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Costituzione e normativa anti Covid-19

Lecce Palazzo Barocco
Ph. Antonio Capodieci / Lecce Palazzo Barocco

Come è noto con il D.L. 127/2021 l’Ordinamento giuridico italiano, novellando il precedente D.L. 52/2021(convertito con modificazioni dalla L. 87/2021), fa obbligo al Personale delle Amministrazioni Pubbliche lato sensu intese (art. 1), ai Magistrati (art. 2) e ai Lavoratori del settore privato (art. 3) di possedere e di esibire, se richiesti, la c.d. “certificazione verde COVID-19” contemplata all’art. 9, co. II dello stesso D.L. 52/2021.

Essa è necessaria, in virtù della citata norma, non già per lo svolgimento dell’attività lavorativa in senso proprio, ma segnatamente “ai fini dell’accesso ai luoghi di lavoro”, dizione che per i Magistrati è prudentemente sostituita con un riferimento agli “uffici giudiziari ove [essi (nda)] svolgono la loro attività”.

Restano ovviamente esclusi dalla disciplina in parola (ubi lex voluit dixit, ubi noluit tacuit) tutti coloro i quali, pur variamente a contatto con il pubblico, e più correttamente dovrebbe dirsi a contatto con altri soggetti, non rientrano nella categoria dei lavoratori dipendenti in quanto estranei a un rapporto di lavoro subordinato; o in quella dei lavoratori autonomi in quanto estranei allo svolgimento di un’attività imprenditoriale, o comunque estranei allo svolgimento di un’attività intrinsecamente caratterizzata dai requisiti della professionalità, comunque mutuabili, in parte qua, dalla vasta Letteratura sulla nozione di imprenditore sub art. 2082 c.c.

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Per esempio restano esclusi i volontari che collaborano a vario titolo con l’organizzazione di «eventi»; gli studiosi cc.dd. non-strutturati; i religiosi, compreso il Clero secolare; gli espositori occasionali in fiere, sagre o mercati; i pensionati che si dedicano ad attività ricreative o di volontariato; i possidenti che traggono profitti e sostentamento dalle loro rendite da capitale; coloro i quali concludono contratti fra privati nell’ambito di affari sporadici; i coltivatori che producono essenzialmente per autoconsumo et similia.

Essi tutti, infatti – e l’elenco riporta solamente alcuni esempii –, non svolgono “una attività lavorativa nel settore privato” intesa in senso proprio, eppertanto caratterizzata in se dal requisito della professionalità intrinseca, ma si dedicano a impegni di varia natura, per le più disparate finalità (morali, intellettuali, ludiche, personali, sociali et coetera), senza che l’impegno stesso postuli o manifesti i necessarii e inevitabili requisiti organizzativi e contrattuali, i quali sono essenzialmente proprii dell’attività lavorativa e i quali la caratterizzano e qualificano intrinsecamente come tale.

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Che poi vi sia o vi possa essere un occasionale rilievo economico di queste attività, esso è un dato ovviamente inidoneo a cangiarne la natura. Ciò che importa, infatti, non è l’eventuale «momento» dello scambio, la presenza di un sinallagma lato sensu inteso, quanto piuttosto la sostanziale deficienza di un rapporto di lavoro alla base, sia esso considerato, sotto il profilo del lavoro dipendente, come rapporto di assunzione (locatio operarum) – anche «di fatto» eppertanto irregolare sotto altri aspetti (fiscali, previdenziali et similia) –; ovvero, sotto il profilo del lavoro autonomo, come committenza o appalto nella sua più amplia, e forse anche impropria, accezione (locatio operis).

Ciò che discerne le attività in parola da “una attività lavorativa nel settore privato” intesa in senso tecnico, dunque, è la carenza ab imis – mutuiamo la dizione dal citato art. 2082 c.c. – di una struttura professionalmente “organizzata al fine della produzione o dello scambio di beni o di servizi”.

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Lo stesso discorso vale, peraltro, anche e a fortiori per le casalinghe che attendono alle faccende domestiche al posto del personale di servizio; per i nonni che badano ai nipoti in luogo della bambinaia; per le sorelle maggiori che apparecchiano il pranzo ai fratelli non essendo disponibile la cameriera; per la persona che accompagna l’amico in automobile essendo irreperibile l’autista, o non volendosi servire dei mezzi pubblici; per il collega che aiuta lo studente meno preparato in luogo del maestro o del precettore et coetera.

