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Concorso esterno in associazione mafiosa: a che serve, a chi serve?

Parte prima: i primi chiarimenti delle Sezioni unite
oltre i colori
Ph. Fabio Toto / oltre i colori

Inizia la pubblicazione a puntate della monografia “Concorso esterno in associazione mafiosa: a che serve, a chi serve?” di Vincenzo G. Giglio, collaboratore di Filodiritto e curatore della rubrica “La linea della palma” pensata per l’approfondimento della fenomenologia mafiosa e delle politiche statali di contrasto.

L’autore ha raccontato la storia giurisprudenziale della fattispecie del concorso esterno, la sua declinazione pratica e le criticità dell’istituto.

L’opera si inserisce nel più ampio programma editoriale di Filodiritto, volto ad offrire ai lettori occasioni di approfondimento e informazione di qualità.

Buona lettura.

 

1. Introduzione

Il diritto penale, oggi come sempre, è un prodotto in cui si riversano tutte le pulsioni umane, buone e cattive. Risente dell’ideologia di chi lo crea e di chi lo interpreta. È permeabile a prassi e sentimenti populisti. È un ideale terreno di sperimentazioni di ogni tipo. Ha un rapporto imprescindibile ma non sempre armonioso con il sapere scientifico. Lo stesso vale per il giudizio penale. Fatto per arrivare alla verità, non sempre la afferma, talvolta la nega. Fatto a difesa sia della vittima che del carnefice, ora dimentica la prima e vezzeggia il secondo, ora beatifica la prima e travolge il secondo, ora non riesce nemmeno a distinguere l’una dall’altro. Il legislatore è in affanno, privo di conoscenza ed empatia. Il giudice tenta di orientarsi nella complessità contemporanea e di darle risposte plausibili ma talvolta si lascia tentare dalla geometrica potenza ormai connaturale al suo ruolo e si appropria di spazi che non gli appartengono. Il cittadino vive in mezzo a questo. Il diritto e la sua applicazione sono come la neve e la grandine per lui, eventi che può solo subire, nel bene e nel male[1].

Ognuna di queste proposizioni può essere usata per giustificare l’incessante riflessione sul concorso eventuale (ma qui si preferirà il più familiare “esterno”) in associazione mafiosa.

Una fattispecie problematica, capace di generare ripetuti conflitti e incapace di assestarsi quali che siano le soluzioni di volta in volta proposte.

Un istituto divisivo che genera schiere di seguaci e detrattori.

Uno strumento di elevata capacità stigmatizzante, perfino maggiore di quella propria della fattispecie primaria poiché, se è riprovevole essere mafiosi in servizio permanente, può esserlo anche di più flirtare con la mafia secondo convenienze contingenti.

Una formidabile materia prima il cui interesse travalica il ceto di pratici, giuristi e studiosi delle discipline sociali e raggiunge l’intera collettività, la politica che la rappresenta, la storia che ne racconta il passato, il giornalismo che ne narra il presente, la letteratura che tutto fonde e trasfigura.

Un catalizzatore di neologismi o nuovi significati attribuiti a parole esistenti: zona grigia, contiguità, collusione, compiacenza e altre ancora.

Il concorso esterno è tutto questo ma rimarrebbe un mistero inesplicabile se non si riuscisse a comprendere il peso che le caratteristiche elencate hanno avuto nell’accompagnarne (stimolarne?) la nascita e gli aggiustamenti successivi.

Nella riflessione proposta la mediaticità dell’istituto sarà quindi valorizzata come criterio interpretativo tanto quanto il tenore letterale e la volontà del legislatore e tutti insieme saranno utilizzati per provare a decifrare un’operazione ancora oggi quantomai “liquida”.

Con la speranza di rispondere alle domande che fanno parte del titolo o almeno dimostrarne la legittimità.

 

2. La storia giurisprudenziale

Sono poche le fattispecie incriminatrici il cui percorso sia stato affaticato da travagli paragonabili a quelli del concorso esterno in associazione mafiosa.

È una storia lunga e complessa, cominciata in tempi lontani e tutt’altro che finita.

Se ne descriveranno le tappe principali.

 

2.1. La sentenza Demitry[2]: il diritto di esistere

Tra la fine degli anni Ottanta e la prima metà degli anni Novanta dello scorso secolo si manifestò con notevole intensità il primo dei tanti dibattiti giurisprudenziali che avrebbero accompagnato la vita del concorso esterno.

Si discuteva (e nel frattempo, come sempre, si decideva delle sorti degli accusati), niente di più niente di meno, del suo stesso diritto di esistere.

Un primo e robusto schieramento[3], decisamente contrario, argomentava principalmente sull’impossibilità di accostare il concorso all’associazione mafiosa poiché, se l’essenza del primo è concorrere nel medesimo reato e l’essenza della seconda è far parte dell’organismo criminale e dunque contribuirvi causalmente e consapevolmente, sarebbe stato insensato e improduttivo ipotizzare uno spazio autonomo per i concorrenti esterni ma al tempo stesso pretendere per costoro gli stessi requisiti dei partecipi.

