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Art. 84 - Reato complesso

1. Le disposizioni degli articoli precedenti non si applicano quando la legge considera come elementi costitutivi, o come circostanze aggravanti di un solo reato, fatti che costituirebbero, per sé stessi, reato.

2. Qualora la legge nella determinazione della pena per il reato complesso, si riferisca alle pene stabilite per i singoli reati che lo costituiscono, non possono essere superati i limiti massimi indicati negli articoli 78 e 79.

Rassegna di giurisprudenza

In generale

La portata del principio compendiato nel noto brocardo del divieto del bis in idem è espressione di un cardine generale di civiltà dell’ordinamento processuale penale che trova espressione positiva non soltanto nel divieto di un secondo giudizio (art. 649) ma anche nelle norme poste per disciplinare i conflitti positivi di competenza (art. 28 e ss. CPP) e l’ipotesi di una pluralità di sentenze per il medesimo fatto (art. 669 CPP); va precisato che a livello di diritto penale sostanziale analoga esigenza di garanzia è espressa dalle norme variamente invocate dai ricorrenti (artt. 84 e 15 che definiscono il reato complesso e che consacrano i tradizionali principi di specialità e di assorbimento (o di consunzione), esplicativi della necessità, avvertita da un moderno ordinamento democratico, di non addebitare all’imputato più volte lo stesso fatto storico, purché esso sia il momento di emersione di una unica contrapposizione cosciente e consapevole (ergo: colpevole) dell’individuo alle regole che disciplinano la vita dei consociati: si tratta del c.d. “ne bis in idem sostanziale”, che però, come noto, ha una portata meno forte di quello processuale, con esso esprimendosi solo una linea di tendenza dell’ordinamento.

Il momento di sintesi, di cui è espressione l’art. 84, dell’esigenza di non addebitare, in buona sostanza, lo stesso fatto per due volte all’imputato non è disciplinato, però, da regole predeterminate, assolute ed astratte, ma dipende dal concreto atteggiarsi delle contestazioni elevate dal PM, ben potendo accadere che una determinata “vicenda di vita” si atteggi nella modulazione delle accuse da parte del titolare dell’azione penale talora ad elemento costitutivo dell’illecito, talaltra a semplice circostanza aggravante (Sez. 4, 16610/2016, richiamata da Sez. 4, 26857/2018).

 

Casistica

Non può parlarsi di assorbimento o di reato complesso e, quindi, di deroga al principio del concorso di reati, se non nel caso in cui la legge abbia operato la unificazione di tutti gli elementi di reati fra loro autonomi in un’unica figura criminosa, prendendo in considerazione l’uno come elemento costitutivo o circostanza aggravante dell’altro, né basta che le singole ipotesi criminose abbiano qualche elemento comune; inoltre, non basta che due reati siano realizzati con una sola azione, essendo necessario che il legislatore abbia operato la fusione, in un’unica ipotesi criminosa, di fatti costituenti reati autonomi, rilevando, quindi, l’identità dell’elemento oggettivo, rappresentato dalla condotta dell’agente e dal suo risultato, e dell’elemento soggettivo, consistente nella volontà cosciente diretta alla realizzazione del fine perseguito.

Non integra, invece, la figura del reato complesso l’esistenza di elementi comuni fra due reati, né la circostanza che un reato sia il presupposto di un successivo reato, o che il primo sia stato consumato allo scopo di realizzare un secondo reato; in tale ultimo caso può configurarsi semplicemente un rapporto teleologico fra i due illeciti, che non solo non esclude il concorso, ma integra la circostanza aggravante di cui all’art. 61 n. 2.

