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Convivente more uxorio: si applica la causa di non punibilità?

Convivente more uxorio
Convivente more uxorio

Le circostanze di esclusione della pena configurano casi limite in cui, pur in presenza di un fatto oggettivamente corrispondente ad una fattispecie di reato, la pena non viene irrogata in quanto risulta immotivata ed iniqua. Si assiste, pertanto, ad uno sfibramento del principio di obbligatorietà della norma penale, il quale postula un intimo collegamento tra la perpetrazione dell’illecito e l’irrogazione della pena.

Attesa l’eccezionalità del fenomeno connesso alle cause di esclusione della pena appare quanto mai imperante limitarne un impiego atipico e generalizzato, così da prevenire eventuali forme di abuso. Pertanto, il principio di tassatività si impone come un limite sostanziale nei confronti dell’interprete nella fase ermeneutico-applicativa della norma che prevede una circostanza di esclusione della pena. Tale principio postula generalmente un divieto di applicazione analogica della norma penale in malam partem. Si preclude così l’estensione della norma a casi che presentano una eadem ratio rispetto a quelli strettamente riconducibili al suo significato letterale, ogni qual volta questo possa comportare effetti sfavorevoli al reo.

L’orientamento ad oggi prevalente nella giurisprudenza, anche sovranazionale, riconosce il carattere non assoluto del divieto de quo ed ammette l’analogia delle norme penali favorevoli al reo, sempreché sussista una lacuna non intenzionale del legislatore e non si tratti di norme eccezionali espressamente oggetto di divieto ai sensi dell’articolo 14 delle preleggi.

Si profila dunque la possibile operatività dell’analogia con effetti in bonam partem, anche in relazione a quelle norme non qualificabili come eccezionali in quanto espressive di principi generali, che prevedono cause di non punibilità, nel rispetto dei limiti di corrispondenza della eadem ratio e di lacuna involontaria del legislatore.

Il problema si pone in ragione della complessità e dell’ampiezza del genus delle cause di non punibilità, comprensivo di ipotesi spiccatamente eterogenee tra loro. La sistematica del codice penale non fornisce una definizione unitaria di tali circostanze, limitandosi a delimitarne, agli articoli 59 e 119, il regime giuridico di operatività. A tal fine, la dottrina ha individuato tre principali categorie dogmatiche delle circostanze di esclusione della pena. Invero, tale tripartizione costituisce uno strumento utile per orientare l’interprete in sede applicativa, anche in vista della loro possibile estensione a fattispecie non espressamente contemplate dal legislatore.

La prima categoria si riferisce alle cause di non punibilità in senso stretto, le quali sottendono una valutazione politico-criminale di inopportunità dell’irrogazione della pena pur in presenza di un fatto tipico, antigiuridico e colpevole. Di conseguenza, il legislatore ritiene preminente la tutela di un interesse diverso rispetto a quello già tutelato dalla norma incriminatrice, che viene ad esso preferito giustificando così la mancanza della sanzione penale. Si tratta di circostanze risolutive della pena, che subordinano la non punibilità del fatto illecito al loro verificarsi in concreto.

Secondo la teoria quadripartita del reato, la presenza di una causa di non punibilità in senso stretto esclude la sussistenza del reato, la cui struttura non può dirsi completa in difetto della possibilità di irrogare la sanzione.

La maggior parte delle cause di non punibilità in senso stretto operano successivamente al compimento del fatto e sottendono un incentivo del legislatore ad una controazione dell’agente al fine di evitare, o quantomeno, contenere gli effetti derivanti dal perfezionamento della condotta illecita. In tal senso opera la desistenza volontaria nel tentativo, il ravvedimento operoso in materia tributaria e la ritrattazione nella falsa testimonianza: si tratta di circostanze tutte dirette ad evitare la cristallizzazione dell’attività criminale.

Tanto considerato, si comprende il carattere eccezionale della norma che introduce una causa di non punibilità in senso stretto. L’eccezionalità sottende un divieto esplicito di applicazione analogica delle circostanze in esame, postulando la loro necessaria tipicità. La scelta di iniquità ed immeritevolezza della pena si fonda su valutazioni oculate di politica criminale rimesse al dictum esclusivo del legislatore.

