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Il revisionismo colpisce anche l’usucapione dell’opera d’arte

St. Catherine of Alexandria, LACMA, Bernardo Strozzi
St. Catherine of Alexandria, LACMA, Bernardo Strozzi

Quando lo storico dell’arte ed ex 007 italiano Rodolfo Siviero, nell’immediato dopoguerra, stilò il più famoso rapporto sulle opere razziate in Italia durante il secondo conflitto mondiale, quelli che emersero furono dati sconcertanti.

Dipinti di Michelangelo, Raffaello, Canaletto, Perugino, violini Stradivari, manoscritti preziosi: sono solo alcune delle bellezze che risultavano essere state strappate al nostro Paese nel corso della guerra. Nonostante gli innumerevoli sforzi di Siviero, sostenuto dallo Stato, e la modifica dell’articolo 77 del Trattato di Pace del 1947, grazie alla quale l’Italia negoziò molte restituzioni, nel 2014 Salvatore Giannella stimava che sono ancora 1653 le opere che attendono di poter tornare a casa.

Due di queste, la “Santa Caterina d’Alessandria” di Bernardo Strozzi (1581-1644) e il “Ritratto di Vittoria della Rovere” di Justus Sustermans (1597-1681), opere della pittura barocca trafugate a Firenze e infine oggi rispettivamente esposte al Los Angeles County Museum of Art e al Museo Diocesano di Assisi, sono state al centro di una lunga e intricata vicenda giudiziaria, che si è ramificata in sede penale[1], amministrativa[2] e civile, e di cui le sentenze in commento rappresentano il penultimo e l’ultimo capitolo, nonostante somiglino di più ad una spy story.

Entrambi i dipinti erano appartenuti a celebri storici dell’arte statunitensi (la prima opera, a Charles Alexander Loeser; la seconda, a Mason Perkins), trasferitisi in Italia prima della guerra per vivere “in grazia e bellezza”, le cui residenze fiorentine furono confiscate nel 1942 in quanto beni di persone “di nazionalità nemica”.

Villa Torri Gattaia, dove Loeser aveva riunito la sua collezione d’arte, tra cui i suoi quindici Cezanne, divenne la sede del comando tedesco e la “Santa Caterina” di Strozzi fu “imprestata al Quartier generale del Feldmaresciallo von Richthofen”; il dipinto successivamente si perse, probabilmente asportato dai tedeschi in ritirata.

La ricerca storica condotta dal Prof. Francesco Santucci, archivista della Diocesi di Assisi, ha invece consentito di appurare che la “Figura Femminile” di Sustermans fu prelevata, insieme ad altri beni della famiglia Perkins, dalle SS di stanza a Firenze, che il 3 febbraio 1943 penetrarono nella Villa di Sassoforte forzandone il cancello; e anche di quest’opera si persero le tracce[3].

Nella seconda metà degli anni ‘70 del secolo scorso i due quadri ricompaiono a Vienna, esposti nel locale di ricevimento di un’impresa farmaceutica facente capo a Werner Wolff, industriale e collezionista d’arte, che nello stesso edificio aveva anche la propria dimora e che le avrebbe acquistate in Italia negli anni ‘50 attraverso canali rimasti ignoti.

Ereditate le opere dalla madre nel 1995, il figlio di Wolff tenta nel 2002 di metterle sul mercato in Austria, ma “immediatamente fu avvisato da Sotheby’s della loro provenienza delittuosa[4]; i dipinti erano infatti pubblicati nel volume “L’opera da ritrovare. Repertorio del patrimonio artistico italiano disperso all’epoca della Seconda Guerra Mondiale” edito nel 1995 dai Ministeri degli Affari Esteri e dei Beni Culturali.