La circostanza aggravante di cui all’art. 7 L. 203/1991 costituisce una particolare qualità della condotta criminosa e la ratio della disposizione non è solo quella di punire con pena più grave coloro che commettono reati utilizzando metodi mafiosi, o con il fine di agevolare le associazioni mafiose, ma essenzialmente quella di contrastare in maniera più decisa, stante la loro maggiore pericolosità e determinazione criminosa, l’atteggiamento di coloro che, siano essi partecipi o meno in reati associativi, si comportino da mafiosi, oppure ostentino in maniera evidente e provocatoria una condotta idonea ad esercitare sui soggetti passivi quella particolare coartazione o quella conseguente intimidazione, propria delle organizzazioni della specie considerata.

Si tratta, all’evidenza, di una connotazione specifica e peculiare che può caratterizzare qualsiasi condotta penalmente rilevante  basti pensare, per citare solo i casi più ricorrenti, all’omicidio, all’estorsione, alla violenza privata , concretandosi in una situazione di fatto che non rappresenta, in sé, un’autonoma fattispecie di reato, ma un particolare atteggiarsi e qualificarsi del concreto svolgimento dell’azione criminosa. Ne discende, quindi, che non vi è alcuno spazio per ipotizzare il reato complesso, i cui presupposti difettano del tutto (Sez. 5, 44920/2018).

La condotta di guida in stato di ebbrezza alcolica costituisce circostanza aggravante dei delitti di omicidio stradale e di lesioni stradali gravi o gravissime, dovendosi conseguentemente escludere, in applicazione della disciplina del reato complesso, che gli stessi possano concorrere con la contravvenzione di cui all’art. 186 CDS (Sez. 4, 144/2019).

Nel caso in cui si contesti all’imputato di essersi, dopo il 25 marzo 2016 (data di entrata in vigore della L. 41/2016), posto alla guida di un veicolo a motore in stato di ebbrezza e di avere in tale stato cagionato, per colpa, la morte di una o più persone  ovvero lesioni gravi o gravissime alle stesse  dovrà prendersi atto che la condotta di guida in stato di ebbrezza alcoolica viene a perdere la propria autonomia, in quanto circostanza aggravante dei reati di cui agli artt. 589-bis, comma 1, e 590-bis, comma 1, con conseguente necessaria applicazione della disciplina sul reato complesso ai sensi dell’art. 84, comma l, ed esclusione invece dell’applicabilità di quella generale sul concorso di reati. La stessa soluzione dovrà, naturalmente, valere nel caso di guida in stato di alterazione psico-fisica conseguente all’assunzione di sostanza stupefacenti o psicotrope (artt. 589-bis, comma 2, e 590-bis, comma 2) (Sez. 4, 26857/2018).

La commissione di una rapina in edificio o altro luogo destinato a privata dimora configura, dopo l’introduzione del n. 3-bis del comma terzo dell’art. 628, un “reato complesso”, nel quale resta assorbito il delitto di violazione di domicilio (Sez. 2, 40382/2014).

Il sequestro di persona a scopo di estorsione è tradizionalmente concepito quale reato complesso; è stato ritenuto dalla giurisprudenza una figura autonoma di reato, qualificabile, appunto, come reato complesso, poiché confluiscono in esso, in guisa di elementi costitutivi, fatti che costituirebbero già di per se reato, ai sensi dell’art. 84; si è escluso, inoltre, specificamente che esso possa considerarsi ipotesi delittuosa aggravata del sequestro di persona, dal quale si differenzia per il dolo specifico, che si concretizza nello scopo perseguito, per sé o per gli altri, di un ingiusto profitto come prezzo della liberazione.

È noto che per configurare un reato complesso è necessario che una norma di legge operi la fusione in un’unica ipotesi criminosa dei fatti costituenti reati autonomi. In realtà, a ben vedere, la figura di reato delineata dall’art. 630, comma 1, si compone di una parte oggettiva-comportamentale (il sequestro di persona: “Chiunque sequestra una persona”) e di una parte soggettiva-teleologica (“allo scopo di conseguire ... un ingiusto profitto come prezzo della liberazione”): la componente materiale coincide anche nominalmente con il reato previsto dall’art. 605, del quale riproduce la rubrica; la componente subbiettiva è strutturata da una forma di dolo attinente al delitto di estorsione (art. 629).