Nello stesso arco di tempo si manifestava con pari assertività un secondo orientamento favorevole al concorso esterno[4].

Pur tra non pochi distinguo, si osservava che, se la partecipazione implica un’adesione formale o sostanziale all’associazione e con essa un’accettazione convinta dei suoi metodi e programmi, residuava per ciò stesso uno spazio penalmente rilevante per coloro che, non avendo potuto o voluto aderire e quindi – se così si può dire - non immedesimati organicamente, apportassero comunque un contributo utile al mantenimento, al consolidamento o al miglioramento dell’associazione medesima.

Il criterio rilevante non era più dunque di tipo causale ma organizzativo e il concorrente esterno veniva configurato come individuo in grado appunto di apportare benefici alla struttura organizzativa della compagine mafiosa.

L’inconciliabilità delle due posizioni rese indispensabile l’intervento delle Sezioni unite che si pronunciarono con la nota sentenza Demitry, tornata alla ribalta più di vent’anni dopo poiché è ad essa che la Corte di Strasburgo ha attribuito la stabilizzazione giurisprudenziale del riconoscimento della legittima esistenza del concorso esterno, ed in effetti fu questo il risultato della decisione[5].

Il ricorrente che ha dato il nome alla sentenza era accusato di concorso esterno nell’associazione camorristica capeggiata da Carmine Alfieri e Pasquale Galasso e gli si contestava specificamente di avere intermediato tra costoro e un magistrato per assicurare l’esito favorevole di un procedimento penale a carico di esponenti di quel sodalizio.

Le Sezioni unite vollero anzitutto eliminare ogni dubbio sulla matrice legislativa della fattispecie:

Le sentenze nn. 2342, 2348 e 2699 eccepiscono, infine, che non può opporsi, a sostegno della tesi della configurabilità del concorso eventuale materiale, la lettera dell’art. 418 c.p., – che punisce l’assistenza agli associati – in quella parte, la parte iniziale, in cui dice che questa figura criminosa è applicabile «... al di fuori dei casi di concorso nel reato o di favoreggiamento». L’espressione «al di fuori dei casi di concorso nel reato» – sostengono – si riferisce al solo concorso necessario e non anche al concorso eventuale. Neppure questa tesi può essere seguita.

a) Deve osservarsi, innanzitutto, che, se queste sentenze interpretano l’espressione «. . . al di fuori dei casi di concorso nel reato» come se dicesse «al di fuori dei casi di concorso necessario», la sentenza n. 418 del 1989 – che è stata citata come una di quelle che esclude, nel reato di cui all’art. 416 bis, la configurabilità del concorso eventuale materiale e ammette il solo concorso eventuale «morale» – interpreta la identica espressione che si legge nel 1° comma dell’art. 307 c.p. – assistenza ai partecipi di cospirazione o di banda armata – come se si riferisse al «concorso morale», come se escludesse l’applicabilità della norma nel caso di concorso eventuale morale.

b) Deve sottolinearsi, in secondo luogo, che, con una parte della dottrina, si può opporre che «nel comma si trovano due espressioni differenti, rappresentate dalle locuzioni ‘‘concorso nel reato’’ e ‘‘persone che partecipano all’associazione’’ che richiamano necessariamente due realtà differenti». «Pare, infatti, logico supporre che se il legislatore avesse voluto fare riferimento, all’interno dello stesso comma, per due volte alla stessa fattispecie, avrebbe utilizzato la medesima espressione e non due diverse locuzioni». «Si deve dedurre, quindi, che ‘concorso nel reato’ non significhi partecipazione allo stesso, ma concorso eventuale esterno nel reato associativo; è da ritenersi, pertanto, che il legislatore abbia inteso ammettere esplicitamente la configurabilità di un concorso eventuale nei confronti della associazione». Si può aggiungere che altri ha notato che, se l’espressione dovesse intendersi «. . . al di fuori del concorso necessario», si tratterebbe di una insolita formulazione della clausola di sussidiarietà, ché il legislatore avrebbe apposto alla tipizzazione di un data fattispecie –”. quella dell’art. 418 c.p. – l’avvertimento che non si deve trattare di una condotta di concorso necessario all’associazione mafiosa, vale a dire di un reato strutturalmente diverso, cosa che è di tutta evidenza a che, quando non lo è, viene usata, per sottolinearlo, la formula «fuori dei casi previsi nell’articolo precedente» o simili.

