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Condannato per maltrattamenti in famiglia: vale anche per il convivente

Ai fini della configurabilità del reato di maltrattamenti in famiglia non assume rilievo la circostanza che l’azione delittuosa sia commessa ai danni di persona convivente more uxorio. Infatti, il richiamo contenuto nell’art. 572 c.p. alla “famiglia” deve intendersi riferito ad ogni consorzio di persone tra le quali, per strette relazioni e consuetudini di vita, siano sorti rapporti di assistenza e solidarietà per apprezzabile periodo di tempo, ricomprendendo questa nozione anche la “famiglia di fatto”(1).

(1) La pronuncia della Corte di cui qui si dà conto interviene su una vicenda che, sebbene non certo inconsueta, non sembra aver dato vita a precedenti in termini di analogo tenore: essa, anzi, sembra costituire novità, da parte della S.C., in ambito familiare. In questa prospettiva, per apprezzare appieno la decisione, occorre partire dalla ricostruzione della vicenda come operata dal giudice e spiegata in parte motiva.

Un 45enne napoletano viene indagato per maltrattamenti in famiglia nei confronti della convivente "sottoposta per anni a continue violenze fisiche e morali". Il convenuto, opponendosi alla custodia cautelare inflittagli dal Tribunale di Napoli nel settembre scorso, davanti alla Suprema Corte ha contestato la sussistenza del reato previsto dall'art. 572 c.p., che punisce appunto i maltrattamenti in famiglia, sostenendo che l'attrice non era la moglie ma soltanto una "semplice convivente".

La Cassazione ha rigettato il ricorso affermando che anche chi convive instaura legami di "reciproca assistenza e protezione" al pari di una coppia sposata della quale spettano, quindi, gli stessi diritti e gli stessi doveri.

Tali diritti e doveri, peraltro, non vengono ad esistenza per il solo fatto di convivere sotto lo stesso tetto (come potrebbero fare due compagni di studi) ma si richiede, tra i conviventi, un elemento ulteriore che viene comunemente indicato come “affectio coniugalis”. Si coabita ma, allo stesso tempo, si è portatori di un progetto, di un afflato comune che vede nella realizzazione individuale e personale di ciascuno, la felicità e la realizzazione della coppia.

A riprovare  quanto appena affermato si prodiga, ragionando a contrario, una pronuncia, non più recentissima, secondo la quale i coniugi che vivono "separati in casa" possono ottenere la sentenza di scioglimento degli effetti civili del matrimonio pur continuando a vivere sotto lo stesso tetto e con gli stessi legami di solidarietà economica, perché quello che conta è che nella coppia non ci sia stata la riconciliazione intesa come "comunione spirituale", ossia la volontà di "riservare al coniuge la posizione di esclusivo compagno di vita". La Prima Sezione Civile della Cassazione si è quindi discostata così dal tradizionale orientamento della giurisprudenza di legittimità, che attribuiva alla ripresa della convivenza tra coniugi un effetto che interrompa la separazione, ritenendo che il semplice fatto di vivere sotto lo stesso tetto non è di per sé sintomo di una volontà di ristabilire l’unione coniugale, perché la convivenza può essere dovuta a circostanze contingenti (ad es. la difficoltà di reperire un alloggio) e, comunque, tra i coniugi può ugualmente mancare quella "comunione materiale" consistente nella "comune organizzazione della vita domestica". La Suprema Corte ha precisato che i giudici di merito devono considerare questi elementi prima di decidere se concedere o meno il divorzio ai “conviventi forzati”, perché spesso dietro la convivenza dei "separati in casa" si maschera il deterioramento di una unione che non è più quella di prima: insomma, per motivi "umanitari", si può convivere anche senza l’affectio coniugalis[1] ma, qualora questo sia presente, ai fini che qui rilevano, non v’è discrimine tra rapporto coniugale o convivenza more uxorio.

Gli ermellini, nel decidere la causa, pongono anzitutto in evidenza come non sia configurabile alcuna differenza tra sposi e conviventi in quanto anche le coppie di fatto sono una vera e propria famiglia. La sentenza ha inoltre precisato che ''ai fini della configurabilità del reato di maltrattamenti in famiglia non assume alcun rilievo la circostanza che l'azione delittuosa sia commessa ai danni di persona convivente more uxorio'', in quanto il richiamo alla famiglia contenuto nell'art. 572 c.p. ''deve intendersi riferito ad ogni consorzio di persone tra le quali, per strette relazioni e consuetudini di vita, siano sorti rapporti di assistenza e solidarietà per un apprezzabile periodo di tempo, ricomprendendo questa nozione anche la 'famiglia di fatto'''.