Né può dirsi, anche in questi casi, che l’eventuale compenso o emolumento variamente percepito ed erogato a fronte dell’impegno profuso trasformi tale impegno in “una attività lavorativa nel settore privato”. Ciò sarebbe assurdo e illogico – come abbiamo prima detto – oltrecché impraticabile sullo stesso piano operativo; oltretutto, ciò imporrebbe, coerentemente, anche l’applicazione a tutti questi casi e agl’altri consimili dell’intiero compendio normativo in materia fiscale, previdenziale, assistenziale et coetera che punto si applica alle varie attività lavorative nel settore privato…

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Si tratta, tornando allora alle norme sub D.L. 127/2021, di un «ampliamento», mutatis mutandis, della disciplina già prevista per i cc.dd. Operatori sanitarii dall’art. 4 del D.L. 44/2021 (convertito con modificazioni dalla L. 76/2021); anche se, in confronto a questa, sussistono (almeno) due differenze di non poco momento.

Da un lato, infatti, ai cc.dd. Operatori sanitarii non è richiesta la citata certificazione verde, ma è segnatamente imposto l’obbligo vaccinale, obbligo il quale non è pertanto surrogabile nemmeno dall’esito negativo del c.d. test molecolare o del c.d. test antigenico rapido; e dall’altro, in relazione ai citati Operatori sanitarii, l’obbligo de quo non è configurato come condizione necessaria ai fini dell’accesso ai luoghi di lavoro, quanto piuttosto esso è concepito alla stregua di un “requisito essenziale per l’esercizio della professione e per lo svolgimento delle prestazioni lavorative dei soggetti obbligati”…

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Ebbene, senza entrare troppo nel merito della questione concernente il c.d. Personale sanitario (questione che a quanto pare non interessa nemmeno agli Ordini professionali…), e constatando che rispetto alla disciplina applicabile a questo, quella relativa ai Lavoratori pubblici e privati degli altri settori è indubbiamente meno «invasiva», e forse anche meno contraddittoria, dobbiamo pur rilevare la singolarità e per certi versi l’assurdità che essa appalesa.

Invero, il fatto di considerare la vaccinazione un “requisito essenziale per l’esercizio della professione”, come è il titolo di studio, l’abilitazione professionale, l’iscrizione all’Ordine et similia, equivale a confondere già sul piano tecnico i requisiti oggettivi che attengono alla professione stessa sotto il profilo della competenza, dell’inquadramento professionale, della disciplina normativa e deontologica et coetera, con le condizioni soggettive del professionista riferibili alla di lui condizione fisica lato sensu intesa e parametrate all’adempimento della specifica obbligazione professionale cui egli è attualmente chiamato.

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Il requisito essenziale per l’esercizio della professione, infatti, attiene all’oggettività della stessa, al suo an – se così possiamo dire –, ed esso opera un necessario discrimen tra colui il quale è medico (infermiere, tecnico radiologo, fisiatra et coetera) e colui il quale medico (infermiere, tecnico radiologo, fisiatra et coetera) non è, per restare al caso de quo, semplificando in termini assoluti; esso dice, in una parola, che cosa occorra per potere legittimamente assumere (e mantenere) un determinato status professionale.

Altra cosa, viceversa, è la condizione o il compendio di condizioni che il professionista, in quanto tale, «abile» dunque sul piano oggettivo, deve soggettivamente soddisfare per potere di fatto svolgere la propria attività in determinate condizioni e in determinati contesti operativi. E questo secondo aspetto dipende, concretamente e in casibus, non già dai requisiti essenziali per l’esercizio della professione, dati per iscontati, quanto piuttosto dalla natura della prestazione richiesta al professionista, o per meglio dire dall’attuale «combinazione» tra condizione soggettiva del professionista medesimo e natura della prestazione cui egli è chiamato.

Requisito essenziale per l’esercizio della professione medica, per esempio, è il titolo abilitativo, ottenuto il quale sul piano dell’oggettività, il medico, mutatis mutandis, può esercitare la propria arte senza incorrere nel reato di esercizio abusivo della professione sub art. 348 c.p.; che poi un dato medico, in considerazione della prestazione attualmente richiestagli, non sia nella condizione soggettiva per potere lavorare, per esempio a causa di un’invalidità fisica, esso è un aspetto che non attiene affatto ai requisiti essenziali per l’esercizio della professione, quanto piuttosto esso attiene alle condizioni soggettive che, in relazione a uno specifico adempimento professionale, il medico stesso deve attualmente soddisfare.

Per esempio: una patologia invalidante sul piano fisico potrebbe essere ostativa rispetto allo svolgimento, da parte di un medico-chirurgo, di un determinato intervento o di qualunque intervento, a seconda dei casi; essa, allora, farebbe venire meno le condizioni soggettive necessarie alla pratica chirurgica in relazione al dato medico e al dato intervento. Ciò non significa, però, che la peculiare condizione fisica del professionista determini in lui il venire meno dei requisiti essenziali per l’esercizio della professione medica, tant’è vero che il medico in questione, inabile all’intervento chirurgico, per ipotesi, potrebbe essere perfettamente abile sul piano fisico (ma anche intellettuale e morale) a fornire prestazioni di altra natura (per esempio consulenze, viste, prescrizioni farmacologiche et coetera).

