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Art. 696-ter - Tutela dei diritti fondamentali della persona nel mutuo riconoscimento

1. L’autorità giudiziaria provvede al riconoscimento e all’esecuzione se non sussistono fondate ragioni per ritenere che l’imputato o il condannato verrà sottoposto ad atti che configurano una grave violazione dei principi fondamentali dell’ordinamento giuridico dello Stato, dei diritti fondamentali della persona riconosciuti dall’articolo 6 del Trattato sull’Unione europea o dei diritti, delle libertà e dei principi sanciti nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea.

 

Rassegna giurisprudenziale

Tutela dei diritti fondamentali della persona nel mutuo riconoscimento (art. 696-ter)

Il principio del mutuo riconoscimento su cui si fonda il sistema del MAE si basa esso stesso sulla fiducia reciproca tra gli Stati membri circa il fatto che i rispettivi ordinamenti giuridici nazionali sono in grado di fornire una tutela equivalente ed effettiva dei diritti fondamentali, riconosciuti a livello dell’Unione, in particolare nella CDFUE.

Tanto il principio della fiducia reciproca tra gli Stati membri quanto il principio del mutuo riconoscimento, nel diritto dell’Unione, rivestono un’importanza fondamentale, dato che consentono la creazione e il mantenimento di uno spazio senza frontiere interne.

Più specificamente, il principio della fiducia reciproca impone a ciascuno di detti Stati, segnatamente per quanto riguarda lo spazio di libertà, di sicurezza e di giustizia, di ritenere, tranne in circostanze eccezionali, che tutti gli altri Stati membri rispettino il diritto dell’Unione e, più in particolare, i diritti fondamentali riconosciuti da quest’ultimo.

Nell’ambito disciplinato dalla decisione quadro, il principio del mutuo riconoscimento, che costituisce, come emerge segnatamente dal considerando 6 della decisione quadro (Decisione quadro 2002/584/GAI, 13 giugno 2002, relativa al mandato d’arresto europeo e alle procedure di consegna tra Stati membri - NDA), il «fondamento» della cooperazione giudiziaria in materia penale, implica, a norma dell’articolo 1, paragrafo 2, della decisione quadro, che gli Stati membri sono tenuti, in linea di principio, a dar corso a un mandato d’arresto europeo.

Ne consegue che l’AG di esecuzione può rifiutarsi di dare esecuzione a un siffatto mandato soltanto nei casi, tassativamente elencati, di non esecuzione obbligatoria, previsti dall’articolo 3 della decisione quadro, o di non esecuzione facoltativa previsti dagli articoli 4 e 4 bis della decisione quadro. Inoltre, l’esecuzione del mandato d’arresto europeo può essere subordinata unicamente a una delle condizioni tassativamente previste dall’articolo 5 della decisione quadro.

In tale contesto, occorre notare che il considerando 10 della decisione quadro stabilisce che l’attuazione del meccanismo del mandato d’arresto europeo può essere sospesa solo in caso di grave e persistente violazione da parte di uno Stato membro dei valori contemplati dall’articolo 2 TUE, e in conformità con il procedimento previsto dall’articolo 7 TUE.

Resta nondimeno il fatto che, da un lato, la Corte ha ammesso che limitazioni ai principi di riconoscimento e di fiducia reciproci tra Stati membri possono essere apportate «in circostanze eccezionali». Dall’altro, come emerge dal suo articolo 1, paragrafo 3, l’obbligo di rispettare i diritti fondamentali quali sanciti segnatamente dalla CDFUE non può essere modificato per effetto della decisione quadro.

A tal riguardo, va sottolineato che il rispetto dell’articolo 4 CDFUE, relativo al divieto di pene e di trattamenti inumani o degradanti, si impone, come emerge dal suo articolo 51, paragrafo 1, agli Stati membri e, di conseguenza, ai loro organi giurisdizionali nell’attuazione del diritto dell’Unione, il che avviene quando l’AG emittente e l’AG di esecuzione applicano le disposizioni nazionali adottate in esecuzione della decisione quadro.

Per quanto riguarda il divieto di pene o di trattamenti inumani o degradanti, di cui all’articolo 4 CDFUE, esso ha carattere assoluto in quanto è strettamente connesso al rispetto della dignità umana, di cui all’articolo 1 della CDFUE. Il carattere assoluto del diritto garantito dall’articolo 4 CDFUE è confermato dall’articolo 3 CEDU, cui corrisponde suddetto articolo 4 CDFUE. Invero, come emerge dall’articolo 15, paragrafo 2, CEDU, non è possibile alcuna deroga all’articolo 3 CEDU.