Analizzando, senza pretese di esaustività, il reato di cui all’articolo 572 c.p., si osserva come il fatto tipico in esso previsto consiste nella condotta di chi maltratta una persona della famiglia: la scarna definizione dell’elemento oggettivo del reato ha dato luogo a numerose incertezze causate dalla indeterminatezza della definizione normativa, emergendo palesemente soltanto il riferimento alla necessità che, per la configurazione del reato, debbano sussistere una pluralità di atti diretti a maltrattare il soggetto passivo[2]. Il legislatore, nella redazione della norma contenuta nell’articolo 572 c.p., ha dunque mostrato di volere fornire una tutela estesa e ad ampio raggio del bene giuridico in essa protetto, prevedendo una fattispecie causale pura o a forma libera che contempla qualsiasi tipo di maltrattamento, sia fisico che psicologico. In dottrina si è osservato come la condotta (commissiva o omissiva) del soggetto attivo possa consistere anche in atti di per sé privi di rilevanza penale ma che, nel contesto generale del maltrattamento e reiterati nel tempo, determinano la mortificazione e la lesione dei diritti personalissimi del familiare, nella specie del coniuge o del convivente more uxorio[3] .

La famiglia può diventare scenario di violenze e maltrattamenti che, oltre a determinare spesso l’inosservanza dei diritti e l’inadempimento degli obblighi nascenti dal matrimonio, comportano la lesione di diritti personalissimi di rilevanza penale, integrando, così, fattispecie incriminatici tipiche. In realtà, il fenomeno è molto ampio, coinvolgendo diversi beni giuridici penalmente rilevanti (l’onore, la libertà fisica, morale, la vita, la libertà sessuale,...) e distinti soggetti passivi tutti riferibili al contesto familiare (coniuge, conviventi more uxorio, figli,...), essenziale essendo che si possa parlare di un "rapporto tendenzialmente stabile, sia pure naturale e di fatto, instaurato fra due persone con legami di reciproca assistenza e protezione''. La tutela penale dunque, in linea di massima, è estensibile anche ai soggetti non legati da un vincolo matrimoniale tutte le volte in cui la relazione familiare rappresenta un mero presupposto per la sussistenza di situazioni giuridicamente rilevanti (es. 572 c.p.)[4].

Altro dato centrale è rappresentato dalla definizione di maltrattamento che, generalmente, viene inteso come un atto in grado di assumere un valore di disprezzo o di offesa alla dignità del coniuge, o del convivente, costringendolo a vere e proprie sofferenze psicofisiche[5]. Dunque, la norma di cui all’articolo 572 c.p. tende a valutare complessivamente la condotta realizzata nel tempo che, grazie al comune elemento soggettivo[6], può essere considerata e valutata nella sua complessità.

Ecco, ancora una volta, che il diritto viene esistenzializzato: l'essere delle cose prevale sulla loro forma, la sostanza travalica i confini delle impostazioni dogmatiche e dottrinarie e, ciò che si compie per deliberare, è un procedimento che "nasce dal basso", perché lì è la sorgente del diritto.

Il diritto è stato troppo spesso tacciato di lontananza dalla realtà perché, bisogna darne atto, dottrina e giurisprudenza si sono spesso occupate del sesso degli angeli, inventando e argomentando spesso come dei veri e propri Azzeccagarbugli, lontani dalla sostanza delle cose. Ecco un eccellente esempio contrario. Ecco l'art. 3 della Costituzione applicato concretamente. Ecco che, dopo una pronuncia simile, non si vede quale appiglio si possa ancora trovare per negare una parificazione tra coppie eterosessuali e omosessuali. La Cassazione parla chiaramente di "reciproca assistenza e protezione" che sono comportamenti, elementi propri della sfera del "fare" e del "sentire", scevri quindi di qualsiasi connotazione di genere o di specie.