Nel 2006 l’erede Wolf si rivolge a un legale milanese per un parere, e questi, effettuate ricerche, conclude che probabilmente i due dipinti sono stati razziati durante l’ultimo conflitto, ma se ne è ormai perfezionata l’usucapione in danno degli originari proprietari e dei loro eredi; l’avvocato riceve quindi l’incarico di reperire un acquirente e a sua volta dà mandato in tal senso alla Open Care s.p.a.. Quest’ultima vende piuttosto celermente (e, a quanto riferito in giudizio, a un prezzo assai basso rispetto alla successiva valutazione di Sotheby’s: 450.000 € a fronte di una valorizzazione di mercato tra il milione e il milione e mezzo di euro) la “Santa Caterina” alla Old and Modern Masters Ltd, mentre il ritratto di Sustermans non trova un compratore e resta in deposito presso la stessa Open Care.

Nell’ottobre 2008 la Direzione Generale per i Beni Culturali della Lombardia dichiara l’importante interesse culturale ex articolo 13 Decreto Legislativo 42/2004 del dipinto di Strozzi e nega il rilascio dell’attestato di libera circolazione dell’opera. Probabilmente prendono da qui l’avvio le indagini dei Carabinieri del Nucleo Tutela Patrimonio Culturale di Monza, che nel 2009 individuano le due opere come di provenienza illecita e le pongono sotto sequestro, mentre l’asserito proprietario e il suo legale milanese sono imputati di ricettazione (saranno poi assolti perché il fatto non costituisce reato con sentenza del 16 dicembre 2017 del Tribunale di Milano).

Con provvedimento del 2 ottobre 2009 il Pubblico Ministero dispone la restituzione delle opere agli eredi degli originari proprietari: rispettivamente, la nipote di C. A. Loser, Philippa Calnan, e, per volontà testamentaria della moglie di M. Perkins, la Curia Vescovile di Assisi, città in cui lo storico dell’arte visse fino alla morte e del cui patrimonio culturale (in particolare, gli affreschi della Basilica Inferiore) fu uno dei massimi studiosi. Il dipinto di Sustermans è restituito alla Diocesi di Assisi nel novembre 2009.

Giunta in Italia per riappropriarsi dello Strozzi, l’erede Loeser scopre invece che ne era stato dichiarato l’importante interesse culturale ex articolo 13 Decreto Legislativo 42/2004, così che ne è preclusa l’esportazione negli Stati Uniti, dove Philippa Calnan era residente. Inizia così, con il ricorso al TAR della Lombardia per l’annullamento del provvedimento di dichiarazione di interesse culturale e del diniego all’esportazione, il secondo filone giudiziario della vicenda.

L’Illuminato Loeser, deceduto a New York nel 1928, nel probabile e comprensibile timore di non poter riportare con sé in America i pezzi più cari della sua collezione tra cui i Cezanne che si trovano ora alla Casa Bianca (la “legge Bottai” venne emanata il 1 giugno del ‘39) aveva disposto per testamento che alcune sue opere raccolte nella Villa Torri Gattaia fossero destinate come “dono e legato” al Comune di Firenze (costituiscono oggi la Collezione Loeser di Palazzo Vecchio), ponendo però una condizione: che “qualsiasi opera d’arte, qualsiasi pezzo di mobilia antica e in generale qualsiasi bene di interesse storico o antiquario nel mio possesso alla mia morte (…) possa lasciare ed essere esportata dal territorio compreso entro lo Stato Italiano o governato da esso, in qualsiasi tempo durante la vita della mia figlia [Matilda Sofia] e entro due anni dalla sua morte[5].

Per consentire il rispetto della volontà del testatore e l’avveramento della condizione, fu sottoscritta il 4 marzo 1931 una convenzione tra lo Stato italiano e il Comune di Firenze, approvata con Regio Decreto 354 del 3 marzo 1932, che esonerava i beni Loeser dalle disposizioni che limitano l’esportazione fino a due anni dalla morte dell’erede diretta. Seguirono però le leggi razziali, gli eventi bellici e la trafugazione del dipinto e si avverò la sua profezia di limitazione alla circolazione internazionale delle opere d’arte con l’emanazione della legge n. 1089/1939 “per la tutela delle cose di interesse artistico e storico”.