Gli articoli 1 e 4 CDFUE, nonché l’articolo 3 CEDU, sanciscono uno dei valori fondamentali dell’Unione e dei suoi Stati membri. Per tale ragione, in ogni circostanza, anche in caso di lotta al terrorismo e al crimine organizzato, la CEDU vieta in termini assoluti la tortura e le pene e i trattamenti inumani o degradanti, qualunque sia il comportamento dell’interessato.

Ne consegue che, quando l’AG dello Stato membro d’esecuzione dispone di elementi che attestano un rischio concreto di trattamento inumano o degradante dei detenuti nello Stato membro emittente, tenuto conto del livello di tutela dei diritti fondamentali garantito dal diritto dell’Unione e, in particolare, dall’articolo 4 CDFUE, essa è tenuta a valutare la sussistenza di tale rischio quando decide in ordine alla consegna alle autorità dello Stato membro emittente della persona colpita da un mandato d’arresto europeo. Invero, l’esecuzione di un siffatto mandato non può condurre a un trattamento inumano o degradante di tale persona.

A al fine, l’AG di esecuzione deve, anzitutto, fondarsi su elementi oggettivi, attendibili, precisi e opportunamente aggiornati sulle condizioni di detenzione vigenti nello Stato membro emittente e comprovanti la presenza di carenze vuoi sistemiche o generalizzate, vuoi che colpiscono determinati gruppi di persone, vuoi ancora che colpiscono determinati centri di detenzione.

Tali elementi possono risultare in particolare da decisioni giudiziarie internazionali, quali le sentenze della Corte EDU, da decisioni giudiziarie dello Stato membro emittente, nonché da decisioni, relazioni e altri documenti predisposti dagli organi del Consiglio d’Europa o appartenenti al sistema delle Nazioni Unite.

Tuttavia, l’accertamento della sussistenza di un rischio concreto di trattamento inumano o degradante dovuto alle condizioni generali di detenzione nello Stato membro emittente, di per sé, non può condurre al rifiuto di dare esecuzione a un mandato d’arresto europeo.

Infatti, una volta accertata la sussistenza di tale rischio, è poi anche necessario che l’AG di esecuzione valuti, in modo concreto e preciso, se sussistono motivi gravi e comprovati di ritenere che l’interessato corra tale rischio a causa delle condizioni di detenzione previste nei suoi confronti nello Stato membro emittente.

La mera sussistenza di elementi che attestino carenze vuoi sistemiche o generalizzate, vuoi che colpiscono determinati gruppi di persone, vuoi ancora che colpiscono determinati centri di detenzione nello Stato membro emittente, infatti, non comporta necessariamente che, in un caso concreto, l’interessato venga sottoposto a un trattamento inumano o degradante in caso di consegna alle autorità di tale Stato membro.

Di conseguenza, per garantire il rispetto dell’articolo 4 CDFUE nel singolo caso della persona oggetto del mandato d’arresto europeo, l’AG di esecuzione, a fronte di elementi oggettivi, attendibili, precisi e opportunamente aggiornati comprovanti l’esistenza di siffatte carenze, è tenuta a verificare se, nelle circostanze della fattispecie, sussistano motivi gravi e comprovati di ritenere che, in seguito alla sua consegna allo Stato membro emittente, tale persona corra un rischio concreto di essere sottoposta nello Stato membro di cui trattasi a un trattamento inumano o degradante, ai sensi dell’articolo in parola.

A tal fine, a norma dell’articolo 15, paragrafo 2, della decisione quadro detta autorità deve chiedere all’AG dello Stato membro emittente di fornire con urgenza qualsiasi informazione complementare necessaria per quanto riguarda le condizioni di detenzione previste nei confronti dell’interessato in tale Stato membro. Tale richiesta può anche riguardare l’esistenza, nello Stato membro emittente, di eventuali procedimenti e meccanismi nazionali o internazionali di controllo delle condizioni di detenzione connessi, ad esempio, a visite negli istituti penitenziari, che consentano di valutare lo stato attuale delle condizioni di detenzione in predetti istituti.

