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Gente emiliana

Gente emiliana nell’antichità
Comacchio 2021
Ph. Luca Martini / Comacchio 2021

Lapidi, cippi, iscrizioni, monumenti, ritratti: dall’attenta lettura di quel che rimaneva dei reperti archeologici degli antichi emiliani e romagnoli in terra tedesca nacque un felice libretto che ridà memoria, una memoria davvero eterna, a questi eroici “conterranei” che andarono a combattere e morire in terra germanica in epoca romana. Ne scaturisce un sentimento affettuoso, un’immensa gratitudine ai curatori, un legame che sembra narrare una vicenda di poche decine d’anni, non di millenni.

 

Accade coi libri come con le lettere. Tardo a rispondere a quelle più care, e alle meno care: le prime perché aspetto l’ora di grazia, le seconde per il fastidio che danno. Così, i libri che si accumulano. Si tarda a scrivere o quando piacciono o interessano poco, o per il rispetto verso l’autore, per timore di dire sciocchezze, o perché la materia complessa non si lascia stringere in poche righe. Anche la ricerca del luogo adatto crea problemi: l’elzeviro è più solenne, il fondino nella pagina dei libri è svelto e cordiale, mentre in questo colonnino qui, come sapete, gli umori sono mutevoli, i timbri variano. Di solito, non è posto da libri. Ma questa Gente emiliana nell’antichità vuol proprio esser parlata qui, per il richiamo sentimentale di una trentina di storie, che altrettante iscrizioni succintamente raccontano: sono tutti i monumenti funebri che restano, dei soldati e veterani e civili di origine emiliana o romagnola, morti in terra germanica ai tempi della Roma antica.

Per ogni iscrizione una scheda, per ogni scheda una storia, riconosciuta con sapienza amorosa da Alda Calbi, storica e archeologa cui nessun segreto è ignoto sugli insediamenti romani in terra germanica, i cui confini non sono mutati, in duemila anni, dall’arco del Reno a quel crocevia di razze che nel limes dell’Impero si chiamava Carnuntum e oggi è Bratislava per gli slovacchi, Pressburg per i tedeschi, e Pozsnony per i magiari; la città dei tre nomi, che esprimono i tre ceppi, che finirono col sistemarsi a scomodo contatto di gomito su un anfiteatro di foreste affacciato ad una svolta del Danubio.

Alda Calbi ha tratto le sue schede da ogni fonte possibile, dalle pietre ancora esistenti negli splendidi musei romani della provincia tedesca alle carte di antichi eruditi.

Non sono passato una sola volta per Bonn, senza fare la mia sosta al Landesmuseum, e rivedere i monumenti militari, l’insegna a sbalzo della coorte, la bellissima tromba di bronzo, con ancora le ghiere e i ganci per i laccioli. E lì, nella sua nicchia, busto intero tra le teste di due liberti, con la sua corona civica in capo, e sul petto le falerae, le medagli al valore, in pugno la vitis, il bastoncello del suo grado, aspetta il visitatore il centurione bolognese Marco Celio, disperso in quell’agguato di Arminio nella selva di Teutoburgo, che costò a Roma due intere legioni e regalò agli amatori delle frasi drammatiche la bellissima invocazione di Augusto al povero Quintilio Varo, che le comandava.

Fu nella speranza di ospitarvi un giorno il corpo del centurione, che il fratello Publio ordinò e pagò il monumento. La più gran parte di questi cippi testimoniano infatti nella gente padana una tenacia di affetti fraterni che irresistibilmente ricorda lo sconsolato carme di Catullo. Non tutti ebbero alti il prestigio e il grado come Celio bolognese. Gli hanno origine e funzioni più modeste.

“Povera gente, quasi sempre modeste e monumenti poveri”, scrive Giancarlo Susini nella sua introduzione:  “quasi tutti cippi di semplice corniciatura, talvolta con un frontone appena decorato al centro da un fiore, una rosa, che spesso non è altro che una bozza sulla pietra…qualche volta un busto o un ritratto; arte militare, opera di scalpellini da poco, lavoranti presso i reparti, in qualche tugurio presso gli appartamenti, in mezzo alle canabae, agli abituri sorti presso i castra e i castella dei diversi tratti del limes, frammisti agli indigeni e tra mercati e negozi d’ogni sorte”, imitazioni impallidite dei modelli della madrepatria.

Insensibile quasi sempre fui, anche a diciott’anni, quando le mie compagne vi versavano sopra le prime lagrime letterate, al falso pathos puritano e americano delle scritte del fiume Spoon, il pathos autentico di queste storie ricostruite con scienza rigorosa, carica di pudore e di amore, dalla Calbi, mi scalda con una fraternità e una simpatia che il mio prossimo vivente non m’ispira di certo. Da queste tombe vuote dei miei conterranei antichi promana un incanto simile a quello che mi prese, nella sconfinata valle di Petra dei Nabatei, davanti all’immensa tomba scavata nella parete a picco, che porta ancora il nome dell’ufficiale romano che vi prese posto, Sesto Fiorentino.

Ha ragione Susini a dire che furono gravi crisi agricole e di urbanizzazione, che spinsero questa gente a cercare nelle legioni un impiego e, quasi sempre, la morte precoce. Abbondano gli emiliani dell’Ovest infatti, mentre i romagnoli, più fortunati, meglio si collocavano a casa, nell’attivo centro portuale di Ravenna.

Eppure, l’esercito restituì qualcosa ai suoi morti di precoce età. Oltre crisi, economiche e d’ogni specie, ormai placate, queste sembianze, questi nomi ci parlano ancora.

Il tocco magico dell’Impero, questa superiore compagnia di imprese turistiche collettive oltre gli spazi e i tempi, ha salvato un pugno di nomi dai gorghi del nulla.

Un dilettante geniale ha avuto l’idea di riunirli insieme. Perché questo splendido libretto (Alda Calbi, Gente emiliana nell’antichità. Testimonianze tra Reno e Danubio, con introduzione di Giancarlo Susini, Acta Germanica, vol. II, a cura dell’Associazione Italo-Tedesca, strada Maggiore 29, Bologna) non è frutto di una normale attività editoriale, e non ha neppure un prezzo, ma promana dalla fervida passione di un dottor Quiri-Pinotti, farmacista di professione, che in venticinque anni di lavoro ha fatto dell’Associazione Italo-Tedesca di Bologna uno dei centri più attivi e vitali che esistano in Italia. Sono i misteri eroici e fausti, di che la Penisola, non si sa come, sopravvive.

Da “Il Giornale”, 20 aprile 1979