c) È, infine, da richiamare l’attenzione soprattutto sulla relazione ministeriale sul progetto al codice penale. La relazione, nell’illustrare l’art. 418 c.p., dice che «questa figura criminosa è tenuta distinta dai casi di concorso nel reato o di favoreggiamento» e che «infondato è il dubbio sollevato se l’inciso ‘‘fuori dei casi di concorso nel reato o di favoreggiamento’’ si debba riferire al reato d’associazione o al reato-fine che gli associati si propongono di commettere, apparendo chiaro che il riferimento va fatto al reato di associazione per delinquere, oggetto della speciale previsione». Per la relazione, pertanto, non possono esservi dubbi sulla configurabilità del concorso eventuale, in tutte le sue forme, nel reato associativo – in allora, il solo reato di cui all’art. 416 c.p. –, visto che la stessa si premura di precisare che il concorso di cui si parla nella norma dell’art. 418 non è il concorso degli esterni rispetto al reato-fine che gli associati si propongono di commettere, sibbene il concorso rispetto al reato di associazione, che, per la distinzione, per il parallelo che la relazione fa tra quest’ultimo concorso e il concorso esterno nel reato-fine, non può non essere, anch’esso, il concorso esterno, degli esterni, nel reato di associazione. La relazione, dopo aver chiarito il significato delle espressioni «dare rifugio o fornire vitto», aggiunge, ribadendo il concetto, che la disposizione penale in questione è stata resa rigorosa, ma che «il maggior rigore si è reso necessario» anche «per la esigenza di non confondere questa speciale figura delittuosa – che, non v’è dubbio, punisce un certo contributo esterno prestato agli associati, ai partecipanti – con il concorso nell’associazione per delinquere».

L’identico periodo iniziale (“Chiunque, fuori dei casi di concorso nel reato o di favoreggiamento…”) del primo comma dei delitti di assistenza ai partecipi di cospirazione o di banda armata (art. 307 c.p.) e di assistenza agli associati (art. 418 c.p.) divenne così la chiave di volta della sicura origine legislativa del concorso esterno.

Il collegio assunse poi come fatto scontato che la condotta tipica dell’associazione mafiosa fosse la partecipazione.

Rilevò subito dopo che può essere considerato concorrente esterno solo chi tiene una condotta atipica, dunque diversa da quella partecipativa, ma al tempo stesso e a pena di irrilevanza penale, produttiva di un’utilità da identificarsi nel contributo alla realizzazione della condotta tipica.

Seguì a questo punto un passaggio della motivazione che dimostra più di ogni altro lo sforzo argomentativo cui fu costretto l’estensore:

si può, però, opporre che «il contributo alla realizzazione di quella condotta», è, a ben vedere, il contributo del partecipe, il quale, grazie al suo ruolo, è teso a favorire «la realizzazione di quella condotta», cioè la stabile permanenza del vincolo associativo, con la conseguenza che le due affermazioni, di cui consta la proposizione che si legge nelle sentenze nn. 2342 e 2348, alludono alla stessa realtà, sono sostanzialmente sullo stesso piano. È agevole replicare che, supposto che le cose stiano in questi termini, non si è ancora dimostrato che partecipe e concorrente eventuale siano la stessa cosa, siano sovrapponibili. Se il «contributo alla realizzazione di quella condotta è il contributo del partecipe», altro non si dice, ancora una volta, se non che «il partecipe è partecipe», ma non si tocca il problema della configurabilità del concorso eventuale. Affermare, infatti, che quel contributo è il contributo del partecipe significa dare per certo che colui che lo dà è, per l’appunto, un partecipe, uno, cioè, che ha già posto in essere la condotta tipica, essendo e sentendosi parte della associazione e si è detto e ripetuto che, per definizione, il concorrente eventuale è colui che non pone in essere la condotta tipica, che non fa parte, non si sente parte della associazione”.

Non era evidentemente sfuggita al collegio la precarietà della conclusione raggiunta in precedenza: dire che il concorrente esterno non partecipa in proprio ma contribuisce alla partecipazione altrui era un’affermazione non solo incapace di giustificare sensatamente la rilevanza autonoma del concorso esterno ma anche inservibile come chiave di lettura di comportamenti concreti.

Tuttavia, la soluzione escogitata fu non già di riconoscere l’inadeguatezza del percorso fin lì seguito ma di addebitare all’indirizzo poi sconfessato che l’obiezione, anche a darle peso, non dimostrava l’impossibilità di trovare uno spazio autonomo per il concorso esterno.

Le Sezioni unite affermarono quindi la sua esistenza non per averne provato la possibilità ma perché i “negazionisti” non avevano provato la sua impossibilità.

Null’altro fu aggiunto e, dopo il passaggio virgolettato, il collegio virò decisamente sul tema del dolo e in nessun periodo successivo fu ripreso l’argomento, men che meno risolto.

Proprio in punto di elemento soggettivo, così le Sezioni unite lo differenziarono tra partecipe e concorrente esterno:

il partecipe […] non può non muoversi con la volontà di far parte dell’associazione e con la volontà di voler contribuire alla realizzazione degli scopi della stessa”, mentre il concorrente esterno, cioè colui che vuole dare un contributo senza far parte del sodalizio, “vorrà la sua condotta e non la condotta di far parte dell’associazione che è la condotta tipica del partecipe”.

