanno fatto rilevare come anche l’informazione antimafia “generica”, nelle ipotesi dell’art. 84, comma 4, lett. d) ed e), (accertamenti disposti dal Prefetto da compiersi anche avvalendosi dei poteri di accesso), sconterebbe un deficit di tipicità non dissimile da quello che, secondo i giudici di Strasburgo, affligge l’art. 1, lett. a) e b).

Si è osservato che l’assoluta indeterminatezza delle condizioni che possono consentire al Prefetto di emettere una informazione antimafia “generica”, in tali ipotesi di non meglio determinati accertamenti disposti dal Prefetto, apparirebbe poco sostenibile in un ordinamento democratico che rifugga dagli antichi spettri del diritto di polizia o dalle “pene” del sospetto e voglia ancorare qualsiasi provvedimento restrittivo di diritti fondamentali a basi legali precise e predeterminate.

L’art. 84, comma 4, lett. d) ed e) – ma con un ragionamento applicabile anche alla seconda parte dell’art. 91, comma 6, dello stesso codice, laddove si riferisce a non meglio precisati «concreti elementi» – non contemplerebbe, secondo tale tesi, alcun parametro oggettivo, anche il più indeterminato, che possa in qualche modo definire il margine di apprezzamento discrezionale del Prefetto, rendendo del tutto imprevedibile la possibile adozione della misura.

Si ritiene che questa tesi non possa essere seguita e che, ferma restando ovviamente, se del caso, ogni competenza del giudice europeo per l’applicazione del diritto convenzionale e, rispettivamente, della Corte costituzionale per l’applicazione delle disposizioni costituzionali, non sia prospettabile alcuna violazione dell’art. 1, Protocollo 1 addizionale, CEDU, con riferimento al diritto di proprietà, e, per il tramite di tale parametro interposto, nessuna violazione dell’art. 117 Cost. per la mancanza di una adeguata base legale atta ad evitare provvedimenti arbitrari.

Anche gli accertamenti disposti dal Prefetto, nella stessa provincia in cui ha sede l’impresa o in un’altra, sono finalizzati, infatti, a ricercare elementi dai quali possa desumersi, ai sensi dell’art. 84, comma 3, (v. anche art. 91, comma 4), «eventuali tentativi di infiltrazione mafiosa tendenti a condizionare le scelte e gli indirizzi delle società o imprese interessate» e tali tentativi, per la loro stessa natura, possono essere desunti da situazioni fattuali difficilmente enunciabili a priori in modo tassativo.

Nella stessa sentenza De Tommaso c. Italia, sopra ricordata, la Corte europea dei diritti dell’uomo ha rammentato, in via generale, che «mentre la certezza è altamente auspicabile, può portare come strascico una eccessiva rigidità e la legge deve essere in grado di tenere il passo con il mutare delle circostanze», conseguendone che «molte leggi sono inevitabilmente formulate in termini che, in misura maggiore o minore, sono vaghi e la cui interpretazione e applicazione sono questioni di pratica» (§ 107), e ha precisato altresì che «una legge che conferisce una discrezionalità deve indicare la portata di tale discrezionalità» (§ 108).

Ora non si può negare che la legge italiana, nell’ancorare l’emissione del provvedimento interdittivo antimafia all’esistenza di tentativi di infiltrazione mafiosa, come si è visto, abbia fatto ricorso, inevitabilmente, ad una clausola generale, aperta, che, tuttavia, non costituisce una “norma in bianco” né una delega all’arbitrio dell’autorità amministrativa imprevedibile per il cittadino, e insindacabile per il giudice, anche quando il Prefetto non fondi la propria valutazione su elementi “tipizzati” (quelli dell’art. 84, comma 4, lett. a), b), c) ed f)), ma su elementi riscontrati in concreto di volta in volta con gli accertamenti disposti, poiché il pericolo di infiltrazione mafiosa costituisce, sì, il fondamento, ma anche il limite del potere prefettizio e, quindi, demarca, per usare le parole della Corte europea, anche la portata della sua discrezionalità, da intendersi qui non nel senso, tradizionale e ampio, di ponderazione comparativa di un interesse pubblico primario rispetto ad altri interessi, ma in quello, più moderno e specifico, di equilibrato apprezzamento del rischio infiltrativo in chiave di prevenzione secondo corretti canoni di inferenza logica.