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Di fatto la deficienza dei requisiti essenziali per l’esercizio della professione comporta l’esercizio abusivo della stessa, rilevante, come cennato, anche sul piano penale; viceversa l’assunzione di un’obbligazione professionale da parte del professionista inabile ad adempierla per le più disparate ragioni, formali o sostanziali,  al netto di ogni considerazione sul piano deontologico, assume un rilevo solamente nell’ipotesi che si verifichi un danno conseguente all’inadempimento della prestazione medesima dovuto alla deficienza de qua, il quale danno, infatti, potrebbe comportare una più severa qualificazione della condotta colposa del professionista come imprudente, punto avendo operato, egli, in condizioni di consapevole non-idoneità (se poi vi possa essere anche spazio per considerare la possibilità del dolo eventuale, essa è una diversa questione, pur rilevante, sulla quale in questa sede non ci soffermiamo).

Gli esempii potrebbero proseguire in positivo e in negativo, ma non giova dilungarsi.

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In che cosa rileva questo discorso con riferimento alla questione in disamina? A nostro avviso il dato interessante è triplice.

Un primo spetto è già stato considerato e concerne l’assurda qualificazione della vaccinazione alla stregua di un “requisito essenziale per l’esercizio della professione e per lo svolgimento delle prestazioni lavorative dei soggetti obbligati” e non invece alla stregua di una condizione soggettiva per l’accesso ai luoghi di lavoro, come è per gli altri Lavoratori e come sarebbe più coerente che fosse. Si tratta di un errore che lascia trasparire molte cose: improvvisazione legislativa (diremo dilettantismo, absit iniuria verbis), mancanza di una visione globale, totale carenza di un anche minima padronanza del problema e di dominio dei concetti.

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Un secondo aspetto, dipendente da questo, concerne il compendio di conseguenze cui incorre il personale sanitario renitente alla vaccinazione.

Ebbene, la prima e più immediata conseguenza dovrebbe essere, per i nuovi medici, l’impossibilità di iscriversi all’Albo professionale (e forse, prima ancora, di conseguire l’abilitazione), difettando, essi, di un requisito essenziale allo stesso esercizio della professione; mentre per quelli già «in servizio» dovrebbe consistere nella radiazione dall’Albo professionale dovuta alla deficienza di un “requisito essenziale per l’esercizio della professione”, per norma sopravvenuto (lex posterior deroga priori) rispetto a quelli vigenti al tempo dell’iscrizione.

Un tanto dovrebbe comportare, per il personale dipendente da Strutture pubbliche o private, la conseguente cessazione tout-court del rapporto di lavoro, essendo essi decaduti dallo status professionale contrattualmente richiesto.

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La normativa, però, contraddittoriamente rispetto a sé stessa, non prevede questo; almeno non lo prevede in termini attuali ed espliciti. Con tanto entriamo allora nel merito del terzo aspetto.

L’art. 4 co. VI del citato D.L. 44/2021 stabilisce che “l’azienda sanitaria locale competente accerta l’inosservanza dell’obbligo vaccinale e […] ne dà immediata comunicazione scritta all’interessato, al [di lui (nda)] datore di lavoro e all’Ordine professionale di appartenenza, [e che (nda)] l’adozione dell’atto di accertamento [… de quo (nda)] determina la sospensione [del professionista (nda)] dal diritto di svolgere prestazioni o mansioni che implicano contatti interpersonali o comportano, in qualsiasi altra forma, il rischio di diffusione del contagio da SARS-CoV-2”.

La qualcosa significa che la mancata vaccinazione non determina il venire meno, per il professionista renitente, di un requisito essenziale all’esercizio della professione, ma solo comporta la deficienza di un presupposto soggettivo formale (rectius formalistico, come vedremo) ritenuto ex lege necessario per i contatti interpersonali di natura professionale, la quale deficienza, peraltro, è considerata dalla norma stessa configurabile e integrabile solo all’interno di un precipuo arco temporale. Il co. IX del medesimo art. 4, infatti, precisa che “la sospensione di cui al comma 6 mantiene efficacia fino all’assolvimento dell’obbligo vaccinale o, in mancanza, fino al completamento del piano vaccinale nazionale e comunque non oltre il 31 dicembre 2021”. E ancora una volta la disciplina legislativa nega che la vaccinazione si sostanzi in un “requisito essenziale per l’esercizio della professione”: se così fosse, infatti, anche il meccanismo «obliquo» della sospensione dovrebbe durare fintanto che il requisito stesso venga integrato, e non già fino a un termine convenzionalmente stabilito ex lege.

