Come divorziano gli inglesi (Exit o Non Exit, questo è il problema)
Indice
1. Primo malinteso
2. L’insostenibile comportamento del coniuge
3. Ragione e sentimento
4. Exit o Non Exit?
Tini Owens doveva essere proprio esasperata quando, in quel maggio 2015, presentò alla Central Family Court domanda di divorzio, decisa a sciogliere un vincolo che durava da non meno di 37 anni. Non si aspettava che i giudici inglesi le avrebbero negato, e per ben 3 gradi di giudizio, il diritto di riacquistare la propria libertà (se non prima di 5 anni), bollando le sue argomentazioni come ‘fiacche’ e ‘insignificanti’. La vicenda ha riacceso il dibattito su una legge controversa che ha suscitato molte critiche e qualche malinteso.
1. Primo malinteso
Il primo è che in Inghilterra vi siano cinque cause di divorzio. La causa è fondamentalmente una: il fallimento irrimediabile del matrimonio (irretrievable breakdown of marriage). L’origine del malinteso sta nel fatto che tale fallimento deve essere dimostrato, provando almeno uno dei cinque fatti tassativamente determinati dalla legge.
Dei cosiddetti Five Facts menzionati dal Matrimonial Causes Act del 1973, in vigore in Inghilterrra e nel Galles, tre (adulterio, abbandono del tetto coniugale o comportamento irragionevole) costituiscono violazioni dei doveri coniugali (matrimonial offences) e sono quelli addotti più di frequente. La ragione è squisitamente pratica: la procedura è molto più veloce.
Non di rado avviene che per abbreviare i tempi le parti forniscano deliberatamente una versione alterata dei fatti, esagerando le accuse o accordandosi su di esse sino al punto di inventarle di sana pianta. Secondo un rapporto di giugno 2015 di Resolution, l’associazione che si batte per un approccio non conflittuale nelle questioni di famiglia, il 27% delle coppie che ha sollevato delle accuse nel proprio ricorso ha ammesso di aver mentito, perché avrebbe reso tutto più semplice.
Fa parte del gioco? Forse sì, quando si riesce, nonostante tutto, a trovare un’intesa, cosa che avviene nella stragrande maggioranza dei casi. Ma quando il coniuge decide di opporsi al divorzio, come ha fatto il Sig. Owens, le cose cambiano.
2. L’insostenibile comportamento del coniuge
La Sig.ra Owens non immaginava che il marito le avrebbe dato del filo da torcere. La relazione era agli sgoccioli, i due non dormivano insieme da anni e all’epoca non vivevano più sotto lo stesso tetto. E lei trovava il suo comportamento oltremodo insopportabile.
Quella comunemente detta del “comportamento irragionevole” (unreasonable behaviour) è la circostanza più invocata in assoluto come presupposto del divorzio (sollevata nel 2017 dal 37% dei mariti e dal 52% delle mogli).
Secondo malinteso. La legge parla chiaro, occorre provare che un coniuge ha avuto un comportamento tale che non si possa ragionevolmente attendere dall’altro che continui a viverci insieme (that the respondent has behaved in such a way that the petitioner cannot reasonably be expected to live with the respondent): l’irragionevolezza riguarda la prosecuzione della convivenza, non il comportamento in sé.
Tini non voleva più vivere con Hugh John perché le negava attenzione e affetto e nei suoi confronti aveva atteggiamenti spiacevoli e denigratori. Motivi più che sufficienti a concludere qualsiasi rapporto.
3. Ragione e sentimento
Ora ci chiediamo: come si può stabilire d’ufficio se sia “ragionevole” interrompere una relazione costellata di conflitti e incomprensioni che, a torto o a ragione, è avvertita come logorante e distruttiva? Si può stabilire con sentenza se l’amore è finito? E ancora, una norma siffatta è coerente con i valori culturali della società di cui è espressione?
Nel mondo occidentale secolarizzato l’istituto del matrimonio ha subito un’enorme trasformazione, passando da una concezione marcatamente istituzionale a una più privatistica, fondata sulla genuinità del sentimento e sul diritto all’autodeterminazione. La metamorfosi ha investito altresì la fase dello scioglimento del vincolo, che i legislatori dei diversi paesi hanno provveduto a semplificare, restituendo alle persone la disponibilità della propria vita affettiva.
4. Exit o Non Exit?
In Inghilterra permane una legislazione antiquata, retaggio di un mondo scomparso senza lasciare spazio al nuovo, espressione di quella società liquida teorizzata da Bauman, perennemente in bilico tra Leave e Remain, tra libertà e impegno, tra identità di coppia (o comunitaria che sia) e identità individuale.
Ad accentuare la contrapposizione è la circostanza che la procedura sia in vigore nel sistema anglosassone, culla della mediazione, ove da un lato s’incoraggia la composizione collaborativa dei conflitti, dall’altro si è adottata una normativa che tende ad esacerbarli.
Sembra che nelle questioni matrimoniali gli inglesi siano poco inclini al compromesso. E difatti, neanche la riforma introdotta nel 1996, con il Family Law Act, ha avuto esito favorevole. La parte che prevedeva per le coppie in procinto di divorziare una serie di incontri preliminari aventi carattere informativo e con l’intento di stimolare alla conciliazione è stata abrogata, a seguito di una serie di progetti pilota, ancora prima di entrare in vigore.
Ora il cambiamento è alle porte. Dopo il caso Owens, il governo ha accolto le istanze di riforma di una legge vecchia quasi 50 anni. David Gauke, il Segretario di Stato per la giustizia del Regno Unito, assicura che il Parlamento si occuperà di varare una nuova legge nella prossima sessione. L’obiettivo è disporre di una procedura snella e veloce, meno antagonista e più conforme al comune sentire, che consenta alle Tini d’Inghilterra di riprendersi la propria vita e vedere riconosciuta la legittima aspirazione ad essere amate.