Confutate di seguito altre obiezioni poste dall’indirizzo “negazionista” che al momento non è rilevante approfondire, la sentenza riprese a definire in positivo il ruolo del concorrente:

Il partecipe – si può dire – è colui senza il cui apporto quotidiano o, comunque, assiduo l’associazione non raggiunge i suoi scopi o non li raggiunge con la dovuta speditezza, il che apre la strada ad una vasta gamma di possibili partecipi, che vanno da coloro che si sono assunti o ai quali sono stati affidati compiti di maggiore responsabilità – i promotori, gli organizzatori, i dirigenti – a quelli con responsabilità minori o minime, ma il cui compito è o è pure necessario per le fortune della associazione. Costoro, però, agiscono, per lo più, come si è appena detto, nella fisiologia, nella vita «corrente», quotidiana dell’associazione. Il concorrente eventuale è, invece, per definizione, colui che non vuole far parte della associazione e che l’associazione non chiama a «far parte», ma, al quale si rivolge sia, ad esempio, per colmare temporanei vuoti in un determinato ruolo, sia, soprattutto – e il caso, come quello di specie, dell’«aggiustamento» di un processo risponde a questa logica – nel momento in cui la «fisiologia» dell’associazione entra in fibrillazione, attraversa una fase patologica, che, per essere superata, esige il contributo temporaneo, limitato, di un esterno. Certo, anche in questo caso potrebbe risultare che l’associazione ha assegnato ad un associato il ruolo di aiutarla a superare i momenti patologici della sua vita. Ma, resta il fatto che, pur tenendo conto di tutti i possibili distinguo e con tutte le approssimazioni possibili, lo spazio proprio del concorso eventuale materiale appare essere quello dell’emergenza nella vita della associazione o, quanto meno, non lo spazio della «normalità», occupabile da uno degli associati. La «anormalità», la «patologia», poi, può esigere anche un solo contributo, il quale, dunque, può, come sottolinea la dottrina favorevole alla configurabilità del concorso eventuale, essere anche episodico, estrinsecarsi, appunto, in un unico intervento, ché ciò che conta, ciò che rileva è che quell’unico contributo serva per consentire alla associazione di mantenersi in vita, anche solo in un determinato settore, onde poter perseguire i propri scopi”.

Mentre dunque la partecipazione ad un’associazione mafiosa era un reato di condotta, il concorso esterno veniva invece configurato come un reato d’evento posto che il contributo del concorrente, per quanto ancorato alle fasi di fibrillazione, era funzionale alla salvaguardia dell’associazione la quale è appunto l’evento del delitto di cui all’art. 416-bis.

 

2.2. La sentenza Carnevale[6]: il consolidamento

Negli anni successivi alla sentenza Demitry non si manifestò alcun sussulto giurisprudenziale fatta eccezione per la sentenza Villecco[7] che, piuttosto solitariamente, ne contestò i punti cardine ma senza spingersi a indicare credibili opzioni interpretative e senza che i suoi estensori ravvisassero la necessità di interessare le Sezioni unite.

Le cose cambiarono quando arrivò all’attenzione dei giudici di legittimità il procedimento a carico di Corrado Carnevale, accusato di concorso esterno per essersi prestato, nella qualità di presidente titolare della prima sezione penale della Corte di Cassazione, a orientare illecitamente talune decisioni a vantaggio di Cosa nostra, ivi compresa quella da emettere nel cosiddetto maxiprocesso palermitano.

I difensori dell’imputato, rilevato che alla sentenza Demitry erano seguite decisioni dissonanti, chiesero e ottennero la rimessione del giudizio alle Sezioni unite.

Il collegio mosse da una convinzione:

La necessità di ricorrere alle norme sul concorso eventuale deriva appunto dall'esigenza di assegnare rilevanza penale anche a contributi significativi resi all'organizzazione criminale da parte di chi non sia in essa considerato incluso dagli associati. Se il reato associativo, infatti, è un reato a concorso necessario, la volontà collettiva di inclusione è determinante; ma non può farsene derivare l'irrilevanza penale di comportamenti significativi sul piano causale e perfettamente consapevoli. L'art. 110 c.p. consente di assegnare rilevanza penale appunto a condotte diverse da quella tipica e ciò nondimeno necessarie o almeno utili, strumentali alla consumazione del reato […] è indiscusso che, nella prospettiva dell'art. 110 c.p., l'apporto causale o strumentale del concorrente è per definizione atipico. E non è possibile pretendere di tipizzare solo per il concorso esterno in associazione ciò che per definizione non è tipizzabile in nessun altro caso di concorso. Questa limitazione non ha alcuna giustificazione, a meno di escluderla per tutti i reati plurisoggettivi, ciò che è invece negato dalla dottrina e dalla giurisprudenza minoritaria. Esatta appare pertanto la tanto criticata impostazione data al problema dalla sentenza DEMITRY, come la ricerca della tipicità della condotta del partecipe a fronte della ritenuta atipicità della condotta concorsuale”.