La nipote di C.A. Loeser fa quindi principalmente valere nel giudizio amministrativo che il suo diritto di esportare l’opera dall’Italia entro due anni dalla morte della madre (quindi nel periodo 2002-2004) non poteva essere esercitato, semplicemente perché del dipinto si erano perse le tracce sino al 2009. Il TAR, con sentenza del 8 febbraio 2011, respinge il ricorso: innanzitutto, qualifica come “onere imposto all’Amministrazione Pubblica”, anziché come condizione del legato, la libera esportabilità dei beni Loeser entro il termine biennale, e fa poi applicazione dell’articolo 673 co. 2 Codice Civile a mente del quale l’obbligazione dell’onerato si estingue se, dopo la morte del testatore, la prestazione è divenuta impossibile per causa non imputabile: “la circostanza che dal 2002 al 2004 il quadro non fosse nella disponibilità della ricorrente, comporta l’estinzione dell’onere, trattandosi di una impossibilità sopravvenuta, non imputabile all’onerato”.

Intanto, sul fronte penale, con provvedimento del 16 luglio 2010 viene dichiarata l’illegittimità del provvedimento del P.M. e le parti sono rimesse davanti al giudice civile per la controversia sulla proprietà.

A intraprendere quest’ultima è, nel novembre dello stesso anno, l’avvocato milanese, che appunto chiede al Tribunale di accertare che, all’epoca del conferimento dell’incarico di vendere le opere, il suo mandante ne era il legittimo proprietario; nel luglio 2011 egli ottiene il sequestro giudiziario dei dipinti, provvedimento poi revocato in sede reclamo per lo Strozzi; sarà la Old and Modern Masters, ultima acquirente dell’opera, ad ottenerne il sequestro giudiziario qualche mese dopo.

Nelle more del procedimento civile, l’erede Loeser impugna dinanzi al Consiglio di Stato la sentenza del TAR Lombardia: vittoriosamente. Il Consiglio di Stato, nella sentenza 6 agosto 2013 n. 4112,  parte da una premessa di carattere generale: “la singolarità di questa lontana sequela di eventi segna tuttora il perimetro concettuale e giuridico della lite che, pur presentandosi sotto forma di censure a due atti amministrativi recenti, investe in ultima analisi il tema della tutela delle vittime (…) di violazioni gravi dello stesso diritto internazionale e dei diritti fondamentali che esso assicura”. E prosegue con un obiter che sembra un messaggio rivolto al Giudice civile: “anche la pienezza del recupero delle proprietà, specie se artistiche, illecitamente sottratte manu militari – nella specie con azione italo-tedesca – esige la deroga a molte regole tradizionali di diritto interno, fra varie ad es. quella sull’usucapione.

Ciò premesso, il Consiglio di Stato ritiene che l’erede Loeser – la cui qualifica di “proprietaria” del dipinto è data per presupposta, nonostante la pendenza del giudizio civile – non sia incorsa in alcuna decadenza dei suoi diritti, con conseguente erroneità del provvedimento di diniego dell’esportazione, sulla base di una triplice motivazione:

(i) per una “ermeneutica adeguatrice volta a neutralizzare gli effetti di sopravvenienze imprevedibili che resero inesigibile in epoca precedente l’esercizio del diritto”;

(ii) per “l’agevole possibilità […] di disporre la rimessione in termini secondo un principio generale del nostro ordinamento”; infine,

(iii) perché la prestazione cui era tenuto lo Stato Italiano nei confronti degli eredi Loeser non divenne in realtà completamente impossibile, né per causa ad esso non imputabile: “semmai, lo Stato italiano si rese inadempiente all’obbligo di custodia del bene e di generale preservazione ex bona fide delle ragioni dell’avente diritto principio generale racchiuso nell’articolo 1358 Codice Civile - chiaramente insorgenti dalla convenzione inter partes, con un atteggiamento di indirizzo ‘politico’ (‘manifesto della razza’ e successive leggi razziali del 1938) che violava, per radicale incompatibilità, le norme di principio civilistico naturalmente integrative dei reciproci rapporti.

Qualche mese più tardi, il 25 ottobre 2013, il Tribunale di Milano si pronuncia sulla proprietà dei dipinti, attribuendola rispettivamente agli eredi Loeser e Perkins. La motivazione ruota intorno alla nozione di non clandestinità del possesso ai fini del compiersi dell’usucapione ventennale.

