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Il colore è la pietra filosofale dell’arte

Colore
Colore

Nell’Opera al Nero Marguerite Yourcenar narra la vita di Zenone di Bruges, filosofo e alchimista, che appunto dal “nero” (inteso come “materia prima”, ctonia, associata alla notte, all’inverno e al caos primordiale) prendeva le mosse per il Magnum Opus: la ricerca della Pietra Filosofale. Pietra nascosta a Hogwarts da J. K. Rowling, e distrutta dall’alchimista Nicholas Flamel nel primo libro della saga fantasy Harry Potter, per evitare che finisse nelle mani dei cattivi.

Più fasi, secondo la tradizione alchemica, dovevano seguire: all’annerimento doveva succedere lo sbiancamento (associato all'acqua, all'argento, alla femminilità e alla primavera), e poi l’ingiallimento (aria, oro, mascolinità, estate) ed infine il Rubedo, l’arrossamento (nozze alchemiche, la fenice, Prometeo).

Oggi come allora il monopolio sul colore sembra essere divenuto la Pietra Filosofale per artisti di fama e brand del lusso.

La Costituzione degli Stati Uniti è tra le poche che giustifica quel (teoricamente) “limitato monopolio” che è la proprietà intellettuale: “per il progresso della scienza e delle arti utili”. Si sente parlare sempre più spesso di arte democratica, con implicazioni politiche e sociali che lasciano sperare in una bellezza alla portata di chiunque. Eppure, nella pratica, siamo molto lontani dall’accezione beuysiana di arte per tutti, e non soltanto per i prezzi proibitivi delle aste, per la burocrazia senza fine e per i costi assicurativi che scoraggiano ogni sorta di investimento. Se da un lato artisti come Ai Weiwei e Cattelan giocano con le forme più estreme della democratizzazione, burlandosi dei certificati di autenticità, altri attori del mercato contemporaneo preservano in ogni modo l’esclusività (ius excludendi alios) delle proprie opere.

Così, ad esempio, dal 2016 Anish Kapoor è licenziatario esclusivo dei diritti di utilizzo per il settore artistico del Vantablack, la vernice nera creata dalla Surrey NanoSystem a fini militari, capace di intrappolare il 99,96% della luce e di conferire a qualunque oggetto la percezione di bidimensionalità: «Per creare una nuova arte» - diceva l’artista durante un’intervista ad “Artforum” - «bisogna creare nuovi spazi». O non-spazi, in questo caso: soltanto illusioni di vuoto. Ogni cosa a cui il Vantablack è apposto, infatti, si riduce a una sagoma, a un incredibile buco nero che disorienta lo sguardo e inganna chiunque, incluso lo sventurato turista che nel 2018 cadde proprio dentro l’opera Descent into Limbo (ironia della sorte). Kapoor ha acquisito l’esclusiva su questa particolarissima vernice, scatenando le ire dei colleghi che criticano il monopolio di un mezzo creativo. Un ritorno al Medioevo, quando le botteghe custodivano gelosamente le formule dei colori più unici, o una mossa legittima, incoraggiata da un’arte sempre più piatta, in cui è difficile creare qualcosa di davvero unico? Ma soprattutto, è valida una licenza di brevetto per invenzione traslata nel campo dell’arte? Viene qui messo alla prova uno dei paradigmi fondativi del sistema della proprietà intellettuale, in cui il brevetto è il monopolio riconosciuto dallo Stato in cambio dell’innovazione tecnologica (e della sua divulgazione), e il diritto d’autore quello per l’innovazione estetica: il primo protegge le idee di soluzione, il secondo non le idee, ma la loro forma.

L’artista indiano, d’altronde, non è il primo a voler vantare un monopolio sull’uso di un colore.

Era il 1960 quando Yves Klein creava, nel colorificio parigino di Eduard Adam, il celeberrimo IKB, l’International Klein Blue, depositato all’Institut National de la Propriété Industrielle di Parigi con una Enveloppe Soleau: non un brevetto, dunque, ma una busta chiusa che certificava la datazione di un colore di cui, ad oggi, conosciamo bene i componenti, ma non le proporzioni e il procedimento compositivo. E qui emerge un’importante differenza tra brevetto e segreto: un’invenzione è brevettabile a condizione che sia adeguatamente descritta, e dopo 20 anni cadrà in pubblico dominio, così che chiunque possa riprodurla; la formula dell’IKB non è invece soggetta ad un onere di divulgazione, e potrebbe restare segreta in perpetuo.