Seguì l’esegesi della condotta tipica:

La tipologia della condotta di partecipazione è delineata dal legislatore sotto l'espressione "chiunque fa parte di un'associazione di tipo mafioso" (art. 416 bis, comma 1). Tenuti presenti i connotati assegnati all'associazione mafiosa dal terzo comma dell'art. 416 bis, deve intendersi che "fa parte" di questa chi si impegna a prestare un contributo alla vita del sodalizio, avvalendosi (o sapendo di potersi avvalere) della forza di intimidazione del vincolo associativo e delle condizioni di assoggettamento e di omertà che ne derivano per realizzare i fini previsti. Al contempo, l'individuazione di una espressione come "fa parte" non può che alludere ad una condotta che può assumere forme e contenuti diversi e variabili così da delineare una tipica figura di reato "a forma libera", consistendo in un contributo apprezzabile e concreto, sul piano causale, all'esistenza o al rafforzamento dell'associazione e, quindi, alla realizzazione dell'offesa tipica agli interessi tutelati dalla norma incriminatrice. Sicché a quel "far parte" dell'associazione, che qualifica la condotta del partecipe, non può attribuirsi il solo significato di condivisione meramente psicologica del programma criminoso e delle relative metodiche, bensì anche quello, più pregnante, di una concreta assunzione di un ruolo materiale all'interno della struttura criminosa, manifestato da un impegno reciproco e costante, funzionalmente orientato alla struttura e alla attività dell'organizzazione criminosa: il che è espressione di un inserimento strutturale a tutti gli effetti in tale organizzazione nella quale si finisce con l'essere stabilmente incardinati”.

Il collegio considerò pertanto scontata la possibilità di distinguere la partecipazione dal concorso esterno:

se a quel "far parte" dell'associazione si attribuisce il significato testé detto, non può non affermarsi che da un punto di vista logico la situazione di chi "entra a far parte di una organizzazione" condividendone vita e obiettivi, e quella di chi pur non entrando a farne parte apporta dall'esterno un contributo rilevante alla sua conservazione e al suo rafforzamento, sono chiaramente distinguibili. Non vi è pertanto nessuna difficoltà a dare corpo giuridico a questa differenza rilevabile nella realtà utilizzando le rispettive categorie normative della partecipazione e del concorso eventuale di persone nel reato […] Con la conseguenza che non coglie nel segno l'obiezione secondo cui la condotta di partecipazione, così come delineata da detta pronuncia (condotta tipica consistente nel "far parte", quindi - si dice - "in un essere"), si trasformerebbe in una sorta di reato di posizione, in guisa che non sarebbe immaginabile un concorrente esterno che materialmente "contribuisce solo a far parte".

Sicché

La diversità esistente, tra la struttura permanente del reato di associazione e quella del concorso eventuale, non determina affatto incompatibilità tra le due fattispecie. L'art. 110 c.p. si affianca, nel caso di specie, ad un reato, la cui consumazione è legata non solo all'esistenza dell'associazione, ma anche al sorgere e al permanere dell'offesa all'ordine pubblico, e nulla impedisce di considerare che il permanere di tale offesa possa essere determinato anche dall'aiuto portato da un soggetto estraneo al sodalizio, in determinati momenti della vita dell'organizzazione. Né è necessario che l'apporto stesso perduri per l'intera permanenza dell'associazione, non dovendosi, infatti, confondere l'aspetto del potenziale riconoscimento del contributo esterno in un qualunque momento della vita dell'associazione, con quello della sua durata. Non contrasta pertanto con la struttura permanente del reato associativo il fatto che la manifestazione di volontà criminosa del concorrente esterno si esaurisce nel momento della sua espressione”.

La stessa diversità fu ravvisata dal collegio riguardo all’elemento soggettivo:

le due forme di dolo (quella del partecipe e quella del concorrente) non appaiono sovrapponibili, o almeno non lo sono perfettamente, ciò che consente anche per l'aspetto in esame la piena configurabilità del concorso esterno. La conclusione cui è pervenuta la sentenza DEMITRY va infatti condivisa, anche se - secondo il Collegio - necessitano di essere rivisitate e precisate le ragioni che la giustificano […] tenuto conto della concezione monistica del concorso di persone accolta dal nostro legislatore penale, perché si possa affermare che i concorrenti hanno commesso "il medesimo reato", come recita la disposizione dell'art. 110 c.p., è necessario che le loro condotte risultino tutte finalisticamente orientate verso l'evento tipico di ciascuna figura criminosa. Nel reato di associazione per delinquere l'evento è la sussistenza ed operatività del sodalizio, siccome idoneo a violare l'ordine pubblico ovvero gli altri beni giuridici tutelati dalle particolari previsioni legislative, la cui attuazione avviene attraverso la realizzazione del programma criminoso. Ne consegue - di necessità - che non può postularsi la figura di un concorrente esterno, nel cui agire sia presente soltanto la consapevolezza che altri agisca con la volontà di realizzare il programma di cui sopra. Deve, al contrario, ritenersi che il concorrente esterno è tale quando, pur estraneo all'associazione, della quale non intende far parte, apporti un contributo che "sa" e "vuole" sia diretto alla realizzazione, magari anche parziale, del programma criminoso del sodalizio. Il risultato così raggiunto […] esige nell'atteggiamento psicologico del concorrente esterno sempre la ricorrenza di un dolo diretto”.