L’annullamento di qualsivoglia discrezionalità nel senso appena precisato in questa materia, che postula la tesi in parola (sostenuta, invero, da autorevoli studiosi del diritto penale e amministrativo), prova troppo, del resto, perché l’ancoraggio dell’informazione antimafia a soli elementi tipici, prefigurati dal legislatore, ne farebbe un provvedimento vincolato, fondato, sul versante opposto, su inammissibili automatismi o presunzioni ex lege e, come tale, non solo inadeguato rispetto alla specificità della singola vicenda, proprio in una materia dove massima deve essere l’efficacia adeguatrice di una norma elastica al caso concreto, ma deresponsabilizzante per la stessa autorità amministrativa.

Quest’ultima invece, anzitutto in ossequio dei principio di imparzialità e buon andamento contemplati dall’art. 97 Cost. e nel nome di un principio di legalità sostanziale declinato in senso forte, è chiamata, esternando compiutamente le ragioni della propria valutazione nel provvedimento amministrativo, a verificare che gli elementi fattuali, anche quando “tipizzati” dal legislatore, non vengano assunti acriticamente a sostegno del provvedimento interdittivo, ma siano dotati di individualità, concretezza ed attualità, per fondare secondo un corretto canone di inferenza logica la prognosi di permeabilità mafiosa, in base ad una struttura bifasica (diagnosi dei fatti rilevanti e prognosi di permeabilità criminale) non dissimile, in fondo, da quella che il giudice penale compie per valutare gli elementi posti a fondamento delle misure di sicurezza personali, lungi da qualsiasi inammissibile automatismo presuntivo, come la Suprema Corte di recente ha chiarito (SU, 111/2018).

Il GA è, a sua volta, chiamato a valutare la gravità del quadro indiziario, posto a base della valutazione prefettizia in ordine al pericolo di infiltrazione mafiosa, e il suo sindacato sull’esercizio del potere prefettizio, con un pieno accesso ai fatti rivelatori del pericolo, consente non solo di sindacare l’esistenza o meno di questi fatti, che devono essere gravi, precisi e concordanti, ma di apprezzare la ragionevolezza e la proporzionalità della prognosi inferenziale che l’autorità amministrativa trae da quei fatti secondo un criterio che, necessariamente, è probabilistico per la natura preventiva, e non sanzionatoria, della misura in esame. Il sindacato per eccesso di potere sui vizi della motivazione del provvedimento amministrativo, anche quando questo rimandi per relationem agli atti istruttori, scongiura il rischio che la valutazione del Prefetto divenga, appunto, una “pena del sospetto” e che la portata della discrezionalità amministrativa in questa materia, necessaria per ponderare l’esistenza del pericolo infiltrativo in concreto, sconfini nel puro arbitrio.

La funzione di “frontiera avanzata” svolta dall’informazione antimafia nel continuo confronto tra Stato e anti–Stato impone, a servizio delle Prefetture, un uso di strumenti, accertamenti, collegamenti, risultanze, necessariamente anche atipici come atipica, del resto, è la capacità, da parte delle mafie, di perseguire i propri fini. E solo di fronte ad un fatto inesistente od obiettivamente non sintomatico il campo valutativo del potere prefettizio, in questa materia, deve arrestarsi.

Negare però in radice che il Prefetto possa valutare elementi “atipici”, dai quali trarre il pericolo di infiltrazione mafiosa, vuol dire annullare qualsivoglia efficacia alla legislazione antimafia e neutralizzare, in nome di una astratta e aprioristica concezione di legalità formale, proprio la sua decisiva finalità preventiva di contrasto alla mafia, finalità che, per usare ancora le parole della Corte europea dei diritti dell’uomo nella sentenza De Tommaso c. Italia, consiste anzitutto nel «tenere il passo con il mutare delle circostanze» secondo una nozione di legittimità sostanziale.

Ma, come è stato recentemente osservato anche dalla giurisprudenza penale, il sistema delle misure di prevenzione è stato ritenuto dalla stessa Corte europea in generale compatibile con la normativa convenzionale poiché «il presupposto per l’applicazione di una misura di prevenzione è una “condizione” personale di pericolosità, la quale è desumibile da più fatti, anche non costituenti illecito, quali le frequentazioni, le abitudini di vita, i rapporti, mentre il presupposto tipico per l’applicazione di una sanzione penale è un fatto–reato accertato secondo le regole tipiche del processo penale» (Cass. pen., Sez. 2, 30974/2018).