A norma dell’articolo 15, paragrafo 2, della decisione quadro, l’AG di esecuzione può fissare un termine ultimo per la ricezione delle informazioni complementari richieste all’AG emittente. Tale termine deve essere adattato al caso di specie, al fine di lasciare a quest’ultima autorità il tempo necessario per raccogliere dette informazioni, se necessario ricorrendo a tal fine all’assistenza dell’autorità centrale o di una delle autorità centrali dello Stato membro emittente, a norma dell’articolo 7 della decisione quadro.

In forza dell’articolo 15, paragrafo 2, della decisione quadro, detto termine deve tuttavia tener conto della necessità di rispettare i termini fissati dall’articolo 17 della medesima decisione quadro. L’AG emittente è tenuta a fornire tali informazioni all’AG di esecuzione.

Se, tenuto conto delle informazioni fornite in forza dell’articolo 15, paragrafo 2, della decisione quadro, nonché di qualunque altra informazione in possesso dell’AG di esecuzione, l’autorità di cui trattasi accerta che sussiste, rispetto alla persona oggetto del mandato d’arresto europeo, un rischio concreto di trattamento inumano o degradante, quale indicato al punto 94 della presente sentenza, l’esecuzione del mandato in parola deve essere rinviata ma non può essere abbandonata.

Qualora detta autorità decida un siffatto rinvio, lo Stato membro di esecuzione ne informa l’Eurojust, conformemente all’articolo 17, paragrafo 7, della decisone quadro, precisando i motivi del ritardo. Inoltre, in forza di tale disposizione, uno Stato membro che ha subito ritardi ripetuti nell’esecuzione di mandati d’arresto europei da parte di un altro Stato membro per motivi indicati al punto precedente, ne informa il Consiglio affinché sia valutata l’attuazione della decisione quadro a livello degli Stati membri.

Peraltro, conformemente all’articolo 6 CDFUE, l’AG di esecuzione può decidere di mantenere l’interessato in stato di detenzione soltanto a condizione che il procedimento di esecuzione del mandato d’arresto europeo sia stato condotto con sufficiente diligenza e, pertanto, che la durata della detenzione non risulti eccessiva. Per quanto riguarda le persone oggetto di un MAE ai fini dell’esercizio dell’azione penale, tale autorità deve tenere debitamente conto del principio della presunzione d’innocenza garantito dall’articolo 48 CDFUE.

A tal riguardo, l’AG di esecuzione deve rispettare il requisito della proporzionalità, previsto dall’articolo 52, paragrafo 1, CDFUE, quanto alla limitazione di qualsiasi diritto o libertà riconosciuti da quest’ultima. Infatti, l’emissione di un MAE non può giustificare il protrarsi della detenzione dell’interessato senza alcun limite temporale.

In ogni caso, laddove l’AG di esecuzione concluda, in esito all’esame menzionato ai punti 100 e 101 della presente sentenza, di essere tenuta a porre fine alla detenzione del ricercato, spetta allora alla medesima, in forza degli articoli 12 e 17, paragrafo 5, della decisione quadro, disporre, unitamente al rilascio provvisorio di tale persona, qualsiasi misura da essa ritenuta necessaria per evitare che quest’ultima si dia alla fuga e assicurarsi che permangano le condizioni materiali necessarie alla sua effettiva consegna fintantoché non venga adottata una decisione definitiva sull’esecuzione del MAE.

Nell’ipotesi in cui le informazioni ricevute dall’AG di esecuzione da parte dell’AG emittente inducano ad escludere la sussistenza di un rischio concreto che l’interessato sia oggetto di un trattamento inumano o degradante nello Stato membro emittente, l’AG di esecuzione deve adottare, entro i termini fissati dalla decisione quadro, la propria decisione sull’esecuzione del mandato d’arresto europeo, fatta salva la possibilità per l’interessato, una volta consegnato, di esperire nell’ordinamento giuridico dello Stato membro emittente i mezzi di ricorso che gli consentono di contestare, se del caso, la legalità delle sue condizioni detentive in un istituto penitenziario di tale Stato membro.

Da tutte le considerazioni che precedono discende che occorre rispondere alle questioni poste dichiarando che gli articoli 1, paragrafo 3, 5 e 6, paragrafo 1, della decisione quadro devono essere interpretati nel senso che, in presenza di elementi oggettivi, attendibili, precisi e opportunamente aggiornati comprovanti la presenza di carenze vuoi sistemiche o generalizzate, vuoi che colpiscono determinati gruppi di persone, vuoi ancora che colpiscono determinati centri di detenzione per quanto riguarda le condizioni di detenzione nello Stato membro emittente, l’AG di esecuzione deve verificare, in modo concreto e preciso, se sussistono motivi seri e comprovati di ritenere che la persona colpita da un mandato d’arresto europeo emesso ai fini dell’esercizio dell’azione penale o dell’esecuzione di una pena privativa della libertà, a causa delle condizioni di detenzione in tale Stato membro, corra un rischio concreto di trattamento inumano o degradante, ai sensi dell’articolo 4 CDFUE, in caso di consegna al suddetto Stato membro.