Autorevole dottrina sosteneva che “Il genere è la categoria semiotica in cui si articola socialmente e culturalmente la differenza sessuale, in cui tale differenza assume valore e senso, si configura come ripartizione di ruoli e come gerarchia. Se il "sesso" può essere inteso come determinazione biologica, il genere è l'effetto dei discorsi sociali e dei segni stratificati nella storia umana. La categoria di genere riguarda direttamente la questione della complessa materia segnica di cui gli esseri umani sono costituiti, quello che Peirce ha chiamato l'"uomo-segno", vale a dire l'individuo come effetto di quelle procedure tutt'altro che naturali, necessarie o innate, ma di natura discorsiva, storica, ideologica, culturale”[7].

La prima indiretta previsione di una rilevanza giuridica del sesso dei cittadini è nel diritto di famiglia, che regola i rapporti fra i cittadini che intendono creare e mantenere un nucleo familiare. Nell'ordinamento italiano la famiglia giuridicamente prevista e tutelata è formata da una coppia monogamica ed eterosessuale, cioè formata da due soli individui di sesso diverso. La crescente influenza dei gruppi che rappresentano gli omosessuali ha di recente imposto al dibattito politico di occuparsi della possibilità di riconoscere anche nuclei familiari composti di coppie di individui dello stesso sesso, come già accade in altri paesi. E la pronuncia in esame altro non fa se dare conto della meritevolezza di questa equiparazione.

L'aver intorno modelli di coppia diversi da quelli che hanno popolato il mondo che ci ha cresciuti, implica l’assunzione di responsabilità della varietà e molteplicità delle situazioni possibili (in campo giuridico, meta giuridico, medico, storico e via di fila), consapevolezza fondamentale in un periodo così intenso di discussioni, di critica radicale ai ruoli sessuali, di voglia di stare insieme, ma anche di non sapere come fare. Sebbene la nostra Costituzione reciti che  “La Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio” (art. 29 Cost.)[8], dal 1948 i tempi sono cambiati ed è famiglia anche chi decide di unirsi senza matrimonio e, questo, a prescindere dal genere sessuale dei conviventi (non se ne trova, infatti, riferimento o menzione esplicita in nessun dettato normativo di rango). Questo pensiero è, sia consentito dire, avvalorato dalla constatazione che la famiglia è un fenomeno complesso che esiste e si manifesta nella società trascendendo il dato giuridico, in quanto essa non è mera creazione del diritto, ma il luogo in cui i singoli individui manifestano la loro personalità.

La famiglia, pertanto, si presenta innanzitutto come un fenomeno sociale originario e, come tale, dotata di dinamismo e mutevolezza nel corso delle epoche e dei costumi sociali: fenomeno che, dunque, solo in un momento successivo al suo divenire, riceve dalla legge una disciplina e un riconoscimento giuridico.

[1] Così Cass. civ., Sez. I, 21.03.2000, n.3323, Giust. Civ., 2000, I, 1324Arch. Civ., 2000, 693, nota di Curotti.

[2] In questi termini Miedico, Art. 572 in c.p. commentato, parte speciale, a cura di Dolcini e Marinucci, Milano, 1999, 2873 e ss.

[3] Ibidem, 2874 e ss.

[4] Diversamente accade quando il rapporto di coniugio rappresenta l’oggetto della norma penale, essendo, in questo caso, rilevante proprio la qualifica formale (es. 570 c.p.).

[5] In questo senso, Cass. penale 7.6.1996, in cassazione penale, 1997, 1733

[6] Sotto il profilo soggettivo, il dolo generico rappresenta l’elemento unificatore dei singoli atti, rappresentando il comune denominatore di una condotta reiterata e diretta ad una sopraffazione del soggetto passivo (di “dolo generico e unitario” parla Mazza, Maltrattamenti ed abuso dei mezzi di correzione, in Enciclopedia giuridica treccani, XIX, 1990, 6).

[7] Calefato, La legge e il corpo: il discorso giuridico-legale e il soggetto semiotico "incarnato", Conference Paper, Bologna, DC Publications, 1997.

[8] <<Proprio l’inciso “… società naturale fondata sul matrimonio” rappresenta, insieme, il riconoscimento della famiglia quale organismo sociale legato alle vicende dell’uomo ed esistente prima di qualsivoglia identificazione giuridica e, dall’altro lato, l’importanza del matrimonio quale momento imprescindibile di qualsiasi realtà familiare propriamente detta>> [Gazzoni, Manuale di diritto privato, VII, Napoli, 1998, 301 e ss.]. Tale orientamento è da ritenersi superato alla luce delle pronunce di cui qui si è dato atto.