Il collegio escluse poi che le fattispecie di assistenza ai partecipi di banda armata, favoreggiamento personale commesso in relazione al delitto di associazione mafiosa e assistenza agli associati ostacolassero il rilievo autonomo del concorso esterno:

tali norme sono tutte pertinenti al rapporto tra l'agente e i singoli associati, senza alcuna interferenza, dunque, con la tematica del concorso eventuale, che configura una relazione tra esterno e gruppo nel suo complesso”.

Fu peraltro precisato che questa conclusione era possibile

senza necessariamente dover avvalorare la tesi di quanti (anche la sentenza DEMITRY) fanno leva sull'inciso "fuori dei casi di concorso nel reato" con cui si aprono gli artt. 307 e 418 c.p. (e pure l'art. 270 ter c.p.), per ammettere addirittura un riconoscimento esplicito del concorso esterno nel reato associativo già da parte del legislatore”.

Venne dunque sconfessato – forse anche denigrato come sembra suggerire quell’”addirittura” – l’argomento che la sentenza Demitry aveva considerato risolutivo per l’affermazione dell’origine legislativa del concorso esterno e che ancora oggi è proposto senza variazioni in numerose decisioni[8].

Nel passaggio successivo la sentenza Carnevale sconfessò seccamente la necessità di correlazione tra concorso esterno e fibrillazione della vita associativa affermata dalla decisione Demitry:

deve affermarsi che la fattispecie concorsuale sussiste anche prescindendo dal verificarsi di una situazione di anormalità nella vita dell'associazione”.

Ne seguì una diversa configurazione del contributo del concorrente esterno:

Il vero problema è invece nella individuazione del livello di intensità o di qualità idoneo a considerare il concorso dell'agente come concorso nel reato di associazione per delinquere […] Certo, non ogni contributo portato all'associazione può rientrare tout court nello schema del concorso eventuale. Anche qui dovranno esaminarsi: i dati fattuali della condotta "alla luce dei principi generali letti ed interpretati dal particolare angolo visuale imposto dalla interazione tra l'art. 110 e l'art. 416 bis c.p.". Ed allora dovrà dirsi che, se nel reato associativo il risultato della condotta tipica è la conservazione o il rafforzamento del sodalizio illecito (comunque voglia chiamarsi tale risultato: rafforzamento "dell'entità associativa nel suo complesso" o "mega-evento associativo" o ancora "dinamica organizzativo-funzionale dell'ente criminale"), qualora l'eventuale concorrente, nello specifico caso, possa ritenersi con sicurezza estraneo all'organizzazione […] lo stesso risultato deve esigersi dalla sua condotta: con ciò si vuol dire che il contributo richiesto al concorrente esterno deve poter essere apprezzato come idoneo, in termini di concretezza, specificità e rilevanza, a determinare, sotto il profilo causale, la conservazione o il rafforzamento dell'associazione […] Non può concordarsi, a tale riguardo, con quanti, anche tra coloro che non frappongono obiezioni sul piano dogmatico alla configurabilità in linea di principio del concorso esterno, giudicano una probatio diabolica quella tesa a dimostrare la reale incidenza di una singola condotta o anche di più condotte sulle sorti di una associazione criminale, soprattutto quando questa è di vaste dimensioni. Invero, l'accertamento del nesso causale nel concorso esterno non comporta di per sé difficoltà maggiori di quanto può comportare la individuazione di un caso di condotta interna o, più in generale, la individuazione di una condotta idonea ed univoca agli effetti del tentativo o la ricostruzione dei presupposti delle singole responsabilità colpose individuali nel quadro dell'esercizio di attività complesse, e via dicendo. Anche sotto il profilo in esame, quella della configurabilità della concorrenza esterna in un reato associativo, è pertanto una operazione interpretativa sicuramente compatibile con gli standard attuali, riconosciuti legittimi de jure condito, dei margini di determinatezza ed elasticità degli istituti giuridico-penali previsti nel nostro ordinamento”.

Fu conseguenziale riconoscere che

non è riconducibile, all'interno dello spettro delle condotte punibili di concorso eventuale, la sola "contiguità compiacente" o "vicinanza" o "disponibilità" nei riguardi del sodalizio o di suoi esponenti, anche di spicco, quando a siffatti atteggiamenti non si accompagnino positive attività che abbiano fornito uno o più contributi suscettibili, secondo i parametri prima accennati, di produrre un oggettivo apporto di rafforzamento o di consolidamento sull'associazione o anche su un suo particolare settore. Occorre, in altre parole, il compimento di specifici interventi indirizzati a questo fine. Ciò che conta, infatti, non è la mera disponibilità dell'esterno a conferire il contributo richiestogli dall'associazione, bensì l'effettività di tale contributo, e cioe che a seguito di un impulso proveniente dall'ente criminale il soggetto si è di fatto attivato nel senso indicatogli”.

Queste furono complessivamente le nuove coordinate tracciate dalle Sezioni unite Carnevale che portarono all’annullamento senza rinvio della sentenza impugnata dal ricorrente per insussistenza del fatto.