Ciò non significa, tuttavia – lo rileviamo en passant – che il coinvolgimento dell’Ordine di appartenenza, ribadito al precedente co. VII, a mente del quale “la sospensione di cui al comma 6 è comunicata immediatamente all’interessato dall’Ordine professionale”, non possa essere foriera di ulteriori equivoci «contro» i medici renitenti.

Senz’altro essa potrebbe essere foriera di problemi di carattere deontologico, inquantocché la renitenza alla vaccinazione potrebbe essere considerata atto contrario alla scienza e alla coscienza mediche deliberatamente compiuto dal professionista, se non per sottrarsi agli oneri della propria arte, senz’altro accettando la sospensione dagli stessi, e ciò… in forza di un atto di implicita «sfiducia» nei confronti della c.d. scienza ufficiale, e più coerentemente dovrebbe dirsi nei confronti della «verità» legale o di Stato.

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Non solo: il problema, oltre che formale, è anche sostanziale, e prima ancora esso è logico.

Consideriamo questo: la sospensione conseguente al rifiuto della vaccinazione ha per oggetto il diritto del professionista sanitario “di svolgere prestazioni o mansioni che implicano contatti interpersonali o [che (nda)] comportano, in qualsiasi altra forma, il rischio di diffusione del contagio da SARS-CoV-2”; dunque rileviamo che legibus sic stantibus non gli interdetto, a seguito della citata sospensione, l’esercizio della professione tout-court, ma solo gli sono impediti quegli aspetti della stessa professione i quali implichino “contatti interpersonali”, o i quali comportino “il rischio di diffusione del contagio”, impregiudicati gli altri.

Invero, qualora il professionista sanitario sia dipendente pubblico o privato, la medesima norma, al co. VIII, prevede che “il datore di lavoro adibisca [congiuntivo nostro (nda)] il lavoratore, ove possibile, a mansioni, anche inferiori, diverse da quelle indicate al comma 6”.

Ciò significa che la ratio della disposizione normativa in disamina non è rappresentata da un intento profilattico rispetto alla salute del destinatario dell’obbligo vaccinale che essa stessa impone – il medico o comunque il professionista sanitario in parola –, quanto piuttosto essa è cautelativa rispetto al “rischio di diffusione del contagio” dovuto ai contatti interpersonali di natura professionale.

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La cosa non è di poco momento, ed essa impone una riflessione di carattere generale.

Se la ratio è questa, infatti – ed essa è questa, proprio perché il medico renitente non è sospeso dalle pratiche della sua arte che non comportino il citato “rischio di diffusione del contagio” – non s’intende per quale motivo l’obbligo vaccinale  de quo non possa essere validamente surrogato e non sia surrogabile dalla certificazione dell’esito negativo del c.d. test molecolare o del c.d. test antigenico rapido, i quali, peraltro, più ancora dell’avvenuta vaccinazione che nulla dice circa l’attuale stato di salute del vaccinato, dimostrano l’inidoneità attuale di colui il quale vi si sia sottoposto a diffondere un patogeno estraneo al suo corpo, e dunque ad accrescere il “rischio di diffusione del contagio”.

Sotto questo profilo, allora, non si comprende perché la disciplina sub D.L. 127/2021 non abbia in parte qua novellata e adattata al proprio «modello alternativo» quella contenuta nell’articolato del precedente D.L. 44/2021, dedicato ai cc.dd. esercenti le professioni sanitarie. Né potrebbe fondatamente dirsi che il Decreto-legge successivo abbia novellato sotto questo profilo quello precedente, poiché sul criterio c.d. temporale prevale sempre e necessariamente quello relativo alla specialità (lex specialis, derogat legi generali).

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Non solo: v’è un’altra questione che a nostro avviso merita di essere quantomeno segnalata: l’imposizione dell’obbligo vaccinale, infatti, si presta a una duplice lettura.

Da un lato essa può avere come finalità il bene dell’obbligato consistente nella preservazione della di lui salute, e come effetto secondario l’eradicazione del patogeno; dall’altro essa può avere come fine principale l’eradicazione del patogeno e il contenimento dei contagi, adoperando strumentalmente l’obbligato come mezzo funzionale alla lotta biologica, non primariamente rilevando il di lui bene personale-individuale.