Ai fini della configurabilità del reato di maltrattamenti in famiglia non assume rilievo la circostanza che l’azione delittuosa sia commessa ai danni di persona convivente more uxorio. Infatti, il richiamo contenuto nell’art. 572 c.p. alla “famiglia” deve intendersi riferito ad ogni consorzio di persone tra le quali, per strette relazioni e consuetudini di vita, siano sorti rapporti di assistenza e solidarietà per apprezzabile periodo di tempo, ricomprendendo questa nozione anche la “famiglia di fatto”(1).

(1) La pronuncia della Corte di cui qui si dà conto interviene su una vicenda che, sebbene non certo inconsueta, non sembra aver dato vita a precedenti in termini di analogo tenore: essa, anzi, sembra costituire novità, da parte della S.C., in ambito familiare. In questa prospettiva, per apprezzare appieno la decisione, occorre partire dalla ricostruzione della vicenda come operata dal giudice e spiegata in parte motiva.

Un 45enne napoletano viene indagato per maltrattamenti in famiglia nei confronti della convivente "sottoposta per anni a continue violenze fisiche e morali". Il convenuto, opponendosi alla custodia cautelare inflittagli dal Tribunale di Napoli nel settembre scorso, davanti alla Suprema Corte ha contestato la sussistenza del reato previsto dall'art. 572 c.p., che punisce appunto i maltrattamenti in famiglia, sostenendo che l'attrice non era la moglie ma soltanto una "semplice convivente".

La Cassazione ha rigettato il ricorso affermando che anche chi convive instaura legami di "reciproca assistenza e protezione" al pari di una coppia sposata della quale spettano, quindi, gli stessi diritti e gli stessi doveri.

Tali diritti e doveri, peraltro, non vengono ad esistenza per il solo fatto di convivere sotto lo stesso tetto (come potrebbero fare due compagni di studi) ma si richiede, tra i conviventi, un elemento ulteriore che viene comunemente indicato come “affectio coniugalis”. Si coabita ma, allo stesso tempo, si è portatori di un progetto, di un afflato comune che vede nella realizzazione individuale e personale di ciascuno, la felicità e la realizzazione della coppia.

A riprovare  quanto appena affermato si prodiga, ragionando a contrario, una pronuncia, non più recentissima, secondo la quale i coniugi che vivono "separati in casa" possono ottenere la sentenza di scioglimento degli effetti civili del matrimonio pur continuando a vivere sotto lo stesso tetto e con gli stessi legami di solidarietà economica, perché quello che conta è che nella coppia non ci sia stata la riconciliazione intesa come "comunione spirituale", ossia la volontà di "riservare al coniuge la posizione di esclusivo compagno di vita". La Prima Sezione Civile della Cassazione si è quindi discostata così dal tradizionale orientamento della giurisprudenza di legittimità, che attribuiva alla ripresa della convivenza tra coniugi un effetto che interrompa la separazione, ritenendo che il semplice fatto di vivere sotto lo stesso tetto non è di per sé sintomo di una volontà di ristabilire l’unione coniugale, perché la convivenza può essere dovuta a circostanze contingenti (ad es. la difficoltà di reperire un alloggio) e, comunque, tra i coniugi può ugualmente mancare quella "comunione materiale" consistente nella "comune organizzazione della vita domestica". La Suprema Corte ha precisato che i giudici di merito devono considerare questi elementi prima di decidere se concedere o meno il divorzio ai “conviventi forzati”, perché spesso dietro la convivenza dei "separati in casa" si maschera il deterioramento di una unione che non è più quella di prima: insomma, per motivi "umanitari", si può convivere anche senza l’affectio coniugalis[1] ma, qualora questo sia presente, ai fini che qui rilevano, non v’è discrimine tra rapporto coniugale o convivenza more uxorio.

Gli ermellini, nel decidere la causa, pongono anzitutto in evidenza come non sia configurabile alcuna differenza tra sposi e conviventi in quanto anche le coppie di fatto sono una vera e propria famiglia. La sentenza ha inoltre precisato che ''ai fini della configurabilità del reato di maltrattamenti in famiglia non assume alcun rilievo la circostanza che l'azione delittuosa sia commessa ai danni di persona convivente more uxorio'', in quanto il richiamo alla famiglia contenuto nell'art. 572 c.p. ''deve intendersi riferito ad ogni consorzio di persone tra le quali, per strette relazioni e consuetudini di vita, siano sorti rapporti di assistenza e solidarietà per un apprezzabile periodo di tempo, ricomprendendo questa nozione anche la 'famiglia di fatto'''.