La giurisprudenza amministrativa ha così enucleato – in modo sistematico a partire dalla sentenza n. 1743 del 3 maggio 2016 e con uno sforzo “tassativizzante” – le situazioni indiziarie, tratte dalle indicazioni legislative o dalla casistica giurisprudenziale, che possono costituire altrettanti “indici” o “spie” dell’infiltrazione mafiosa, non senza precisare che esse, per la loro stessa necessaria formulazione aperta, costituiscono un catalogo aperto e non già un numerus clausus in modo da poter consentire all’ordinamento di poter contrastare efficacemente l’infiltrazione mafiosa all’interno dell’impresa via via che essa assume forme sempre nuove e sempre mutevoli.

Basti qui ricordare a mo’ di esempio, nell’ambito di questa ormai consolidata e pur sempre perfettibile tipizzazione giurisprudenziale, le seguenti ipotesi, molte delle quali tipizzate, peraltro, in forma precisa e vincolata dal legislatore stesso: a) i provvedimenti “sfavorevoli” del giudice penale; b) le sentenze di proscioglimento o di assoluzione, da cui pure emergano valutazioni del giudice competente su fatti che, pur non superando la soglia della punibilità penale, sono però sintomatici della contaminazione mafiosa, nelle multiformi espressioni con le quali la continua evoluzione dei metodi mafiosi si manifesta; c) la proposta o il provvedimento di applicazione di taluna delle misure di prevenzione previste dallo stesso d. lgs. n. 159 del 2011; d) i rapporti di parentela, laddove assumano una intensità tale da far ritenere una conduzione familiare e una “regia collettiva” dell’impresa, nel quadro di usuali metodi mafiosi fondati sulla regia “clanica”, in cui il ricambio generazionale mai sfugge al “controllo immanente” della figura del patriarca, capofamiglia, ecc., a seconda dei casi; e) i contatti o i rapporti di frequentazione, conoscenza, colleganza, amicizia; f) le vicende anomale nella formale struttura dell’impresa; g) le vicende anomale nella concreta gestione dell’impresa, incluse le situazioni, recentemente evidenziate, in cui la società compie attività di strumentale pubblico sostegno a iniziative, campagne, o simili, antimafia, antiusura, antiriciclaggio, allo scopo di mostrare un “volto di legalità” idoneo a stornare sospetti o elementi sostanziosi sintomatici della contaminazione mafiosa; h) la condivisione di un sistema di illegalità, volto ad ottenere i relativi “benefici”; i) l’inserimento in un contesto di illegalità o di abusivismo, in assenza di iniziative volte al ripristino della legalità.

Deve comunque essere qui riaffermato, e con forza, che il sistema della prevenzione amministrativa antimafia non costituisce e non può costituire, in uno Stato di diritto democratico, un diritto della paura, perché deve rispettare l’irrinunciabile principio di legalità, non solo in senso formale ma anche sostanziale, sicché il giudice amministrativo, chiamato a sindacare il corretto esercizio del potere prefettizio nel prevenire l’infiltrazione mafiosa, deve farsi attento custode delle irrinunciabili condizioni di tassatività sostanziale e di tassatività processuale di questo potere per una tutela giurisdizionale piena ed effettiva di diritti aventi rango costituzionale, come quello della libera iniziativa imprenditoriale (art. 41 Cost.), nel necessario, ovvio, bilanciamento con l’altrettanto irrinunciabile, vitale, interesse dello Stato a contrastare l’insidia delle mafie.

La libertà “dalla paura”, obiettivo al quale devono tendere gli Stati democratici, si realizza anche, e in parte rilevante, smantellando le reti e le gabbie che le mafie costruiscono, a scapito dei cittadini, delle imprese e talora anche degli organi elettivi delle amministrazioni locali, imponendo la legge del potere criminale sul potere democratico, garantito e, insieme, incarnato dalla legge dello Stato, per perseguire fini illeciti e conseguire illeciti profitti.