Ma prima di darne conto, è utile segnalare che il Tribunale non prende in considerazione, perché ritenuti tardivi, due argomenti difensivi non secondari dell’erede Wolf: quello della legge applicabile (la legge austriaca prevede infatti che l’usucapione dei beni mobili si perfezioni con il possesso continuato in buona fede per tre anni) e quello dell’identificazione dell’opera come quella effettivamente trafugata dai nazisti (esistono infatti ben sedici versioni della “Santa Caterina d’Alessandria” dello Strozzi, oltre a numerose copie di bottega).

In punto usucapione, il Tribunale ritiene che “se la violenza può dirsi cessata con la fine del conflitto, occorre valutare se possa dirsi pubblico, e dunque esercitato in modo visibile ed apprezzabile, e non clandestinamente, il possesso di un quadro esposto nell’atrio di ingresso di una villa viennese, adibito anche a reception di un’impresa farmaceutica, tenuto conto che ai fini dell’usucapione il requisito della non clandestinità va riferito al fatto che il possesso sia stato acquistato ed esercitato pubblicamente, cioè in modo visibile a tutti o almeno ad un’apprezzabile ed indistinta generalità di soggetti”.

L’esito della valutazione, nel caso di specie, è negativo: “deve escludersi che possa dirsi pubblico il possesso di un dipinto esposto alle pareti di una casa privata, né l’utilizzazione di questo atrio a reception dell’azienda di famiglia fa di questo locale un luogo pubblico o aperto al pubblico, dal momento che l’accesso a detti uffici era comunque riservato, ancor più se si considera che comunicava con un’abitazione privata”.

Quanto all’acquirente della “Santa Caterina”, che aveva invocato l’articolo 1153 Codice Civile per rivendicare la proprietà del dipinto, “la regola possesso vale titolo non si applica quando, come in questo caso, difetta il requisito della buona fede (quantomeno per colpa grave ex articolo 1147 co. 2 Codice Civile) attesa la qualifica di operatore del settore della convenuta [Old and Modern Masters Ltd] che utilizzando la diligenza che [le] competeva deve essersi avveduta (o ben avrebbe potuto avvedersi, anche solo consultando il catalogo ‘L’opera da ritrovare’ del Siviero […] o interpellando la banca dati dell’Arma dei Carabinieri o ‘The Art Loss Register’ o contattando Sotheby’s, della illecita provenienza del bene (…). Si aggiunga che il prezzo pagato, pari a un terzo o alla metà del valore attribuito allo Strozzi da Sotheby’s (…), senza neppure uno scritto, doveva allertare l’acquirente esperto”.

Il Tribunale dichiara quindi che le opere sono di proprietà degli eredi Loeser e Perkins; condanna la Open Care a restituire alla Old and Modern Masters il prezzo pagato per la “Santa Caterina” e l’avvocato milanese a tenere indenne (esisteva una clausola contrattuale di manleva in tal senso) la Open Care di quanto quest’ultima deve rimborsare all’acquirente finale.

La sentenza di primo grado viene impugnata dal legale milanese, a cui si aggiungono le altre parti soccombenti con i rispettivi appelli incidentali.

La prima critica al Tribunale è di aver erroneamente ritenuto rinunciata la tesi difensiva della buona fede di Werner Wolf, e obliterato la regola per cui la buona fede nel possesso si presume.

Sul punto, la Corte d’Appello di Milano appunta la sua attenzione sull’impossibilità di ricostruire le modalità e i canali dell’originario acquisto dei dipinti, ritenuta di per se “elemento adeguato a far dubitare della buona fede del Wolf “, visto che un collezionista d’arte è normalmente consapevole “della necessità di appurare la provenienza di un dipinto pregevole e di grande valore, garantendosi certificazioni adeguate a dimostrare la liceità della cessione dello stesso”; a tutto concedere, peraltro, si verserebbe comunque in uno stato di colpa grave ex articolo 1147 co. 2.