Analizzando, senza pretese di esaustività, il reato di cui all’articolo 572 c.p., si osserva come il fatto tipico in esso previsto consiste nella condotta di chi maltratta una persona della famiglia: la scarna definizione dell’elemento oggettivo del reato ha dato luogo a numerose incertezze causate dalla indeterminatezza della definizione normativa, emergendo palesemente soltanto il riferimento alla necessità che, per la configurazione del reato, debbano sussistere una pluralità di atti diretti a maltrattare il soggetto passivo[2]. Il legislatore, nella redazione della norma contenuta nell’articolo 572 c.p., ha dunque mostrato di volere fornire una tutela estesa e ad ampio raggio del bene giuridico in essa protetto, prevedendo una fattispecie causale pura o a forma libera che contempla qualsiasi tipo di maltrattamento, sia fisico che psicologico. In dottrina si è osservato come la condotta (commissiva o omissiva) del soggetto attivo possa consistere anche in atti di per sé privi di rilevanza penale ma che, nel contesto generale del maltrattamento e reiterati nel tempo, determinano la mortificazione e la lesione dei diritti personalissimi del familiare, nella specie del coniuge o del convivente more uxorio[3] .

La famiglia può diventare scenario di violenze e maltrattamenti che, oltre a determinare spesso l’inosservanza dei diritti e l’inadempimento degli obblighi nascenti dal matrimonio, comportano la lesione di diritti personalissimi di rilevanza penale, integrando, così, fattispecie incriminatici tipiche. In realtà, il fenomeno è molto ampio, coinvolgendo diversi beni giuridici penalmente rilevanti (l’onore, la libertà fisica, morale, la vita, la libertà sessuale,...) e distinti soggetti passivi tutti riferibili al contesto familiare (coniuge, conviventi more uxorio, figli,...), essenziale essendo che si possa parlare di un "rapporto tendenzialmente stabile, sia pure naturale e di fatto, instaurato fra due persone con legami di reciproca assistenza e protezione''. La tutela penale dunque, in linea di massima, è estensibile anche ai soggetti non legati da un vincolo matrimoniale tutte le volte in cui la relazione familiare rappresenta un mero presupposto per la sussistenza di situazioni giuridicamente rilevanti (es. 572 c.p.)[4].

Altro dato centrale è rappresentato dalla definizione di maltrattamento che, generalmente, viene inteso come un atto in grado di assumere un valore di disprezzo o di offesa alla dignità del coniuge, o del convivente, costringendolo a vere e proprie sofferenze psicofisiche[5]. Dunque, la norma di cui all’articolo 572 c.p. tende a valutare complessivamente la condotta realizzata nel tempo che, grazie al comune elemento soggettivo[6], può essere considerata e valutata nella sua complessità.

Ecco, ancora una volta, che il diritto viene esistenzializzato: l'essere delle cose prevale sulla loro forma, la sostanza travalica i confini delle impostazioni dogmatiche e dottrinarie e, ciò che si compie per deliberare, è un procedimento che "nasce dal basso", perché lì è la sorgente del diritto.

Il diritto è stato troppo spesso tacciato di lontananza dalla realtà perché, bisogna darne atto, dottrina e giurisprudenza si sono spesso occupate del sesso degli angeli, inventando e argomentando spesso come dei veri e propri Azzeccagarbugli, lontani dalla sostanza delle cose. Ecco un eccellente esempio contrario. Ecco l'art. 3 della Costituzione applicato concretamente. Ecco che, dopo una pronuncia simile, non si vede quale appiglio si possa ancora trovare per negare una parificazione tra coppie eterosessuali e omosessuali. La Cassazione parla chiaramente di "reciproca assistenza e protezione" che sono comportamenti, elementi propri della sfera del "fare" e del "sentire", scevri quindi di qualsiasi connotazione di genere o di specie.