Si può dire che il legislatore ha connotato di dolo specifico una forma peculiare di violenza, delimitando l’area della violenza generica atta a configurare (in alternativa alla minaccia) l’estorsione, con quella forma particolare di violenza che è il sequestro di persona, cioè la privazione della libertà personale di un soggetto. Di modo che la figura delineata dall’art. 630, comma 1, piuttosto che essere l’unione di due modelli criminosi “semplici”, il sequestro di persona e l’estorsione, risulta composta dall’elemento oggettivo del sequestro di persona, arricchito con elementi propri dell’estorsione. Rispetto all’estorsione, invero, il verificarsi del “danno” ed il conseguimento del “profitto ingiusto” non costituiscono eventi in senso naturalistico necessari per la sussistenza del reato: mentre il danno finisce per identificarsi nella lesione arrecata dalla condotta all’interesse protetto, il profitto ingiusto è solo oggetto del dolo specifico e rimane privo di rilevanza agli effetti della consumazione del reato.

In questo senso si può parlare più propriamente  come evidenzia la dottrina  di fattispecie “a doppia specialità” o a “specialità reciproca”. In particolare, il legislatore ha ritenuto di dare funzione qualificante e specializzante del reato proprio all’elemento soggettivo: non può non essere evidenziata la funzione svolta nel delitto in esame dal dolo specifico. È stato notato che la condotta della privazione della libertà si presta facilmente ad essere funzionale a scopi ulteriori; sì che anche sotto il profilo della tecnica normativa, il legislatore ha delineato più fattispecie di sequestro qualificato di persona e ne ha affidato il tratto differenziale al dolo specifico, che ne ha condizionato anche la collocazione in titoli diversi del codice penale (v. la figura in esame e quella parallela di cui all’art. 289-bis, il reato previsto dall’art. 3 della L. 718/1985, ovvero i ratti descritti dagli ora abrogati artt. 522 e ss.).

Sotto questo aspetto può ritenersi ancora in certo qual modo giustificata la collocazione della fattispecie criminosa in esame nell’ambito della categoria dei delitti contro il patrimonio, tendendo a rimarcare la specifica intenzionalità dell’agente come condizione costitutiva del modello legale.

Se, invero, tale reato ha natura plurioffensiva, poiché l’oggetto della tutela penale si identifica sia nella libertà personale, sia nell’inviolabilità nel patrimonio, il tratto che ha sempre costituito il suo elemento fondante è la “mercificazione della persona umana”: la persona è strumentalizzata in tutte le sue dimensioni, anche affettive e patrimoniali, rispetto al fine dell’agente; è, in altre parole, resa merce di scambio contro un prezzo, come risulta dalla stretta correlazione posta tra il fine del sequestro, che è il profitto ingiusto, e il suo titolo, cioè, appunto, il prezzo della liberazione.

A ben vedere, quando un soggetto viene tenuto sotto sequestro  inteso essenzialmente come privazione della libertà di movimento nello spazio secondo l’autonoma scelta di ciascuno  e per la sua liberazione viene preteso un prezzo, l’azione tipica delineata dall’art. 630 risulta pienamente configurata, con la sua carica intenzionale di conseguimento di un profitto; se tale profitto è ingiusto il reato si perfeziona.

L’organizzazione criminale che pattuisce un compenso per effettuare un’immigrazione clandestina ha come movente interno l’accordo con la vittima, ma si prefigge lo scopo di lucrare un profitto illecito (quindi ingiusto) quale prezzo della liberazione della vittima stessa tenuta come vero e proprio ostaggio; la scomposizione di un fatto unitario, come tale previsto dall’art. 630, nei due reati semplici di cui agli artt. 605 e 629 c.p., mostra di confondere il movente retrostante col dolo specifico, fin dall’inizio ben delineato. L’opposta soluzione è basata su di una lettura della norma che sovrappone due elementi, i quali nella norma sono distinti: l’ingiusto profitto ed il prezzo. Il prezzo è la controprestazione che viene imposta quale corrispettivo della liberazione della persona: prezzo e liberazione sono i due poli dello specifico sinallagma.