Eppure, da circa un anno, l’azienda Ressource ha creato una vernice ispirata all’IKB e, con un prezzo di 100 dollari al litro, permette di tingere le pareti di casa dello stesso (?) colore delle famosissime Antropometrie. È questo infatti il risvolto della medaglia del segreto industriale: non si tratta di un diritto di esclusiva erga omnes, ma di una tutela contro chi sottrae il segreto stesso; non quindi nei confronti di chi abbia raggiunto il medesimo risultato autonomamente, magari tramite reverse engineering. Invece, nel 2018, l’artista Stuart Stample ha creato Black 3.0, una vernice che assorbe la luce e fa il verso all’esclusività acquisita da Kapoor: poche ore di permanenza sull’e-commerce per raggiungere il sold out e decretare la sconfitta morale del monopolio creativo; non ci risulta che una controversia brevettuale sia seguita. Ma non è tutto: lo scorso autunno, un gruppo di ingegneri del MIT ha ottenuto un nero ancora più assoluto del Vantablack, capace di trattenere il 99,995% della luce; non è trascorso molto tempo perché l’artista Diemut Strebe lo utilizzasse per oscurare un diamante giallo da 17 carati, con una performance dal titolo The Redemption of Vanity che Kapoor non avrà di certo gradito.

Il bianco grazie a Rembrandt, invece, ha rivelato un’intrinseca fragilità e il più grande e mediatico restauro della storia d’arte, meglio conosciuto come “operazione Nightwatch”, sembra avere la sua genesi nella dissolvenza del bianco del cagnolino.

Proseguendo con la tradizione alchemica, il giallo, invece, grazie al monocromo Yellow Square del 1979 di Olivier Mosset, di cui Andy Warhol si è appropriata la paternità apponendovi al fronte la sua firma nel 1985, ci ricorda che i monopoli nell’arte non resistono ai colpi di genio e alle eccentricità degli artisti.   

Il giallo combinato col rosso dà l’arancione. E qui veniamo ad un leading case della Corte di Giustizia dell’Unione Europea in materia di colori: il caso Libertel del 2003, vertente sulla domanda di registrazione come marchio di un colore arancione da parte di un’impresa di telecomunicazioni olandese. In quell’occasione la Corte osservò che i marchi di colore, per quanto ammissibili in generale, se dotati di capacità distintiva, presentano il problema non secondario della loro rappresentazione grafica, a cui si può ovviare mediante un codice internazionalmente riconosciuto, come il codice Pantone. Di tale osservazione ha fatto tesoro la legislazione successiva: la Direttiva 2015/2436 e il Regolamento 2017/1001 non prevedono più il requisito della "rappresentazione grafica", ma solo che il segno sia "adatto ad essere rappresentato nel registro [...] in modo da consentire alle autorità competenti e al pubblico di determinare in modo chiaro e preciso l'oggetto della protezione garantita al loro titolare".  

Ma arancione per tutti è anche Hermes, in origine per le coperte a righe (arancioni, appunto) usate come sottosella quando la firma dell’azienda francese non era ancora conosciuta per l’iconica Birkin; il marchio è stato registrato nel 2010 a protezione del packaging e recentemente rinnovato nell’aprile 2020 per ulteriori 10 anni. Se è vero che il colore arancio di Hermes, pur non essendo stato dotato ab origine di una capacità distintiva, l’abbia probabilmente acquisita col passare del tempo, mediante l’uso, ci domandiamo: si potrebbe incorrere in un pericolo di confusione o di associazione se un differente marchio del lusso caratterizzasse il suo packaging con il colore arancione?

La tutela di un colore come marchio è particolarmente appetibile: contrariamente a invenzioni, opere dell’ingegno, disegni e modelli, la cui tutela è limitata nel tempo, quello conferito dal marchio è un monopolio potenzialmente perpetuo: finché si pagano le tasse di registrazione. Certo, è legato alle classi merceologiche rivendicate, ma se un marchio acquisisce rinomanza anche questo limite è superabile.