Autorevole dottrina sosteneva che “Il genere è la categoria semiotica in cui si articola socialmente e culturalmente la differenza sessuale, in cui tale differenza assume valore e senso, si configura come ripartizione di ruoli e come gerarchia. Se il "sesso" può essere inteso come determinazione biologica, il genere è l'effetto dei discorsi sociali e dei segni stratificati nella storia umana. La categoria di genere riguarda direttamente la questione della complessa materia segnica di cui gli esseri umani sono costituiti, quello che Peirce ha chiamato l'"uomo-segno", vale a dire l'individuo come effetto di quelle procedure tutt'altro che naturali, necessarie o innate, ma di natura discorsiva, storica, ideologica, culturale”[7].

La prima indiretta previsione di una rilevanza giuridica del sesso dei cittadini è nel diritto di famiglia, che regola i rapporti fra i cittadini che intendono creare e mantenere un nucleo familiare. Nell'ordinamento italiano la famiglia giuridicamente prevista e tutelata è formata da una coppia monogamica ed eterosessuale, cioè formata da due soli individui di sesso diverso. La crescente influenza dei gruppi che rappresentano gli omosessuali ha di recente imposto al dibattito politico di occuparsi della possibilità di riconoscere anche nuclei familiari composti di coppie di individui dello stesso sesso, come già accade in altri paesi. E la pronuncia in esame altro non fa se dare conto della meritevolezza di questa equiparazione.

L'aver intorno modelli di coppia diversi da quelli che hanno popolato il mondo che ci ha cresciuti, implica l’assunzione di responsabilità della varietà e molteplicità delle situazioni possibili (in campo giuridico, meta giuridico, medico, storico e via di fila), consapevolezza fondamentale in un periodo così intenso di discussioni, di critica radicale ai ruoli sessuali, di voglia di stare insieme, ma anche di non sapere come fare. Sebbene la nostra Costituzione reciti che  “La Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio” (art. 29 Cost.)[8], dal 1948 i tempi sono cambiati ed è famiglia anche chi decide di unirsi senza matrimonio e, questo, a prescindere dal genere sessuale dei conviventi (non se ne trova, infatti, riferimento o menzione esplicita in nessun dettato normativo di rango). Questo pensiero è, sia consentito dire, avvalorato dalla constatazione che la famiglia è un fenomeno complesso che esiste e si manifesta nella società trascendendo il dato giuridico, in quanto essa non è mera creazione del diritto, ma il luogo in cui i singoli individui manifestano la loro personalità.

La famiglia, pertanto, si presenta innanzitutto come un fenomeno sociale originario e, come tale, dotata di dinamismo e mutevolezza nel corso delle epoche e dei costumi sociali: fenomeno che, dunque, solo in un momento successivo al suo divenire, riceve dalla legge una disciplina e un riconoscimento giuridico.

[1] Così Cass. civ., Sez. I, 21.03.2000, n.3323, Giust. Civ., 2000, I, 1324Arch. Civ., 2000, 693, nota di Curotti.

[2] In questi termini Miedico, Art. 572 in c.p. commentato, parte speciale, a cura di Dolcini e Marinucci, Milano, 1999, 2873 e ss.

[3] Ibidem, 2874 e ss.

[4] Diversamente accade quando il rapporto di coniugio rappresenta l’oggetto della norma penale, essendo, in questo caso, rilevante proprio la qualifica formale (es. 570 c.p.).

[5] In questo senso, Cass. penale 7.6.1996, in cassazione penale, 1997, 1733

[6] Sotto il profilo soggettivo, il dolo generico rappresenta l’elemento unificatore dei singoli atti, rappresentando il comune denominatore di una condotta reiterata e diretta ad una sopraffazione del soggetto passivo (di “dolo generico e unitario” parla Mazza, Maltrattamenti ed abuso dei mezzi di correzione, in Enciclopedia giuridica treccani, XIX, 1990, 6).

[7] Calefato, La legge e il corpo: il discorso giuridico-legale e il soggetto semiotico "incarnato", Conference Paper, Bologna, DC Publications, 1997.

[8] <<Proprio l’inciso “… società naturale fondata sul matrimonio” rappresenta, insieme, il riconoscimento della famiglia quale organismo sociale legato alle vicende dell’uomo ed esistente prima di qualsivoglia identificazione giuridica e, dall’altro lato, l’importanza del matrimonio quale momento imprescindibile di qualsiasi realtà familiare propriamente detta>> [Gazzoni, Manuale di diritto privato, VII, Napoli, 1998, 301 e ss.]. Tale orientamento è da ritenersi superato alla luce delle pronunce di cui qui si è dato atto.