La seconda categoria delle circostanze di esclusione della pena si riferisce alle scusanti, anche note come esimenti.

Queste ultime escludono la colpevolezza per effetto di una valutazione di inesigibilità di una condotta alternativa da parte del soggetto agente. In situazioni estreme in cui si verifica un profondo turbamento emotivo, tale da influire direttamente sul processo esecutivo dell’azione, il soggetto agente è posto di fronte ad un aut aut e non può far altro che ledere il bene tutelato dalla norma.

Dinanzi ad un fatto tipico ed antigiuridico, sebbene non rimproverabile soggettivamente all’agente per effetto dell’impossibilità di esperire una condotta alternativa a quella effettivamente posta in essere, la pena viene esclusa. Proprio in virtù della peculiarità soggettiva di tali circostanze, l’orientamento prevalente scongiura l’applicazione analogica delle norme che le prevedono, considerandole come tassative ed eccezionali.

Tuttavia, secondo un orientamento minoritario, le norme sulle esimenti troverebbero applicazione ogni qual volta sia impossibile esigere una condotta alternativa da parte dell’agente nel caso concreto e, dunque, opererebbero in un regime di atipicità, oltre i casi espressamente previsti dal legislatore. Questa impostazione ermeneutica, che riconosce una categoria generale dell’inesigibilità presidiata proprio dalle scusanti, trasla la valutazione di inesigibilità dalla sfera del legislatore a quella del giudice, con il rischio di escludere a dismisura l’irrogazione della pena nel caso concreto.

L’ultima categoria delle circostanze di esclusione della pena comprende le cause di giustificazione, anche dette scriminanti.

Secondo la tesi maggiormente accolta in dottrina e giurisprudenza, in linea con la teoria tripartita del reato, le scriminanti escludono l’antigiuridicità del fatto rendendolo lecito al vaglio dell’intero ordinamento giuridico. L’offesa appare pienamente corrispondente a quella tipizzata dalla norma incriminatrice, tuttavia non integra nessun tipo di illecito e viene giustificata dall’ordinamento giuridico complessivamente considerato.

La presenza della scriminante genera pertanto un’antinomia normativa che si sostanzia in un contrasto tra la fattispecie incriminatrice, che sanziona il fatto per tutelare un certo interesse, e la norma autorizzatoria che, prevedendo la scriminante, lo rende invece lecito per il perseguimento di un altro interesse. Il conflitto si risolve accordando preminenza alla norma speciale, che non incide sulla fattispecie incriminatrice ma ne va a restringere semplicemente il campo di applicazione.

La norma autorizzatoria non è qualificabile come una norma eccezionale in quanto è espressiva di principi generali dell’ordinamento giuridico e, nella maggior parte dei casi, è una norma extra-penale. Sulla base di tale assunto, c’è chi ammette la possibile applicazione analogica delle scriminanti.

Tuttavia tale assunto, se da un lato prospetta un’apertura verso l’analogia, dall’altro non la consente automaticamente. Invero, l’analogia, postulando la sussistenza di una lacuna involontaria del legislatore che omette deliberatamente di ricomprendere certi casi analoghi all’interno della fattispecie astratta, mal si concilia con le norme autorizzatorie che, nella maggior parte dei casi, sono “a fattispecie esclusiva”.

Nello specifico, il legislatore esclude la possibile estensione della causa di giustificazione a casi analoghi individuando espressamente le fattispecie alle quali può applicarsi e prescrivendo requisiti puntuali e indefettibili. Se ne deduce che, pur essendo norma speciale, extra-penale e non eccezionale, la norma autorizzatoria sottende una lacuna volontaria del legislatore in relazione ai casi non espressamente contemplati che ne preclude ogni possibile applicazione analogica.

Il difficile inquadramento sistematico delle fattispecie in una della tre categorie delle circostanze di esclusione della pena è particolarmente sentito nel caso della causa di non punibilità di cui all’articolo 384, comma 1, Codice Penale.

Tale disposizione è da tempo oggetto di una vexata quaestio in merito alla sua natura giuridica. Secondo l’orientamento prevalente in dottrina andrebbe inquadrata tra le scusanti poiché sottende una situazione di conflitto interiore fra l’obbligo giuridico di collaborare con la giustizia ed il dovere morale di tutelare la propria vita familiare, che impone in capo all’agente l’inesigibilità di una condotta alternativa.