Sulla clandestinità del possesso, la Corte d’Appello condivide le motivazioni del Tribunale, a cui aggiunge la considerazione che, per le opere d’arte, la pubblicità del possesso si identifica con la pubblica fruibilità dell’opera attraverso l’esposizione in mostre, l’apertura al pubblico dei locali in cui si trovano, l’inserimento in pubblicazioni. Condiviso è anche che l’eccezione relativa all’applicabilità della legge austriaca fosse tardiva: è pur vero che l’articolo 14 Legge 218/1995 prevede che l’accertamento della legge straniera sia compiuto d’ufficio dal giudice, ma è comunque onere della parte allegare tempestivamente gli elementi di fatto che individuano i criteri di collegamento rilevanti con l’ordinamento straniero.

Ugualmente condivisa dalla Corte è la motivazione del Tribunale circa l’inapplicabilità dell’articolo 1153 Codice Civile all’acquisto da parte della Old and Modern Masters, che versava in stato di colpa grave, essendo l’accertamento della legittima provenienza “compito minimale dell’acquirente”; e così anche per gli altri capi impugnati.

Il legale milanese ricorre in Cassazione.

Quest’ultima prende innanzitutto in considerazione il tema della legge applicabile (che, contrariamente a quanto ritenuto da Tribunale e Corte d’Appello di Milano, va esaminato d’ufficio in attuazione del principio iura novit curia) per concludere che anche applicando la legge austriaca il risultato non sarebbe differente: l’usucapione di beni mobili, ai sensi dell’ABGB, si compie infatti in tre o sei anni in presenza di un titolo astrattamente idoneo e di buona fede, ma entrambi mancavano in capo a Werner Wolf; e l’assenza di buona fede impedisce anche il compiersi dell’usucapione trentennale che consente l’acquisto in mancanza di titolo. Forse erano in buona fede la moglie ed erede, e successivamente il figlio, ma anche unendo i due periodi di possesso dei dipinti (1981-1995 e 1995-2006) non si arriva a trent’anni.

Nonostante l’usucapione abbia consentito una vendita titolata di decine di migliaia di opere in asta e a trattativa privata, nessuno dei pochi precedenti giurisprudenziali[6] aveva mai affrontato il tema della clandestinità del possesso dell’opera e, quindi, la Suprema Corte ha ritenuto che la Corte d’Appello di Milano avesse fatto corretta applicazione dei principi in tema di possesso e, in particolare, di presunzione di buona fede ex articolo 1147 Codice Civile; così come anche abbia data una corretta interpretazione al requisito della non clandestinità del possesso, non essendo “seriamente dubitabile che in ambito di opere d’arte solo l’esposizione a mostre, ovvero l’inserimento in pubblicazioni specializzate, consenta la conoscibilità delle stesse”.

La Cassazione non ha quindi ritenuto sufficiente, per il possesso ad usucapionem, l’esposizione dei dipinti nell’atrio di un palazzo adibito sia a privata dimora che a uffici di un’impresa.

L’impressione è che si sia ottenuto un risultato eticamente giusto, ma che, per ovviare all’inapplicabilità ratione temporis delle convenzioni internazionali in materia di opere d’arte illegittimamente sottratte, sia stato affermato un principio ingiusto dal punto di vista giuridico, che rischia di condizionare pesantemente il mercato dell’arte e di innescare un’esplosione del contenzioso.

Mentre l’usucapione è istituto finalizzato ad assicurare la certezza della proprietà e ad agevolare la circolazione dei beni, il precedente creato dagli Ermellini rischia di avere un effetto paralizzante sul commercio delle opere d’arte, penalizzando tutti i privati, e sono la maggioranza, che non hanno fatture d’acquisto o atti di provenienza con data certa e che si tramandano le opere di padre in figlio, magari senza neppure avere consapevolezza del loro pregio e della loro autore, o ancora coloro che non posseggono opere di livello così elevato da meritare una “pubblica” esposizione in mostre o musei o la pubblicazione in libri o riviste specializzate.