La ricerca di questo corrispettivo può però essere volta a conseguire sia il vantaggio che deriva direttamente dal prezzo (e quindi ad ottenere un profitto comunque ingiusto), sia il vantaggio che deriva da un rapporto pregresso. Se la pretesa dell’agente ha titolo, come nella specie, in un negozio avente causa illecita, il profitto perseguito è ingiusto; e non si vede perché se ad essa si accompagni la segregazione del soggetto passivo, e la liberazione di questo sia condizionata al pagamento di un prezzo, la condotta del sequestratore debba essere scissa in due fatti-reato - sequestro di persona ed estorsione - il secondo dei quali presuppone comunque l’ingiustizia del profitto.

Il binomio normativo “ingiusto profitto come prezzo della liberazione” non esclude che il perseguimento del prezzo del riscatto tragga il movente da preesistenti rapporti illeciti, limitandosi a collegare l’azione ricattatrice alla prospettiva della liberazione del sequestrato.

L’agente infatti non ha una pretesa tutelabile dalla legge da far valere; sicché in realtà l’utilità non dovuta che il ricattatore persegue rappresenta null’altro che il corrispettivo della liberazione dell’ostaggio. In definitiva può affermarsi che il delitto previsto dall’art. 630 c.p. è un reato plurioffensivo, nel quale l’elemento obbiettivo del sequestro viene tipizzato dallo scopo di conseguire un profitto ingiusto dal prezzo della liberazione; ne consegue che ove ricorrano i due elementi della privazione della libertà personale e della finalità di ottenere un profitto come prezzo della liberazione, si verifica quella forma particolare di delitto che è prevista dall’art. 630; ogni scissione del fatto unitario è priva di qualsiasi fondamento nella legge, in quanto si lucra un prezzo per la liberazione anche quando la vittima sia sequestrata per riscuotere, a mezzo della sua liberazione, un vantaggio patrimoniale ingiusto che trovi la sua causa in un rapporto già esistente tra sequestratore e vittima.

In ordine alla qualificazione giuridica del fatto, pertanto, la condivisa e prevalente giurisprudenza di legittimità impone al giudice del merito di valutare con attenzione le modalità del fatto posto in essere sicché integra il delitto di sequestro di persona a scopo di estorsione, e non il concorso nei reati di sequestro di persona e di estorsione, la condotta consistente nella privazione della libertà di una persona finalizzata a conseguire, come prezzo della liberazione, una prestazione patrimoniale pretesa in esecuzione di un preesistente rapporto illecito (Sez. 1, 34344/2018).

La distruzione, la dispersione, il deterioramento e l’occultamento di cose proprie, al fine di conseguire il prezzo di una assicurazione contro gli infortuni, costituenti l’elemento materiale del reato di cui all’art. 642, possono essere cagionati con qualsiasi mezzo. Ma se l’uso di un determinato mezzo costituisce di per sé stesso reato, quest’ultimo concorre materialmente con quello di fraudolenta distruzione della cosa propria, a norma del comma primo dell’art. 81, nessun reato essendo previsto come elemento costitutivo o circostanza aggravante del delitto contemplato nell’art. 642 e viceversa. Ne consegue che se il mezzo adoperato è l’incendio della cosa propria e ne è derivato pericolo per la pubblica incolumità, il delitto d’incendio, aggravato ai sensi dell’art. 61 n. 2, concorre materialmente con quello dell’art. 642, in quanto, sebbene il fatto sia unico, si sono violate due diverse disposizioni di legge, senza che ricorra l’ipotesi del reato complesso di cui all’art. 84 (Sez. 1, 39767/2018).