Si contrappone un orientamento minoritario che fa leva sul contenuto della relazione al Codice Penale, in base al quale l’articolo 384 Codice Penale, trattandosi di una species dello stato di necessità di cui all’articolo 54 Codice Penale, sarebbe qualificabile come una scriminante.

In entrambi i casi la condotta non è punibile in quanto è imposta dalla necessità di salvare se stessi o un prossimo congiunto da un danno grave e inevitabile alla libertà e all’onore. La ratio della causa di esclusione della pena è duplice e si sostanzia da un lato nella tutela del cerchio familiare e, dall’altro, nell’esigenza di una corretta amministrazione della giustizia.

Tuttavia, con il passare del tempo la portata applicativa dell’esimente ha risentito dell’evoluzione e dei cambiamenti delle relazioni familiari non prevedibili al momento della produzione normativa, che hanno reso quanto mai imperante una rivisitazione della nozione di prossimo congiunto.

Nello specifico, si è posto il problema di estendere l’applicazione dell’articolo 384 anche alle parti di un’unione civile e ai conviventi more uxorio. Per quanto attiene al primo profilo, la possibile applicazione della scusante anche in presenza di un danno alla libertà e all’onore della parte di un’unione civile è stata confermata da un intervento legislativo ad hoc (Decreto Legislativo 6/2017), che ha equiparato la tutela giuridica delle unioni civili tra soggetti dello stesso sesso a quella prevista per la famiglia basata sul matrimonio (articolo 574 ter).

Tale approdo normativo, in realtà, ha recepito un orientamento giurisprudenziale già orientato in tal senso in ragione della stabilità del vincolo presente in entrambe le dinamiche familiari. La causa di non punibilità ai sensi dell’articolo 384 Codice Penale richiama in modo implicito l’articolo 307, comma 4, Codice Penale in quanto norma definitoria della nozione di coniuge. Tale disposizione, nella sua formulazione attuale, include, apertis verbis, la parte di un’unione civile tra i prossimi congiunti agli effetti della legge penale.

Un approdo così immediato non può parimenti ricavarsi per quanto concerne l’estensione della causa di non punibilità al convivente more uxorio. Per tale si intende, ai sensi dell’articolo 1.36 della legge 76/2020, il maggiorenne che sia parte di un’unione stabile caratterizzata da legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale. Diversamente dall’unione civile tra persone dello stesso sesso, la convivenza di fatto non è equiparata quoad effecta alla famiglia tradizionale. Il tracciato normativo persegue un approccio neutrale e si limita a riconoscere l’esistenza di una situazione di fatto, tendenzialmente stabile, lasciando carta bianca all’autonomia privata in merito alla regolamentazione dei rapporti di convivenza.

La problematica sull’estensione o meno dell’esimente al convivente more uxorio ha suscitato un rilevante contrasto ermeneutico che si inscrive in un mutato contesto sociale nel quale prolifera, in un numero sempre più crescente, il fenomeno in questione. Secondo una prima tesi, l’estendibilità dell’articolo 384 Codice Penale al convivente more uxorio sarebbe preclusa alla luce dell’impostazione codicistica. In quanto esimente speciale, l’articolo 384 Codice Penale si configura come una norma eccezionale che sottende una valutazione di inesigibilità di una condotta alternativa compiuta ex ante dal legislatore, e pertanto insuscettibile di applicazione analogica.

In aggiunta, la tesi negativa sarebbe supportata anche da un’argomentazione adeguatrice. La convivenza more uxorio ha una copertura costituzionale all’articolo 2 come formazioni sociale ove si svolge la personalità del singolo, mentre la famiglia tradizionalmente intesa è tutelata dall’articolo 29 Costituzione.

La Corte Costituzionale ha riconosciuto, pertanto, come legittimo e fondato un trattamento differenziale tra le due diverse dinamiche familiari alla luce del principio di ragionevolezza. caratterizza la categoria.  In tal senso si è pronunciata anche la corte EDU in relazione all’art 8 della CEDU, escludendone la violazione nel caso in cui gli Stati Membri non riconoscano al convivente more uxorio la facoltà di astensione nei procedimenti penali.