E come può agevolmente intendersi, le prospettive sono assolutamente divergenti: non si tratta di un problema legato all’uso più o meno convenzionale delle «parole» o alla contrapposizione ideologica tra varii punti di vista, ma si tratta di un aspetto sostanziale e fondativo. Sul tema rinviamo alle note di Danilo Castellano già apparse in questa Rubrica (Costituzione, ordinamento giuridico, vaccinazioni, 17 Agosto 2021). È ovvio, comunque, che se il bene primario e primariamente meritevole di tutela sia rappresentato dalla salute della persona, l’obbligo vaccinale è in se legittimo, o esso può essere considerato in se legittimo, nella sola ipotesi che la vaccinazione imposta non comporti rischio alcuno per colui il quale vi si deve sottoporre. Viceversa se l’obiettivo primario è rappresentato dalla sanità lato sensu intesa come eradicazione del patogeno… ogni mezzo può essere adoperato, ogni sacrificio individuale può essere imposto e accettato. In questo caso, però, occorre prendere coscienza del fatto che la persona cesserebbe di essere considerata soggetto e scadrebbe al rango di una res, di una res particolare, probabilmente, ma pur sempre di una res.

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Ritorniamo al testo del recente D.L. 127/2021, che tante e diffuse «reazioni» ha provocato.

La normativa in parola prevede che coloro i quali non dispongano della predetta certificazione verde siano “considerati assenti ingiustificati fino alla presentazione della [… stessa (nda)] e, comunque, non oltre il 31 dicembre 2021, termine di cessazione dello stato di emergenza, senza conseguenze disciplinari e con diritto alla conservazione del rapporto di lavoro”. Essa prevede altresì che “per i giorni di assenza ingiustificata non sono dovuti la retribuzione né altro compenso o emolumento, comunque denominato”.

Si tratta, com’è evidente, di una disposizione normativa a efficacia temporale limitata (le disposizioni in parola, infatti, estendono l’obbligo de quo fino al 31 Dicembre 2021) e latrice di un compendio «sanzionatorio» difficilmente leggibile.

Non solo: si tratta anche di una disposizione la quale, facendo riferimento all’art. 9 del D.L. 52/2021, equipara ex lege, ai fini della titolarità del c.d. certificato verde, soggetti in condizioni molto diverse: coloro ai quali sia stata somministrata la vaccinazione, e coloro i quali si siano sottoposti agli esami antigenici o molecolari risultando negativi alla presenza del patogeno.

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Consideriamo innanzitutto l’aspetto sanzionatorio, il quale sembra essere passato – come si dice – sotto silenzio anche presso associazioni, sindacati, partiti e altre organizzazioni nominalmente (e storicamente) vocate alla c.d. tutela dei lavoratori.

La «sanzione» prevista dalla normativa de qua per i renitenti alla vaccinazione, e comunque per coloro i quali non dispongano della citata certificazione verde, consiste nella sospensione dal lavoro senza retribuzione e nella qualificazione dell’assenza come ingiustificata, per quanto l’assenza ingiustificata, in questo caso, non possa dare luogo a ulteriori conseguenze di carattere disciplinare (ulteriori, è inteso, rispetto alla sospensione…).

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Il punto è delicato e involge diverse questioni. Una prima concerne proprio la qualificazione dell’assenza come ingiustificata: si tratta di una qualificazione erronea e contraddittoria rispetto alla stessa ratio della norma che la contempla.

Da un lato, infatti, un’assenza ingiustificata non foriera di conseguenze disciplinari rappresenta un assurdo logico, forse anche un ossimoro: le conseguenze disciplinari in materia di assenze, infatti, operano proprio quando esse siano ingiustificate, ed è segnatamente la natura ingiustificata dell’assenza che le innesca. Peraltro l’assenza ingiustificata dal lavoro rappresenta, al di là e prima di ogni altro aspetto disciplinare, una forma di colpevole inadempimento contrattuale del dipendente essendo egli venuto meno – appunto ingiustificatamente – all’obbligazione assunta col contratto di lavoro e consistente nella prestazione delle proprie opere.

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Dall’altro lato, poi, occorre rilevarsi che il lavoratore il quale non presti la propria attività professionale essendovi impedito per l’indisponibilità della citata certificazione verde, non è ingiustificatamente assente dal lavoro, cioè assente sine causa, quanto piuttosto egli è assente proprio perché e in quanto egli stesso, difettando del titolo abilitante (la certificazione in parola) è impedito per norma di adempiere la propria obbligazione.

Di talché la di lui assenza è non solo giustificata, ma addirittura imposta, o, se si preferisce, essa è giustificata perché e in quanto imposta dalla Legge; è legale in senso tecnico.

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Anzi, più corretto ancora sarebbe dire che il lavoratore sprovvisto della c.d. certificazione verde non è egli assente dal luogo di lavoro, quanto piuttosto egli è impedito di accedervi; egli non si sottrae, ma è escluso; egli non è, coeteris paribus, inadempiente, ma gli è rifiutato, respinto, l’adempimento.