In proposito Magri ha evidenziato che “nel caso in cui, invece, lo stesso dipinto fosse stato concesso per un’esposizione, magari in un piccolo museo di provincia e in occasione di una mostra che raccoglie soltanto una manciata di visitatori, della quale viene redatto un catalogo, che non viene sfogliato neppure dal bibliotecario della biblioteca comunale in fase di catalogazione, il possesso sarebbe stato alla luce del sole, posto che avremmo avuto sia l’esposizione che la pubblicazione del dipinto in un’opera specializzata. Dalla decisione della Cassazione consegue che l’usucapione di un’opera d’arte risulta particolarmente complessa, posto che non tutte le opere sono così interessanti da essere esposte in mostre o pubblicate in opere specialistiche e che quelle dotate di un maggior interesse possono non essere concesse per il timore di eventuali furti”[7].

La pronuncia rischia, quindi, di pregiudicare tutti quei collezionisti (e sono i più) che per riservatezza o timore di furti, oppure di danneggiamenti, decidono di non prestare le loro opere per pubbliche esposizioni e di non consentirne pubblicazioni.

Ai fini della formulazione di un giudizio circa la clandestinità del possesso, occorrerebbe invece far riferimento alla specifica tipologia di bene di cui si controverte e alla sua naturale destinazione, cioè a quegli stessi criteri che la Suprema Corte ha adottato ai fini della verifica del requisito della “continuità nel possesso”, precisando appunto che la stessa deve essere valutata in riferimento alla natura del bene posseduto ed in relazione alle concrete e specifiche possibilità di godimento del medesimo.

Non sono quindi pertinenti i precedenti richiamati dalla Corte, relativi a beni immobili; ben più lo sarebbero stati altri, che si rivengono sia nella giurisprudenza di legittimità che in quella di merito, per cui “quando non risulti provato che i comproprietari, i quali ebbero il godimento esclusivo del dipinto, ne avessero anche tratto un vantaggio patrimoniale dandolo in comodato oneroso a musei o gallerie di arte oppure esponendolo essi stessi al pubblico, dietro pagamento [… vi è, nds] godimento puramente estetico e personale”[8] e la sensazione di solitaria beatitudine e di privilegio che ha accompagnato le nostre prime visite alle mostre riaperte dopo il lockdown ha reso ben percettibile anche al pubblico dei non collezionisti quanto il godimento “riservato” sia un privilegio sotto il profilo esperienziale rispetto alla frequentazione di una mostra affollata.

La naturale destinazione, la naturale forma di godimento dello specifico bene in questione (opera d’arte) è quindi quella della personale fruizione estetica, essendo solo eventuale quell’altra forma di godimento costituita dal prestito per mostre o dalla diretta esposizione al pubblico, o dalla riproduzione editoriale.

Anche volendo mitigare le tesi di Tommaso Montanari, che si è opposto con tanta veemenza alle “mostre ticket” da dedicare al tema molti sui scritti tra cui l’evocativo “Contro le mostre”, non si può omettere di considerare che l’articolo 48 del Codice dei Beni Culturali, in specificazione del principio generale di cui all’articolo 20 (rubricato “interventi vietati”), circonda di cautele il prestito per mostre ed esposizioni, prevedendo che esso sia soggetto ad autorizzazione, rilasciata tenendo conto delle esigenze di conservazione dei beni e subordinata all’adozione delle misure necessarie per garantirne l’integrità.

Né lo stesso Codice dei Beni culturali contiene alcuna norma per cui il privato proprietario di un’opera dichiarata di rilevante interesse storico artistico debba consentirne la pubblica fruizione; solo nel caso degli archivi l’articolo 127 prevede un obbligo di consultabilità per quelli privati, ma non da parte del pubblico in generale: dei soli “studiosi”, dietro “motivata richiesta tramite il soprintendente archivistico”, e “secondo modalità concordate tra i privati stessi e il soprintendente”.

E se l’opera in questione non fosse caduta in pubblico dominio, ma ancora oggetto di diritti di proprietà intellettuale in capo al suo autore? L’esposizione potrebbe essere tema di conflitto tra proprietario del bene materiale e titolare del diritto d’autore.

È stata infatti questione dibattuta, fino a tempi recenti, quella dell’individuazione del soggetto a cui spetti il diritto di esporre l’opera in pubblico. I pareri favorevoli all’autore, così come le posizioni dubitative, si fondavano sull’ampia portata della facoltà di utilizzazione economica dell’opera conferita all’autore dall’articolo 12 LDA e sulla constatazione che l’esposizione influisce sull’“intensità di fruizione” dell’opera stessa[9].