La Convenzione lascia una certa discrezionalità al legislatore degli Stati Membri di estendere o meno tale facoltà ma non sanziona omessa estensione. Tale impostazione appare coerente anche alla luce di un bilanciamento degli interessi in gioco: la tutela dell’amministrazione della giustizia può dirsi recessiva solo quando il contesto familiare da preservare si sostanzia in un affetto caratterizzato da vincolo stabile.

A corroborare questa tesi interviene anche un argomento sistematico. Il legislatore, per effetto del Decreto Legislativo 6/2017, ha volontariamente parametrato la nozione di prossimo congiunto ex 307 Codice Penale alla sola parte di un’unione civile e non anche al convivente more uxorio. Si tratta, pertanto, di una lacuna volontaria che preclude qualsivoglia interpretazione analogica. La medesima ratio legis trova conferma in ambiti contigui all’articolo 672 Codice Penale e all’art 199 Codice Procedura Penale, dove il legislatore ha voluto oculatamente estendere la disciplina anche al convivente e lo ha fatto espressamente.

Diversamente, la tesi contraria, ponendosi maggiormente in linea con l’evoluzione delle dinamiche relazionali a livello sociale, sostiene la possibile estensione dell’esimente anche al convivente more uxorio. A supportare tale tesi rileva la prospettazione della possibile applicazione analogica in bonam partem delle esimenti.

Come già rilevato in precedenza, una parte della dottrina ritiene applicabili le cause che escludono la colpevolezza ogni qual volta sia inesigibile in concreto una condotta alternativa da parte dell’agente, prospettando pertanto la presenza di scusanti atipiche. A favorire l’analogia in questo caso rileva il carattere involontario della lacuna legislativa prospettabile nella definizione di prossimo congiunto ai sensi dell’articolo 307.4 Codice Penale.

Nello stesso verso depone anche un’argomentazione storico-sistematica che fa leva sull’orientamento giurisprudenziale consolidatosi già in una fase precedente all’intervento normativo del Decreto Legislativo 6/2017 e diretto nel senso di estendere la qualifica di prossimo congiunto sia alla parte civile che al convivente di fatto.

Tale impostazione ermeneutica fa leva altresì su un’interpretazione estensiva, costituzionalmente e convenzionalmente orientata. L’assetto sovranazionale di tutela della famiglia ai sensi della CEDU si pone infatti in un’ottica funzionale e dinamica. Il bene giuridico tutelato è la formazione sociale non come istituzione statica, ma piuttosto in relazione al suo profilo evolutivo. Pertanto, la nozione di prossimo congiunto fornita dalla norma definitoria ex articolo 307 Codice Penale è da intendersi come un catalogo esemplificativo ma non esaustivo.

Inoltre, l’esimente è espressione del principio di rango costituzionale del nemo tenetur se detegere, esteso anche alle persone legate da vincoli affettivi, che trova riconferma a livello sovranazionale all’ articolo 6 CEDU.

Infine, a comprovare la tesi di una svista involontaria del legislatore si pongono diverse disposizioni normative, tra cui l’articolo 672 e l’articolo 199 Codice Procedura Penale, che operano in ambiti affini e pertanto sono sintomatiche di una voluntas legis orientata verso una piena equiparazione della convivenza di fatto alle altre dinamiche familiari.

Tanto considerato, l’accoglimento della tesi positiva all’estensione sottende una lettura a carattere evolutivo della concezione di famiglia, così come tutelata dall’articolo 29 della Costituzione.

Al fine di assicurare agli effetti di legge il processo di equiparazione del fenomeno di convivenza di fatto al tradizionale modello familiare fondato sul matrimonio, sarebbe auspicabile, in una prospettiva de iure condendo, un intervento normativo funzionalmente mirato in tal senso. Contrastare il self restraint del legislatore mostrato verso l’evoluzione sociale dei nuovi dinamismi familiari appare quanto mai indispensabile al fine di garantire una speciale protezione del vincolo affettivo e del progetto di vita comune che viene ad istaurarsi anche nel contesto di una convivenza di fatto.

La meta auspicata è quella di un nuovo statuto giuridico della famiglia nucleare, equiordinata e giuridicamente unitaria, che sia definitivamente improntato al principio costituzionale dell’uguaglianza morale e giuridica dei coniugi.