E non si tratta – si badi – di un’impossibilità «interna» al debitore, in questo caso al lavoratore; ma si tratta di un impedimento «esterno» e indipendente dalla di lui volontà, di un impedimento… normativo stricto sensu. Il quale impedimento, peraltro, se opera in positivo per il lavoratore, conculcandolo nel suo diritto di adempiere la propria obbligazione contrattuale, esso opera consentaneamente in negativo per il datore di lavoro impedendogli di riceverla. Di talché, il lavoratore non potrebbe in questo caso nemmeno costituire in istato di mora credendi il datore di lavoro, giacché è la stessa norma a impedire a quest’ultimo di ricevere la di lui prestazione e di mettere il debitore in condizioni di adempierla.

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Sotto questo profilo, allora, pare del tutto inconferente ogni riferimento pur autorevole all’art. 2087 c.c. a mente del quale “l’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”.

E il riferimento è inconferente – a nostro avviso – per due ordini di ragioni: da un lato perché la specialità della norma sub D.L. 127/2021 sopperirebbe anche all’eventuale necessità o possibilità (logica) di un’interpretazione lato sensu estensiva ed eccentrica della disposizione codicistica in parola. E dall’altro, sovrattutto, perché la ratio del citato articolo non mira a tutelare il lavoratore da pericoli «esterni» alle prestazioni richiestegli dal datore di lavoro, quasi considerando quest’ultimo, paternalisticamente, tutore e custode della salute dei suoi dipendenti; ma mira a tutelarlo dai pericoli interni – se così possiamo dire – al processo produttivo cui il lavoratore stesso è destinano, e ciò proprio perché il processo produttivo cui il lavoratore è destinano dipende, in sé, dall’organizzazione dei mezzi predisposta dall’imprenditore per l’esercizio della sua impresa, onde da lui deve coerentemente dipenderne anche il compendio di provvidenze funzionali alla tutela dell’integrità fisica di coloro i quali ne usano ai termini del contratto di lavoro.

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Non solo, la sospensione dal lavoro con la correlata sospensione delle retribuzioni pone anche, e al di là di quanto supra rilevato, una ulteriore questione di carattere sostanziale: diverso, invero, è il concreto effetto che la sospensione de qua o, ancora prima, la minaccia normativa della sua attuazione comporta a seconda del destinatario e delle precipue condizioni di lui.

È chiaro, infatti, che in relazione a colui il quale dipenda in toto per il sostentamento proprio e della propria famiglia dalla retribuzione che egli percepisce adempiendo la propria obbligazione lavorativa, attraverso la minaccia della sospensione, conseguente al mancato ottenimento della c.d. certificazione verde, è surrettiziamente introdotto l’obbligo di questa, il quale obbligo, concretamente, viene a sostanziarsi o nell’obbligo vaccinale, o nell’obbligo di sottoporsi agli esami antigenici o molecolari previsti dalla norma.

Quest’ultima alternativa, però, da un lato è onerosa sul piano economico, ed essa impone al lavoratore una spesa la quale non è scontato che egli possa affrontare; e dall’altro essa è gravosa sotto il profilo operativo, giacché la limitata durata della c.d. certificazione verde conseguente all’esito negativo degli esami de quibus comporta la necessità di reiterarne l’iter con periodicità e modalità tali da potere essere non o non sempre compatibili con gli stessi orarii o con le stesse condizioni di lavoro.

Di talché, l’alternativa ipotetica tra vaccinazione o esami, preveduta in abstracto dalla Legge, concretamente può sostanziarsi in un obbligo vaccinale, e ciò almeno per coloro i quali, dipendendo dalla retribuzione, non possano sottoporsi ai cc.dd. testi antigenici o molecolari per ragioni di ordine economico o per ragioni di ordine organizzativo.

Ma è legittima – anche stando solo alle rationes generali dell’Ordinamento – l’introduzione obliqua e indiretta di un obbligo vaccinale?

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Né può dirsi, tornando al problema prima cennato, che la natura ingiustificata dell’assenza derivi dalla ritenuta ingiustificata opzione del Lavoratore di sottrarsi alla vaccinazione o di non sottoporsi all’esame, poiché né la prima né il secondo possono ritenersi e sono per legge imposti. Almeno non lo sono esplicitamente e al netto di quanto supra osservato.

E anche leggendo la questione in termini meramente positivistici non vi è margine logico per operare un vaglio valoriale sopra l’opzione del lavoratore proprio perché a monte, lo stesso Legislatore, ha rinunziato allo strumento imperativo ad appannaggio del c.d. diritto all’autodeterminazione terapeutica, peraltro in conformità alla Giurisprudenza costituzionale (si vedano, per esempio, le sentenze 163/1993; 332/2000; 162/2014) e alle recenti novità legislative in materia di c.d. «libertà» di cura (basti considerale la L. 219/2017 per averne un quadro chiaro).