A tal fine, essa deve chiedere la trasmissione di informazioni complementari all’AG emittente, la quale, dopo avere richiesto, ove necessario, l’assistenza dell’autorità centrale o di una delle autorità centrali dello Stato membro emittente ai sensi dell’articolo 7 della decisione quadro, deve trasmettere tali informazioni entro il termine fissato nella suddetta domanda. L’AG di esecuzione deve rinviare la propria decisione sulla consegna dell’interessato fino all’ottenimento delle informazioni complementari che le consentano di escludere la sussistenza di siffatto rischio.

Qualora la sussistenza di siffatto rischio non possa essere esclusa entro un termine ragionevole, tale autorità deve decidere se occorre porre fine alla procedura di consegna (CGUE, Grande sezione, 5 aprile 2016, Aranyosi e Căldăraru, in cause riunite C-404/15 e C-659/15).

La giurisprudenza di legittimità ha più volte affermato, in relazione alla procedura di consegna verso Stati, come la Romania, le cui condizioni carcerarie risultino - sulla base di elementi oggettivi, attendibili, precisi e opportunamente aggiornati - affette da gravi carenze sistemiche o generalizzate, che è necessario accertare la sussistenza di un rischio concreto di trattamento inumano e degradante in ordine al regime carcerario riservato alla persona richiesta in consegna.

Come ha chiarito la Corte di Giustizia dell’Unione europea (sent. 05/04/2016, Aranyosi e Caldàraru, C-404/15 e C-659/15 PPU, § 95 e ss.), tale accertamento supplementare, che va condotto richiedendo con urgenza allo Stato membro emittente tutte le informazioni necessarie, deve avere carattere “concreto e preciso”, nel senso che deve riguardare le specifiche condizioni di detenzione previste per l’interessato.

Nel motivo di ricorso, invero, è stata prospettata la grave situazione delle carceri rumene e si è osservato come sulla base di plurimi indici, primariamente rappresentati dalle numerose sentenze di condanna della Corte di Strasburgo, dovesse ravvisarsi una situazione di carenza strutturale, tale da esporre i detenuti al concreto rischio di trattamenti inumani e degradanti.

Per quanto il tema sia stato dedotto solo in sede di legittimità, a fronte di un onere di allegazione che in via generale grava sulla parte interessata, deve nondimeno rilevarsi che è stata rappresentata una situazione oggettiva, desumibile da dati conoscitivi ineludibili, che devono dunque formare oggetto di analisi e di verifica, quale primaria garanzia posta dalla disciplina dettata in materia di MAE (Sez. 6, 8529/2017).

Sotto tale profilo, dalle numerose sentenze di condanna pronunciate nei confronti della Romania dalla Corte EDU, si evince che il problema che affligge le carceri rumene è di tipo strutturale e riguarda la generalità degli istituti, non solo in rapporto al rischio di sovraffollamento, ma anche in relazione alle complessive condizioni di vita, tali da comportare una pluralità di disagi e sofferenze aggiuntive rispetto all’ordinario stato di restrizione.

A tale riguardo, invero, la Corte di Strasburgo ha pronunciato in data 25/4/2017, in causa Rezmives contro Romania, una sentenza «pilota», segnalando come ancora una volta fossero state riscontrate diffuse condizioni di inadeguatezza degli istituti carcerari, anche in relazione alle condizioni igieniche e sanitarie, alla possibilità di fruire di acqua calda, alla presenza di insetti e topi, alla qualità dei materassi e come dunque dovesse in via generale imporsi l’adozione di rimedi e di idonei meccanismi compensatori.

Tale situazione imponeva una attenta e rigorosa verifica, specificamente volta a verificare il concreto rischio di sottoposizione del consegnando a trattamenti inumani e degradanti, correlati alle complessive condizioni di vita all’interno delle strutture penitenziarie, confrontate se del caso con i tempi di eventuale permanenza all’esterno delle stesse (Sez. 6, 55627/2017).