Al delicato bilanciamento raggiunto dall’interpretazione non osta nemmeno l’orientamento assunto dalla Corte costituzionale nelle recenti sentenze n. 24 del 27 febbraio 2019 e n. 195 del 24 luglio 2019, orientamento di cui, per la sua importanza sistematica anche nella materia della documentazione antimafia, occorre dare qui conto. Come ha ben posto in rilievo la Corte costituzionale nella sentenza 24/2019, infatti, allorché si versi – come nel caso di specie – al di fuori della materia penale, non può del tutto escludersi che l’esigenza di predeterminazione delle condizioni in presenza delle quali può legittimamente limitarsi un diritto costituzionalmente e convenzionalmente protetto possa essere soddisfatta anche sulla base «dell’interpretazione, fornita da una giurisprudenza costante e uniforme, di disposizioni legislative pure caratterizzate dall’uso di clausole generali, o comunque da formule connotate in origine da un certo grado di imprecisione».

Essenziale – nell’ottica costituzionale così come in quella convenzionale (v., ex multis, Corte europea dei diritti dell’uomo, sezione quinta, sentenza 26 novembre 2011, Gochev c. Bulgaria; Corte europea dei diritti dell’uomo, sezione prima, sentenza 4 giugno 2002, Oliveira c. Paesi Bassi; Corte europea dei diritti dell’uomo, sezione prima, sentenza 20 maggio 2010, Lelas c. Croazia) – è, infatti, che tale interpretazione giurisprudenziale sia in grado di porre la persona potenzialmente destinataria delle misure limitative del diritto in condizioni di poter ragionevolmente prevedere l’applicazione della misura stessa.

Né elementi di segno diverso sul piano della tassatività sostanziale, per di più, si traggono dalla ancor più recente sentenza 195/2019, con cui la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale l’art. 28, comma 1, DL 113/2018, che aveva inserito il comma 7–bis nell’art. 143 del TUEL, laddove la Corte costituzionale ha rilevato che, mentre per l’attivazione del potere di scioglimento del Consiglio comunale o provinciale occorre che gli elementi in ordine a collegamenti diretti o indiretti con la criminalità organizzata di tipo mafioso, raggiungano un livello di coerenza e significatività tali da poterli qualificare come «concreti, univoci e rilevanti» (art. 143, comma 1, TUEL), invece, quanto alle «condotte illecite gravi e reiterate», di cui al comma 7–bis censurato avanti alla Corte, è sufficiente che risultino mere «situazioni sintomatiche», sicché il presupposto positivo del potere sostitutivo prefettizio «è disegnato dalla disposizione censurata in termini vaghi, ampiamente discrezionali e certamente assai meno definiti di quelli del potere governativo di scioglimento dei Consigli comunali e provinciali, pur essendo il primo agganciato a quest’ultimo come occasionale appendice procedimentale».

Non è questo il caso, invece, dell’informazione antimafia, anche quella emessa ai sensi dell’art. 84, comma 4, lett. d) ed e), poiché gli elementi di collegamento con la criminalità organizzata di tipo mafioso devono essere sempre concreti, univoci e rilevanti, come la giurisprudenza amministrativa ha costantemente chiarito.

Anzi proprio la sentenza 195/2019 della Corte costituzionale sembra confermare sul piano sistematico, a contrario, che l’infiltrazione mafiosa ben possa fondarsi su elementi gravi, precisi e concordanti, dotati di coerenza e significatività, quali enucleati dalla giurisprudenza di questo Consiglio, sì che venga soddisfatto il principio, fondamentale in ogni Stato di diritto come il nostro, secondo cui ogni potere amministrativo deve essere «determinato nel contenuto e nelle modalità, in modo da mantenere costantemente una, pur elastica, copertura legislativa dell’azione amministrativa», per usare le parole della Corte costituzionale. 

Si ritiene dunque che siano così soddisfatte le condizioni di tassatività sostanziale, richieste dal diritto convenzionale e dal diritto costituzionale interno, e indefettibili anche per la delicatissima materia delle informazioni antimafia a tutela di diritti fondamentali, come la Corte EDU e la Corte costituzionale nella propria costante giurisprudenza ribadiscono. La tassatività sostanziale, come appena ricordato nella citazione della giurisprudenza costituzionale, ben si concilia con la definita (dalla stessa Corte costituzionale) «elasticità della copertura legislativa», giacché, come sopra detto, nella prevenzione antimafia lo Stato deve assumere almeno la stessa flessibilità nelle azioni e la stessa rapida adattabilità nei metodi, che le mafie dimostrano nel contesto attuale.