Proprio l’assenza di una previsione legislativa in tale senso (sulla legittimità della quale, comunque, sarebbe ampliamente da discutersi), allora, depone a favore della sostanziale e formale liceità della scelta operata dal Lavoratore medesimo. E siccome qui suo iure utitur neminem laedit, onde colui il quale eserciti un’opzione legalmente possibile non può essere per questo soggetto a «sanzione», o comunque a conseguenze pregiudizievoli, ancora una volta non si vede come possa qualificarsi come ingiustificata l’assenza dal lavoro che ne consegue.

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Al di là di questo, tuttavia, risulta particolarmente interessante considerare che la norma in disamina conculca in parte qua il c.d. diritto al lavoro del dipendente, proprio impedendogli di accedere ai luoghi nei quali egli sarebbe contrattualmente tenuto a svolgere le mansioni di sua competenza, sulla base di un compendio di presunzioni ribaltato già sul piano logico.

E con tanto entriamo nell’ambito dell’altro problema interno alla normativa considerata, consistente nell’eterogenea struttura formativa del c.d. certificato verde.

L’impedimento in parola, infatti, non rappresenta, nell’economia della Legge, l’effetto di una valutazione attuale e positiva concernente le concrete condizioni del lavoratore, esso non è ostacolo per un pericolo concreto e attuale positivamente accertato, rilevato, constatato; ma viceversa esso rappresenta la conseguenza negativa di una presunzione astratta e per così dire inversa.

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Rileviamo, allora, che impedito di accedere ai luoghi di lavoro è non solo il dipendente infetto, il portatore, quindi, di un attuale rischio per la propria e per l’altrui salute (impedimento perfettamente legittimo per i più elementari principii di giustizia e di etica sanitaria), ma segnatamente colui il quale non integri la fattispecie normativa astratta concernente la citata certificazione verde, sulla base di un giudizio a priori relativo alla potenziale pericolosità (sanitaria) dell’interessato.

In altre parole, giusta il disposto delle norme de quibus, del lavoratore si presume sempre la pericolosità sanitaria, salvo che egli vinca e superi la presunzione medesima nei modi stabiliti dalla Legge e segnatamente con l’esibizione del c.d. certificato verde. Esso, però – ecco il punctum dolens – pone sullo stesso piano ed equipara quoad effectum situazioni sensibilmente differenti e non affatto sovrapponibili, proprio considerando la ratio interna alla norma de qua.

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Altra, invero, è la condizione di colui il quale si sia vaccinato e altra è la condizione di colui il quale risulti attualmente non-infetto. Vero è che nel primo caso opera, rispetto all’inidoneità dell’interessato a diffondere il contagio, una mera presunzione legale (deve ritenersi iuris tantum), mentre nel secondo caso vi è la concreta constatazione di un «dato biologico».

Il c.c. certificato verde del quale dispone il soggetto sottopostosi alla profilassi vaccinale, infatti, si basa su aspetti lato sensu formali e dipende da un meccanismo presuntivo operato dal Legislatore, nella migliore delle ipotesi in virtù di una certa lettura dei dati statistici. La vaccinazione, invero, né impedisce in senso assoluto l’infezione, né impedisce il contagio; e ciò proprio in quanto l’immunizzazione operata dal vaccino – sempre stando ai dati – non è né assoluta, né totale. Il soggetto vaccinato, dunque, titolare del c.d. certificato verde, potrebbe essere infetto e potrebbe diffondere il virus pur risultando, sotto questo profilo, abile al lavoro e alle altre attività subordinate al possesso della c.d. certificazione verde. Anzi… proprio la disponibilità del «lascia-passare» ne fa un potenziale veicolo franco per il virus, sottratto a qualsivoglia controllo.

Viceversa coloro i quali risultano negativi al patogeno all’esito dei già citati esami antigenici o molecolari cui essi si sono sottoposti, dànno concreta e attuale prova della loro inidoneità a diffondere il contagio, non essendo, essi, attualmente portatori del virus.

Di talché la salubrità dei luoghi di lavoro, letta sotto il profilo della citata disciplina; il contenimento dei contagii; l’attenuazione, se non l’eliminazione, del pericolo legato alla diffusione del patogeno et coetera, non trovano efficace, compiuta e prudente realizzazione attraverso la verifica formale dell’assolvimento dell’obbligo vaccinale, quanto piuttosto essi troverebbero e trovano migliore e più sicura realizzazione attraverso la verifica dell’esito negativo degli esami antigenici o molecolari, i quali soli offrono – se così possiamo dire – la prova regina.