In tema di riconoscimento delle sentenze penali straniere, l’ambito del controllo sul requisito della non contrarietà ai principi fondamentali dell’ordinamento giuridico dello Stato, non riguarda solo il dispositivo ma deve investire anche la motivazione della sentenza straniera, attraverso la quale è possibile vagliare la sua conformità ai canoni del giusto processo (Sez. 6, 2442/2011).

Va però tenuto presente che l’obbligo di motivazione previsto nel nostro ordinamento come cardine del giusto processo ed obbligo imposto per tutte le sentenze dall’art. 111, comma 6, Cost., riceve, nei diversi ordinamenti, una diversa disciplina che tiene conto anche della tipologia del procedimento e della stessa composizione del giudice, giacché in più occasioni la giurisprudenza della Corte EDU ha avuto modo di mettere in luce la circostanza che, nelle tradizioni giuridiche e processuali dei diversi ordinamenti, specie nei procedimenti con giuria, l’obbligo di motivazione assume aspetti contenutistici del tutto peculiari.

Si è in particolare affermato che secondo la costante giurisprudenza della Corte EDU anche l’assenza di motivazione di un verdetto reso da una giuria popolare non comporta di per sé una violazione dell’art. 6 CEDU, giacché ciò che rileva agli effetti della salvaguardia delle esigenze poste dal rispetto del principio del fair trial è necessario permettere all’imputato e al pubblico di comprendere il verdetto pronunziato.

Tali garanzie possono consistere, ad esempio, ha sottolineato la Corte EDU, nel fornire ai giurati delle istruzioni o dei chiarimenti sui problemi giuridici posti o sugli elementi di prova acquisiti, nel porre loro domande precise e non equivoche che costituiranno uno schema per il verdetto, o nel compensare l’assenza di motivazione delle risposte della giuria (Taxquet c. Belgio, sentenza del 16.11.2010).

Alla stregua della giurisprudenza della Corte EDU alla quale, come è noto, spetta il compito di interpretare i principi della CEDU, se ne può dedurre che ai fini del soddisfacimento delle esigenze di rispetto dei principi del giusto processo è necessario e sufficiente che l’imputato, in ragione della disciplina “domestica” che regola l’obbligo di motivazione in genere e con riferimento allo specifico procedimento nella specie, sia posto in condizione di comprendere le ragioni della condanna così come agli effetti del processo deve essere posto in condizione di comprendere le ragioni dell’accusa.

Ebbene, nel caso di specie, come puntualmente posto in evidenza dal procuratore generale ricorrente, l’imputato ha aderito ad un modulo procedimentale che comporta la sostanziale semplificazione del corredo motivazionale, non differente, d’altra parte, con quanto è previsto in tema di patteggiamento alla luce della giurisprudenza costituzionale e ordinaria formatasi sul punto. Nel caso in esame, come emerge dal testo della pronunzia, risultano essere stati puntualizzati in modo assai analitico i fatti per i quali l’imputato è stato sottoposto a giudizio e condannato.

Accanto a ciò sono stati posti in risalto gli elementi di prova su cui l’accusa ha fatto perno, la delibazione di tali elementi in una con le prospettazioni del difensore, anch’esse analiticamente passate in rassegna e la espressa dichiarazione delle parti di “rinunziare alla motivazione scritta della sentenza”.

Non soltanto, quindi, risulta integralmente soddisfatto il minimum ricognitivo e critico per poter ritenere garantito il diritto al giusto processo e alla comprensione delle ragioni della condanna, ma, attraverso l’espresso atto di rinunzia alla motivazione, vi è una consapevole manifestazione di volontà ontologicamente espressiva del soddisfacimento dei diritti difensivi.

Va d’altra parte rilevato che proprio in ragione delle diversità “strutturali e funzionali” che presenta la sentenza da riconoscere rispetto alle regole che presiedono al procedimento nazionale, onere della difesa sarebbe stato quello di porre in luce non la supposta mancanza di motivazione secondo gli indici di riconoscimento” di un simile vizio alla stregua dei parametri offerti dal diritto processuale nazionale, ma indicare le concrete ragioni per le quali l’atto non rispondesse a quei requisiti minimi di cui si è innanzi detto e che soli possono giustificare il mancato riconoscimento della sentenza per contrarietà ai principi generali dell’ordinamento, tra i quali a norma dell’art. 117, comma 1, Cost., non possono non annoverarsi quelli enunciati dalla CEDU e come interpretati dalla Corte EDU (Sez. 2, 14440/2013).