La (scarsa) giurisprudenza italiana che si era occupata della questione propendeva per il proprietario dell’esemplare materiale[10], e tale posizione sembra in effetti avere avuto un’esplicita emersione legislativa nell’articolo 21 Decreto Legislativo 685/1994 che esclude dalle attività sottoposte al diritto di noleggio e di prestito dell’autore proprio la “cessione [in uso] di opere o di esemplari di opere a fini di esposizione”>.

La Corte di Giustizia delle Comunità europee, con sentenza del 17 aprile 2008[11], ha infine negato – pur con un linguaggio non cristallino – che tra i diritti esclusivi di utilizzazione economica conferiti all’autore vi sia quello di esporre l’opera in pubblico, così pronunciandosi a favore del proprietario dell’opera o dell’esemplare materiale. Compete però al titolare del diritto d’autore, e non al proprietario, il potere di autorizzare la riproduzione dell’opera, persino nel catalogo dell’esposizione[12], e si tratta di potere non da poco, perché è noto che ben difficilmente un museo esporrà un’opera che poi non potrà figurare nel catalogo della mostra.

In sintesi, con la sentenza in commento, la Corte di Cassazione detta una nozione di non clandestinità del possesso che non solo non tiene conto della naturale forma di godimento del bene in causa (personale godimento estetico), ma neppure tiene conto dei vincoli giuridici a cui un’eventuale pubblica esposizione o pubblicazione sarebbero sottoposte.

Si è così posto rimedio a due singole ultradecennali ingiustizie, ma – per usare le parole di Francesco Galgano – col rovescio del diritto, anticipando quel revisionismo storico che ha oggi portato alla decapitazione iconoclasta della scultura di Colston, per ironia della sorte proprio con un ritratto della Santa Caterina d’Alessandria che altro non era che la trasposizione cristiana di una paganissima Ipazia.

 

Le massime:

Corte d’Appello di Milano, 13 giugno 2014 – Pres. Buono – Rel. Nardo - F.V. (avv.ti Statella, Sianesi) – C.P. (avv. Nolasco), Old and Modern Masters Ltd (avv.ti Pecora, Bufano), W.M. (avv.ti Castiglioni, Colaleo), Open Care s.p.a. (avv.ti Anaclerio, Bocca, Bonomo, Ronda), Curia Vescovile di Assisi (avv. Tedesco)

Ai sensi dell’articolo 1147 co. 2 Codice Civile la buona fede non giova se l’ignoranza è dipesa da colpa grave. L’acquirente di dipinti di valore elevato che non si curi di accertarne la provenienza, specie in un’epoca (il periodo immediatamente successivo al secondo conflitto mondiale) di disordine conseguente a note vicende storiche e alle razzie di opere d’arte verificatesi, si è condotto con tale leggerezza da integrare la colpa grave di cui al co. 2 articolo 1147 Codice Civile

La pubblicità del possesso, che esclude la clandestinità viziante ex articolo 1163 Codice Civile, è arduo configurarla nel caso in cui il bene, acquistato in modo violento o clandestino, sia esposto all’interno di un’abitazione privata, seppure l’accesso alla stessa sia consentito anche a terzi. Occorre che il possesso del bene sia esibito anche all’esterno dei luoghi privati, in ambienti pubblici e tali da consentire a chiunque, all’esterno della cerchia familiare e sociale del possessore, di prenderne atto, eventualmente per poterlo contestare. In particolare, trattandosi di dipinti, costituisce possesso pubblico, idoneo a superare le preclusioni di cui all’articolo 1163 Codice Civile, l’esposizione degli stessi in mostre, ovvero l’apertura dei locali privati in cui sono contenuti ad un vasto pubblico di intenditori, o l’inserimento in pubblicazioni di settore con l’indicazione dell’appartenenza.

