Corruzione impropria per il parlamentare che viola il mandato dei suoi elettori
È stata pubblicata l’11 settembre la sentenza n. 40347/18 resa dalla sesta sezione penale della Corte di Cassazione per il caso di corruzione che concerneva la pattuizione, intervenuta nel 2006, tra Silvio Berlusconi e Sergio De Gregorio, con l’aiuto di Valter Lavitola, avente ad oggetto la promessa e la successiva erogazione della somma complessiva di euro 3.000.000,00 in cambio dell’impegno assunto dall’ex Senatore e Presidente della Commissione Difesa, di far cadere il Governo Prodi.
Secondo la prospettazione fattuale offerta dalla Sentenza di primo grado del Tribunale di Napoli confermata in grado di appello, sebbene quest’ultima abbia dichiarato l’assoluzione per intervenuta prescrizione, confermando tuttavia la condanna civile degli imputati a risarcire il danno in favore del costituito Senato della Repubblica, l’allora leader di Forza Italia, avrebbe inteso in tal modo indurre il Senatore, eletto nelle liste del centro sinistra, a dare il suo supporto politico affinchè venisse assicurata una rapida crisi di governo.
La difesa di entrambi gli esponenti politici ha di converso ribattuto che il Senatore ha comunque agito seguendo il suo personale sentire politico, quale uomo del centro-destra, tornato nel suo schieramento dopo la fugace alleanza con il centro-sinistra.
La Cassazione sorvolando su tali considerazioni, ha comunque ritenuto la configurabilità della corruzione, sebbene nella forma c.d. impropria che si manifesta anche quando il denaro o l’utilità siano erogate per indurre a fare ciò che dovrebbe comunque esser fatto, vertendosi in ogni caso in ipotesi di illecito mandato imperativo con la messa a disposizione della funzione parlamentare del senatore, sì da limitarne l’autonomia e la libertà.
A sostegno, la Corte ha rimarcato come i Giudici di merito hanno reputato del tutto irrilevante a fini ricostruttivi, il passaggio di De Gregorio da uno schieramento all’altro o la concreta verifica dei suoi convincimenti politici, avendo invece rilevato la stretta correlazione tra le dazioni promesse e l’esercizio delle funzioni parlamentari, a tal fine prospettando la costituzione di un illecito mandato imperativo, comportante asservimento e messa a disposizione, qualificata correttamente come illecita, poiché discendente da mercimonio.
La Corte ha invece riconosciuto largo respiro agli argomenti difensivi volti a contrastare l’assunto accusatorio sostenuto dai Giudici di merito in ordine alla configurabilità di una corruzione propria per atto contrario ai doveri d’ufficio dell’ex Senatore.
Ricordiamo infatti che la condanna in primo grado, era stata formulata per il reato di cui all’articolo 319 codice penale nella sua vecchia formulazione antecedente la riforma del 2012 (“Il Pubblico ufficiale che per omettere o ritardare o per aver omesso o ritardato un atto contrario ai doveri d’ufficio, riceve, per sé o per altri, denaro o altra utilità, o ne accetta la promessa, è punito con la reclusione da quattro a otto anni”) configurandosi in tal modo, una ipotesi di reato per corruzione c.d. propria, che si concretizza nel compimento di un atto frutto della violazione di uno specifico dovere d’ufficio.
Senonchè, nel caso in esame, osservano i Supremi Giudici, il parlamentare non può ritenersi assoggettato ai doveri di imparzialità e di buon andamento, trattandosi di canoni non correlabili ad alcun parametro di comparazione: il parlamentare è libero di esprimere nel modo che preferisce l’interesse della Nazione, quand’anche si risolva ad assecondare liberamente intendimenti altrui.
In tale ottica, prosegue la Corte, può affermarsi che nei confronti del Parlamentare non è mai configurabile il reato di corruzione c.d. propria ex articolo 319 codice penale (per atti contrari ai doveri di ufficio), ostandovi il principio costituzionale circa l’immunità parlamentare e il divieto di mandato imperativo (articoli 67 e 68 della Costituzione).
È invece prospettabile l’ipotesi delittuosa meno grave della corruzione c.d. impropria così come sussunta nell’articolo 318 codice penale in relazione all’articolo 321 codice penale, nella sua vecchia formulazione anteriore alla riforma del 2012 (“Il pubblico ufficiale che, per l’esercizio delle sue funzioni o dei suoi poteri, indebitamente riceve per sé o per un terzo, denaro o altra utilità o ne accetta la promessa, è punito con la reclusione da uno a cinque anni”) e consistita nel vulnus all’immagine del parlamentare, tale da inficiarne la correttezza e la dignità, a fronte dell’indebita retribuzione riconosciutagli.
Elemento caratterizzante di tale delitto è dunque il pactum sceleris tra il soggetto corrotto e il soggetto corruttore, implicando la sua progressiva attuazione, con la consapevolezza delle parti di procedere rispettivamente alle erogazioni e al concreto svolgimento dell’attività di senatore, cui le erogazioni erano destinate.
La Corte ha così confermato l’assoluzione per intervenuta prescrizione, pur dopo l’inquadramento della fattispecie nell’ambito del descritto reato di pericolo e non più di danno, confermando le statuizioni civili in favore del senato della Repubblica costituitosi parte civile, rimesse comunque alla determinazione del giudice civile che dovrà tener conto della diversa qualificazione giuridica del fatto.