Era inesigibile per qualunque forma concorsuale e quindi anche per il concorso esterno la pretesa di tipizzare una condotta atipica per definizione.

Si poteva e si doveva invece intendere il concorso esterno come un contributo alla conservazione o al rafforzamento dell’associazione, rilevante anche in assenza di fibrillazioni o situazioni patologiche della vita associativa.

Il dolo del concorrente, di tipo diretto, doveva essere orientato verso l’evento tipico, cioè la permanenza in vita e l’operatività dell’associazione, ed essere alimentato dalla consapevolezza di apportare un contributo diretto alla realizzazione del programma criminoso “sociale”.

Il contributo doveva essere consistente, concreto, specifico e rilevante sicché non erano sufficienti a dargli vita atteggiamenti di mera compiacenza, vicinanza o disponibilità.

La dimostrazione del nesso causale tra condotta ed evento veniva configurata come un accertamento ex ante.

 

2.3. La sentenza Mannino[9]: l’attenzione ai limiti

Una nuova e significativa tappa del percorso del concorso esterno fu segnata dalla sentenza Mannino.

Il politico democristiano Calogero Mannino era stato accusato di concorso esterno in associazione mafiosa per avere utilizzato le sue attività, il suo potere e le sue relazioni a vantaggio di Cosa nostra allo scopo di farle ottenere provvedimenti di favore da parte di pubbliche amministrazioni e altre varie utilità.

Il suo ricorso, a richiesta della difesa, fu assegnato alle Sezioni unite.

Il collegio esordì confermando la configurabilità del concorso esterno e definì il concorrente come

il soggetto che, non inserito stabilmente nella struttura organizzativa dell’associazione mafiosa e privo dell’affectio societatis (che quindi non ne “fa parte”), fornisce tuttavia un concreto, specifico, consapevole e volontario contributo, sempre che questo abbia un’effettiva rilevanza causale ai fini della conservazione o del rafforzamento delle capacità operative dell’associazione (o, per quelle operanti su larga scala come “Cosa nostra”, di un suo particolare settore e ramo di attività o articolazione territoriale) e sia comunque diretto alla realizzazione, anche parziale, del programma criminoso della medesima”.

Precisò al tempo stesso che

siffatta opzione ermeneutica, favorevole in linea di principio alla configurabilità dell’autonoma fattispecie di concorso “eventuale” o “esterno” nei reati associativi, postula ovviamente che sussistano tutti i requisiti strutturali che caratterizzano il nucleo centrale significativo del concorso di persone nel reato. E cioè: - da un lato, che siano realizzati, nella forma consumata o tentata, tutti gli elementi del fatto tipico di reato descritto dalla norma incriminatrice di parte speciale e che la condotta di concorso sia oggettivamente e soggettivamente collegata con quegli elementi (arg. ex art. 115 cod. pen., circa la non punibilità del mero tentativo di concorso, nelle forme dell’accordo per commettere un reato e dell’istigazione accolta a commettere un reato, non seguite però dalla commissione dello stesso); - dall’altro, che il contributo atipico del concorrente esterno, di natura materiale o morale, diverso ma operante in sinergia con quello dei partecipi interni, abbia avuto una reale efficienza causale, sia stato condizione “necessaria” - secondo un modello unitario e indifferenziato, ispirato allo schema della condicio sine qua non proprio delle fattispecie a forma libera e causalmente orientate - per la concreta realizzazione del fatto criminoso collettivo e per la produzione dell’evento lesivo del bene giuridico protetto, che nella specie è costituito dall’integrità dell’ordine pubblico, violata dall’esistenza e dall’operatività del sodalizio e dal diffuso pericolo di attuazione dei delitti-scopo del programma criminoso. La particolare struttura della fattispecie concorsuale comporta infine, quale essenziale requisito, che il dolo del concorrente esterno investa, nei momenti della rappresentazione e della volizione, sia tutti gli elementi essenziali della figura criminosa tipica sia il contributo causale recato dal proprio comportamento alla realizzazione del fatto concreto, con la consapevolezza e la volontà di interagire, sinergicamente, con le condotte altrui nella produzione dell’evento lesivo del “medesimo reato”. E, sotto questo profilo, nei delitti associativi si esige che il concorrente esterno, pur sprovvisto dell’affectio societatis e cioè della volontà di far parte dell’associazione, sia altresì consapevole dei metodi e dei fini della stessa (a prescindere dalla condivisione, avversione, disinteresse o indifferenza per siffatti metodi e fini, che lo muovono nel foro interno) e si renda compiutamente conto dell’efficacia causale della sua attività di sostegno, vantaggiosa per la conservazione o il rafforzamento dell’associazione: egli “sa” e “vuole” che il suo contributo sia diretto alla realizzazione, anche parziale, del programma criminoso del sodalizio. In merito allo statuto della causalità, sono ben note le difficoltà di accertamento (mediante la cruciale operazione controfattuale di eliminazione mentale della condotta materiale atipica del concorrente esterno, integrata dal criterio di sussunzione sotto leggi di copertura o generalizzazioni e massime di esperienza dotate di affidabile plausibilità empirica) dell’effettivo nesso condizionalistico tra la condotta stessa e la realizzazione del fatto di reato, come storicamente verificatosi, hic et nunc, con tutte le sue caratteristiche essenziali, soprattutto laddove questo rivesta dimensione plurisoggettiva e natura associativa. E però, trattandosi in ogni caso di accertamento di natura causale che svolge una funzione selettiva delle condotte penalmente rilevanti e per ciò delimitativa dell’area dell’illecito, ritiene il Collegio che non sia affatto sufficiente che il contributo atipico – con prognosi di mera pericolosità ex ante – sia considerato idoneo ad aumentare la probabilità o il rischio di realizzazione del fatto di reato, qualora poi, con giudizio ex post, si riveli per contro ininfluente o addirittura controproducente per la verificazione dell’evento lesivo”.