Parimenti si ritiene che il criterio del “più probabile che non” soddisfi, a sua volta, le indeclinabili condizioni di tassatività processuale, pure menzionate dalla Corte costituzionale nella sentenza 24/2019, afferenti alle modalità di accertamento probatorio in giudizio e, cioè, al quomodo della prova e «riconducibili a differenti parametri costituzionali e convenzionali […] tra cui, in particolare, il diritto di difesa di cui all’art. 24 Cost. e il diritto a un “giusto processo” ai sensi, assieme, dell’art. 111 Cost. e dall’art. 6 CEDU […] di fondamentale importanza al fine di assicurare la legittimità costituzionale del sistema delle misure di prevenzione» (Corte costituzionale, 24/2019).

Lo standard probatorio sotteso alla regola del “più probabile che non”, nel richiedere la verifica della cosiddetta probabilità cruciale, impone infatti di ritenere, sul piano della tassatività processuale, più probabile l’ipotesi dell’infiltrazione mafiosa rispetto a “tutte le altre messe insieme”, nell’apprezzamento degli elementi indiziari posti a base del provvedimento prefettizio, che attingono perciò una soglia di coerenza e significatività dotata di una credibilità razionale superiore a qualsivoglia altra alternativa spiegazione logica, laddove l’esistenza di spiegazioni divergenti, fornite di un qualche elemento concreto, implicherebbe un ragionevole dubbio, non richiedendosi infatti, in questa materia, l’accertamento di una responsabilità che superi qualsivoglia ragionevole dubbio, tipico delle istanze penali, né potendo quindi traslarsi ad essa, impropriamente, le categorie tipiche del diritto e del processo penale, che ne frustrerebbero irrimediabilmente la funzione preventiva.

Non sembra quindi necessario rimettere la questione all’Adunanza plenaria. Ciò che connota la regola probatoria del “più probabile che non” non è un diverso procedimento logico, va del resto qui ricordato, ma la (minore) forza dimostrativa dell’inferenza logica, sicché, in definitiva, l’interprete è sempre vincolato a sviluppare un’argomentazione rigorosa sul piano metodologico, «ancorché sia sufficiente accertare che l’ipotesi intorno a quel fatto sia più probabile di tutte le altre messe insieme, ossia rappresenti il 50% + 1 di possibilità, ovvero, con formulazione più appropriata, la c.d. probabilità cruciale».

E si sono già illustrate le ragioni per le quali a questa materia, sul piano della c.d. tassatività processuale, non è legittimo applicare le regole probatorie del giudizio penale, dove ben altri e differenti sono i beni di rilievo costituzionali a venire in gioco, e in particolare i criterî di accertamento, propri del giudizio dibattimentale, e la regola dell’oltre ogni ragionevole dubbio, tipica inferenza logica che, se applicata al diritto della prevenzione, imporrebbe alla P.A. una probatio diabolica, come si è osservato in dottrina, in quanto, se intesa in senso assoluto, richiederebbe di falsificare ogni ipotesi contraria e, se intesa in senso relativo (secondo il modello dell’abduzione pura, che implica l’assunzione di una ipotesi che va corroborata alla luce degli specifici riscontri probatori), richiederebbe alla pubblica amministrazione uno sforzo istruttorio sproporzionato rispetto alla finalità del suo potere e ai mezzi di cui è dotata per esercitarlo.

Le preoccupazioni, espresse dalla dottrina e da una parte minoritaria della giurisprudenza amministrativa, circa la tenuta costituzionale della prevenzione antimafia sono agevolmente superabili, per gli argomenti già esposti in merito all’istituto dell’informazione antimafia, ma anche ricorrendo al criterio dell’interpretazione sistematica, cui il giudice ben può ricorrere per valutare i profili applicativi e interpretativi di un istituto, esaminandone la coerenza con il sistema normativo in cui esso è inserito (Cons. Stato, Sez. 3, 6105/2019).