Il rosso è, naturalmente, il colore che ha dato luogo alle più aspre battaglie nelle aule di giustizia. Del resto, è il colore della bandiera che anticamente veniva innalzata su una fortezza sotto assedio per comunicare agli aggressori che non vi sarebbe mai stata resa.

E appunto applicato sulla suola di un paio di scarpe scarpe a tacco 12 (Pantone 18-1663TP) ha dato luogo ad una vera e propria saga giudiziaria. Ne ripercorriamo solo le fasi più salienti.

U.S. District Court, Southern Distict of New York, 10.8.2011, Christian Louboutin v. Yves Saint Laurent, nega la protezione alle red soles perché un colore che presenti qualche specifico pregio (nel caso di specie, secondo la Corte, un’attrattiva erotica per il sesso opposto) deve restare disponibile ai concorrenti. U.S. Court of Appels for the Second Circuit, 5.9.2012, riforma la decisione di primo grado: secondo il precedente della Corte Suprema nel caso Qualitex Co. v. Jacobson Products Co. del 1995 non vi sono obiezioni sistematiche che ostino alla registrazione di un colore come marchio se esso ha acquisito secondary meaning, come nel caso di specie (interessante notare l’intervento in giudizio, quale amicus curiae, di Tiffany & Co., titolare della registrazione del celebre turchese).

Nel frattempo, la Corte di Cassazione francese, 30.5.2012, confermando la decisione di secondo grado, respinge l’azione di contraffazione di Louboutin contro Zara: il marchio è nullo perché privo dei requisiti di chiarezza, accuratezza, precisione, intelligibilità, obiettività e (soprattutto) di carattere distintivo.

Sulla stessa scia, il Tribunale Amministrativo Federale della Confederazione Elvetica, 27.4.2016, nega tutela al marchio internazionale di Louboutin in Svizzera: segno banale, di valenza meramente decorativa e comunque privo di capacità distintiva.

Corte di Giustizia dell’Unione Europea (Grande Sezione), 12.6.2018, Louboutin c/ Van Haren Schoenen BV. Contraddicendo le Conclusioni dell’Avvocato Generale, la Corte si pone un problema che forse affascinerebbe Klein e Kapoor: se un colore in sé, senza delimitazione nello spazio, possa costituire una forma. Risponde: no. Il marchio registrato da Loboutin non vuole rivendicare una forma specifica di suola di scarpa femminile a tacco alto, ma la posizione che il rosso occupa su quella suola. Il colore rosso Pantone n. 18-1663TP non costituisce la forma del prodotto, ma un suo segno distintivo, poiché tra i consumatori ha acquisito secondary meaning, come anche l’azzurro Tiffany, nonostante l’agoniata veretta donata da George Peppard a Audrey stesse in un anonimo e modesto scatolino blu.

E invece, non blu ma “ceruleo” è il colore del Diavolo veste Prada, protagonista assoluto del monologo di Miranda metafora della moda: “Quello che non sai è che quel maglioncino non è semplicemente azzurro, non è turchese, non è lapis, è effettivamente ceruleo, e sei anche allegramente inconsapevole del fatto che nel 2002 Oscar de la Renta ha realizzato una collezione di gonne cerulee e poi è stato Yves Saint Laurent se non sbaglio a proporre delle giacche militari color ceruleo. [...] E poi il ceruleo è rapidamente comparso nelle collezioni di otto diversi stilisti. Dopodiché è arrivato a poco a poco nei grandi magazzini e alla fine si è infiltrato in qualche tragico angolo casual, dove tu evidentemente l'hai pescato nel cesto delle occasioni, tuttavia quell'azzurro rappresenta milioni di dollari e innumerevoli posti di lavoro, e siamo al limite del comico quando penso che tu sia convinta di aver fatto una scelta fuori delle proposte della moda quindi, in effetti, indossi un golfino che è stato selezionato per te dalle persone qui presenti... in mezzo a una pila di roba.”

E, forse, quello che neppure Miranda sapeva è che “il ceruleo” era probabilmente finito nel cesto delle occasioni messo in scena nel film perché Oscar de la Renta non aveva pensato di registrare come marchio quel colore.