Stigmatizzò l’indirizzo contrario:

L’opposta tesi, che pretende di prescindere dal paradigma eziologico, tende ad anticipare arbitrariamente la soglia di punibilità in contrasto con il principio di tipicità e con l’affermata inammissibilità del mero tentativo di concorso. D’altra parte, ferma restando l’astratta configurabilità dell’autonoma categoria del concorso eventuale “morale” in associazione mafiosa, neppure sembra consentito accedere ad un’impostazione di tipo meramente “soggettivistico” che, operando una sorta di conversione concettuale (e talora di sovvertimento dell’imputazione fattuale contestata), autorizzi il surrettizio e indiretto impiego della causalità psichica c.d. da “rafforzamento” dell’organizzazione criminale, per dissimulare in realtà l’assenza di prova dell’effettiva incidenza causale del contributo materiale per la realizzazione del reato: nel senso che la condotta atipica, se obiettivamente significativa, determinerebbe comunque nei membri dell’associazione criminosa la fiduciosa consapevolezza di poter contare sul sicuro apporto del concorrente esterno, e quindi un reale effetto vantaggioso per la struttura organizzativa della stessa. Occorre ribadire che pretese difficoltà di ricostruzione probatoria del fatto e degli elementi oggettivi che lo compongono non possono mai legittimare – come queste Sezioni Unite hanno già in altra occasione affermato (sent. 10 luglio 2002, Franzese, Foro it., 2002, II, 601) - un’attenuazione del rigore nell’accertamento del nesso di causalità e una nozione “debole” della stessa che, collocandosi sul terreno della teoria dell’“aumento del rischio”, finirebbe per comportare un’abnorme espansione della responsabilità penale. Ed invero, poiché la condizione “necessaria” si configura come requisito oggettivo della fattispecie criminosa, non possono non valere per essa l’identico rigore dimostrativo e il conseguente standard probatorio dell’“oltre il ragionevole dubbio” che il giudizio penale riserva a tutti gli elementi costitutivi del fatto di reato”.

In applicazione dei parametri stabiliti, le Sezioni unite annullarono con rinvio la sentenza di condanna inflitta al ricorrente dalla Corte territoriale.

 

[1] Il periodo virgolettato è tratto, con modifiche, da V. Giglio, Antichi e nuovi malesseri del diritto penale, in Filodiritto, 7 novembre 2018.

[2] Sezioni unite penali, 16/94

[3] Ne furono espressione, tra le tante, Cass. pen., Sez. I, 2342/1994 e 2348/1994. Così si legge nella motivazione di quest’ultima: “la c.d. partecipazione esterna, che ai sensi dell’art. 110 c.p., renderebbe responsabile colui che pur non essendo formalmente entrato a far parte di una consorteria mafiosa abbia tuttavia prestato al sodalizio un proprio ed adeguato contributo con la consapevole volontà di operare perché lo stesso realizzasse i suoi scopi, si risolve, in realtà, nel fatto tipico della partecipazione punibile, la quale deve ritenersi integrata da ogni contributo apprezzabile effettivamente apportato alla vita dell’ente ed in vista del perseguimento dei suoi scopi, mediante una fattiva e consapevole condivisione della logica di intimidazione e di dipendenza personale propria e del gruppo e nella consapevolezza del nesso causale del contributo stesso”, il che vale a dire che “l’unica forma di concorso di persone nel reato in questione è quella del concorso necessario perché ontologicamente connaturata alla particolare struttura della fattispecie e conforme alla vigente normativa in tema di concorso anche in relazione a quanto specificamente introdotto dalla citata legislazione inerente alla materia della criminalità organizzata”.

[4] Esprimono al meglio questa posizione, tra le altre, Cass. pen., Sez. I, 3492/1987; Sez. I, 23/11/1992; Sez. feriale, 3663/1994; Sez. I, 23 agosto 1994.

[5] Corte EDU, Sez. IV, Contrada c. Italia (n. 3), (Ricorso n. 66655/13), 14 aprile 2015.

[6] Sezioni unite penali, 22327/2003.

[7] Cass. pen., Sez. VI, 3299/2001.

[8] Tra le altre, Cass. pen., Sez. II, 22447/2016.

[9] Sezioni unite penali, 33748/2005.