Il delitto di cui all’art. 624-bis ha natura di reato complesso, siccome previsto dall’art. 84, essendo composto dall’unione di furto e violazione di domicilio con la conseguenza che, allorquando taluno si introduca in un edificio o in un luogo di privata dimora per la commissione di un furto, vale il principio dell’assorbimento del reato della violazione di domicilio in quello di furto in abitazione, non essendo ipotizzabile un concorso di tali reati (Sez. 4, 18669/2018).

Il reato di bancarotta fraudolenta integra una figura di reato complesso ex art. 84 rispetto a quello di appropriazione indebita, con assorbimento di quest’ultimo in quello di bancarotta, sicché gli stessi fatti, già contestati ex art. 646, possono essere ricondotti, dopo la pronuncia della sentenza dichiarativa di fallimento, alla fattispecie di cui all’art. 216 LF. Deve, pertanto, escludersi il concorso formale dei reati quando, oltre ad esservi perfetta identità della cosa su cui si sono concentrate le rispettive attività criminose, unica risulti la destinazione data dal soggetto attivo ai beni da lui appresi indebitamente, in quanto la condotta dell’apprensione di beni di cui il fallito abbia la disponibilità, pur essendo astrattamente riconducibile alle due distinte ipotesi delittuose in questione, ricade sotto la previsione dell’art. 84.

Si è ulteriormente precisato che la decisione irrevocabile d’estinzione per prescrizione del delitto d’appropriazione indebita imputato all’amministratore di una società non preclude, dopo l’intervento della dichiarazione di fallimento della società, l’esercizio dell’azione penale nei confronti dello stesso per il delitto di bancarotta fraudolenta per distrazione dei medesimi beni, in applicazione del dettato di cui all’art. 170 (Sez. 2, 12586/2018).

I reati di appropriazione indebita e bancarotta patrimoniale, pur essendo fattispecie tra loro strutturalmente diverse, contemplano elementi costitutivi che danno luogo ad un reato complesso ex art. 84. Le due fattispecie sono strutturalmente diverse, integrando, se consumate contestualmente, un reato complesso con assorbimento del delitto d’appropriazione indebita in quello di bancarotta fraudolenta, ma se realizzate in tempi diversi, un reato progressivo, con conseguente applicazione, nel caso di specie, dell’art. 170 (Sez. 5, 2295/2016).

Non viene considerato configurabile il concorso formale dei reati di bancarotta fraudolenta ed appropriazione indebita soltanto ove vi sia perfetta identità della cosa su cui si sono concentrate le rispettive attività criminose e simultaneità delle attività stesse, poste in essere al riguardo dal singolo imprenditore o dall’amministratore di una società, poi fallita, che per effetto del susseguente fallimento vengono ad essere qualificati come attività illecite e penalmente perseguibili, unica risultando, inoltre, la destinazione data dal soggetto attivo ai beni da lui appresi indebitamente e distratti, integrando un siffatto comportamento una sola ipotesi criminosa e precisamente quella di bancarotta fraudolenta (Sez. 5, 37298/2010).

Il delitto di ricettazione (art. 648) e quello di commercio di prodotti con segni falsi (art. 474) possono concorrere, atteso che le fattispecie incriminatrici descrivono condotte diverse sotto il profilo strutturale e cronologico, tra le quali non può configurarsi un rapporto di specialità, e che non risulta dal sistema una diversa volontà espressa o implicita del legislatore. Non può trovare applicazione, infatti, la disciplina del reato complesso di cui all’art. 84, in quanto le condotte previste dagli artt. 648 e 474 non hanno elementi in comune: invero la disposizione di cui all’art. 474 non contempla affatto i momenti dell’acquisto, della ricezione o dell’occultamento di cose mobili provenienti da delitto o della intromissione per farle acquistare, ricevere o occultare, che rappresentano invece le condotte attraverso le quali si realizza il delitto di ricettazione, con la cui disciplina, pertanto, non può porsi in rapporto di specialità. (Sez. 2, 9480/2018).