Corte di Cassazione, Sezione II civile, 14 giugno 2019 n. 16058  – Pres. Gorjan – Rel. Picaroni – P.M. Mistri  – F.V. (avv.ti Nuzzaci, Pangrazzi, Sianesi) – C.P. (avv.ti Guidi Buffarini, Bulgarini D’Elci), Old and Modern Masters Ltd (avv.ti Ricciardi, Pecora, Bufano), W.M. (avv. Bonito), Open Care s.p.a., Curia Vescovile di Assisi

La presunzione di buona fede di cui all’articolo 1147 co. 3 Codice Civile non è vinta dal mero sospetto di una situazione illegittima, essendo invece necessario che l’esistenza del dubbio promani da circostanze serie, concrete e non meramente ipotetiche, anche di carattere presuntivo. Nel caso di specie, l’epoca dell’asserito acquisto di due dipinti antichi – gli anni ‘50 del secolo scorso, quando era in circolazione in Europa un numero considerevole di opere d’arte sottratte ai legittimi proprietari durante la Seconda Guerra Mondiale – e l’assenza di qualsiasi indicazione in ordine alle circostanze in cui sarebbe avvenuto l’acquisto, escludono la buona fede dell’acquirente, quando meno per non essersi egli curato di accertare la provenienza dei due dipinti, uno dei quali tra l’altro di notevole e riconoscibile pregio.

L’esercizio pubblico del possesso, ai fini di cui all’articolo 1163 Codice Civile, richiede che “chiunque” possa acquisirne conoscenza ed eventualmente contestarlo. Se ad esserne oggetto sono opere d’arte, solo l’esposizione a mostre, ovvero l’inserimento in pubblicazioni specializzate, consente la conoscibilità generalizzata delle stesse ed esclude la clandestinità del possesso. Nel caso di specie, non è stato ritenuto sufficiente ad escludere l’esercizio clandestino del possesso la circostanza che i dipinti fossero esposti in un edificio che era anche adibito a sede di rappresentanza di un’impresa

 

[1] Trib. Milano, 17 novembre 2011 n. 13117, inedita

[2] Cons. Stato, 6 agosto 2013 n. 4112 e TAR Lombardia, Milano, 8 febbraio 2011, entrambe reperibili in One Legale.

[3] Cfr. Il Comunicato Stampa del 19 Novembre 2009  del Comando Carabinieri Tutela Patrimonio Culturale, reperibile all’URL https://www.beniculturali.it/mibac/export/MiBAC/sito-MiBAC/Contenuti/Ministero/UfficioStampa/News/visualizza_asset.html_76713774.html

[4] Così la sentenza di primo grado (Trib. Milano, 24-25 ottobre 2013, inedita)

[5] La citazione testuale è riportata in TAR Lombardia, 8 febbraio 2011, cit.

[6] Tribunale di Torino 27.03.2013, Corte d’Appello di Potenza 27.09.2017

[7] Nota a Cassazione civile, sez. II, 14/06/2019 (ud. 22/01/2019, dep. 14/06/2019), n. 16059, Geo Magri, Buona fede, clandestinità del possesso e opere d’arte rubate: riflessioni a margine di una recente pronuncia della Cassazione, in Aedon n. 1 2020.

[8] Cass. civ. Sez. II, 04-12-1991, n. 13036. Cfr. Corte d'Appello Roma Sez. III, Sent., 25/09/2012

[9] Rispettivamente, D. Sarti, Diritti esclusivi e circolazione dei beni, Giuffrè, Milano 1996, p. 413; P. Greco-P. Vercellone, I diritti sulle opere dell’ingegno, UTET, Torino 1976, p. 153 e ss.

[10] Cfr. C. App. Milano, 25.2.1997, in <<Annali Italiani del Diritto d’Autore>>, 1997, 887, Trib. Verona, 13.10.1989, in <<Foro Italiano>>, 1990, I, 2626. Cfr. Cass. 24.4.1941 in << Il Diritto d’Autore>>, 1941, 371; C. App. Venezia, 25.3.1955 in <<Foro Italiano>>, 1955, I, 717.

[11] In causa C-456/06, Peek & Cloppenburg KG c. Cassina SpA, disponibile on line al sito istituzionale della Corte www.curia.eu

[12] Cass. 19.12.1996 n. 11343