Non si comprende, allora, come, perché e su quali basi sia stata operata una tale sovrapposizione delle due distinte situazioni, né si comprende come, a titolo d’esempio, per l’accesso ai luoghi di lavoro possa essere sufficiente la vaccinazione e come possa ritenersi che essa sia sufficiente a scongiurare il pericolo del contagio e della connessa diffusione del virus.

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I profili di problematicità, comunque, non si riducono a questi: rilevano quantomeno altri due aspetti.

Innanzitutto rileva l’assenza, nell’articolato del citato D.L. 127/2021, di una previsione analoga a quella sub art. 4 co. VIII del D.L. 44/2021 in materia di professioni sanitarie, a mente della quale il personale non vaccinato può essere adibito a “mansioni, anche inferiori, diverse” da quelle che implicano “contatti interpersonali” o che comportano “il rischio di diffusione del contagio”.

Ciò significa che il Legislatore, impedendo l’accesso ai luoghi di lavoro a chiunque non abbia la citata certificazione verde, indipendentemente dalla natura e dalle modalità attuative dell’attività cui il lavoratore è tenuto, ha adottata una misura evidentemente sproporzionata e ingiustificata già sul piano logico. Sotto un certo profilo essa è anche inutilmente afflittiva. Essa, infatti, non tiene adeguatamente conto delle oggettive differenze tra le varie mansioni lavorative in rapporto all’idoneità di colui il quale vi è addetto a rappresentare un pericolo concreto per la diffusione del virus.

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Sotto questo rispetto, allora, il Legislatore avrebbe violata la stessa disciplina sub art. 3 cost. in tema di c.d. eguaglianza sostanziale, riservando il medesimo trattamento normativo a situazioni essenzialmente differenti e conculcando in modo ingiustificato un diritto – quello di adempiere le prestazioni lavorative – anche nell’ipotesi nella quale il suo esercizio fosse concretamente inidoneo a rappresentare un attuale pericolo.

Ciò che farebbe difetto già sul piano della tecnica costituzionale dei diritti, allora, sarebbe il c.d. meccanismo del bilanciamento, inquantocché un’attività ritenuta (pur assurdamente) fondativa rispetto alla stessa Repubblica, cioè il lavoro ex art. 1 cost., verrebbe impedita per ragioni di tutela della sanità pubblica lato sensu intesa anche nell’ipotesi nella quale la preservazione di quest’ultima potrebbe essere egualmente e adeguatamente perseguita e conseguita attraverso discipline meno «invasive» e più… ragionevoli.

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In secondo luogo – ma il discorso è connesso – la normativa de qua rileva una totale assenza di diversificazione della disciplina che essa prescrive rispetto alle distinte posizioni e attività lavorative. La norma, infatti, ancora una volta incorrendo nel medesimo vulnus, neppure distingue le varie tipologie di lavoro in relazione al pericolo che essa stessa intende scongiurare. Per esempio la norma non discerne i lavori all’aperto dai lavori al chiuso; quelli a contatto con il pubblico da quelli che tale contatto non contemplano; i lavori che richiedono una cooperazione tra colleghi da quelli svolti in autonomia et similia. In altri termini la norma condiziona l’accesso ai luoghi di lavoro, e dunque la possibilità di adempierne la relativa obbligazione, al possesso della c.d. certificazione verde anche qualora il rischio di diffusione del contagio sia sostanzialmente nullo in virtù della peculiare attività svolta e delle peculiari mansioni del lavoratore. Un esempio fra i molti – per certi aspetti tranchant – potrebbe essere quello che lavoratori agricoli che non vengono adibiti al contatto con il pubblico e che svolgono la loro attività in autonomia e all’aperto. Ebbene, come può ritenersi ragionevole e proporzionato, non lesivo del c.d. principio di eguaglianza sostanziale, pretendere da costoro le stesse guarentigie formali che vengono richieste, per esempio, ai commessi o al personale degli Uffici i quali lavorano al chiuso, a stretto contatto con i colleghi e a diretta disposizione del pubblico?

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Concludendo queste righe giunge la notizia che il Consiglio di Stato ha respinto, con la Sentenza № 7045/2021, il Ricorso presentato da alcuni medici contro l’obbligo vaccinale loro imposto. Non ne abbiamo lette le motivazioni. Sembra, tuttavia, che la pronunzia fondi la legittimità costituzionale dell’obbligo in parola sul “dovere di solidarietà che grava su tutti i cittadini”. In un prossimo contributo, studiato il caso, proporremo un’analisi della questione. Riteniamo, tuttavia, che quanto supra cennato possa già rappresentare almeno una base per la riflessione.