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Il rogo mediatico di chi non rispetta le persone

rogo mediatico
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Tremate, tremate, le streghe son tornate!

No, non siamo negli anni ’70, e neppure nel medioevo…forse…

Eppure, se come un detective unissimo i puntini su una mappa geografica raffigurante le notizie che ogni giorno compaiono sui social, nei media, ci apparirebbe un’unica immagine: un rogo.

Quello su cui a turno, volente o nolente, ognuno di noi può finire, non per grandi azioni o demeriti, ma semplicemente per il solo fatto di vivere, pensare, esporre le proprie opinioni, amare, esprimersi sessualmente. In altre parole, per essere umano, pensante, vivente nella sua totalità.

Ma il problema più grande è che non ce ne accorgiamo perché viviamo nell’illusione delle innumerevoli possibilità che nel 2020 gli strumenti di comunicazione a nostra disposizione possono offrire: possiamo comunicare con un numero indefinibile di persone in tutto il mondo, possiamo contattare chi vogliamo, possiamo filmare chi e cosa vogliamo ma soprattutto possiamo condividere con chi vogliamo pensieri, immagini e video attraverso il nostro smartphone.

Potenzialità e possibilità pazzesche, inimmaginabili solo 10 anni fa, ma che stiamo sfruttando oltre la percentuale massima, valicando il confine rappresentato da un unico e fermo discrimen: il buon senso. Perché quando sei provvisto di tutto questo potere nelle tue mani non hai nessun limite se non quello che tu stesso decidi di porti.

Nel momento in cui viene oltrepassato questo limite, ci si può ritrovare all’interno di una gogna pericolosissima: quella mediatica. Da carnefice o vittima, poco importa.

Accade quindi, per citare esempi più significativi, ma senza pretesa di esaustività, che una giovane donna si ritrovi ad essere tacciata per una poco di buono e licenziata perché si è fidata del proprio compagno, lasciandosi filmare in atteggiamenti intimi, o che noti professionisti che esprimono il proprio punto di vista sui social vengano beffeggiati in post da persone che non sono loro contatti e ai quali non potranno mai ribattere per difendersi, o che i messaggi vocali inviati ai propri contatti viaggino indisturbati nell’etere e che tutto il mondo se ne faccia beffa.

Ed ecco che quel mondo così vasto, pieno di opportunità, ma facilmente raggiungibile, diventa più angusto e stretto di qualsivoglia comunità di poche anime e la sensazione di potere che pochi attimi prima si possiede cede velocemente il passo al senso di impotenza perché incapaci di difendersi, vuoi per la vastità della platea di persone, vuoi per la difficoltà a legittimare i propri comportamenti, le proprie parole.

Ci si trova all’angolo. E la cosa peggiore è che ad essere distrutta non è la nostra reputazione, ma la nostra web-reputation, concetto ben più ampio che abbraccia tutto il nostro essere ormai, visto che la vita sociale passa immancabilmente per i social media, appunto, e come tale è alla portata di tutti. Nel caso specifico della maestra licenziata per il video “hot” diffuso a sua insaputa dal fidanzato, presumibilmente il danno sofferto dalla donna va ben oltre la perdita del lavoro: si tratta di situazioni annichilenti in cui la vittima vede come via d’uscita al massacro mediatico solo lo sparire, perchè la possibilità di “riscatto” non si può avere neanche cambiando connotazione geografica.

E la scena di questa maestra accerchiata non solo dalla sua comunità “reale” (le mamme inviperite dei suoi alunni, la dirigente che si piega alla logica del “decoro”, gli amici del suo compagno che si prendono gioco di lei guardando il video), ma dall’intera società “virtuale”, ahimè ben più vasta, che l’addita a poco di buono riecheggia retaggi di un passato che sembrava sepolto da tempo e che credevamo non sarebbe tornato mai più.

E invece il medioevo è qui tra noi, quando nei nostri “like”, tra i nostri “share”, sui nostri “post”, all’interno delle nostre “chat” e “sotto-chat” mettiamo sul rogo chi ha “osato”: chi ha osato fidarsi di qualcuno, mostrandosi nelle sue fantasie sessuali, chi ha osato esprimere la propria opinione da professionista o da cittadino o da semplice essere pensante, perfino chi ha osato fare satira ormai.

La nostra epoca pare sempre più caratterizzata da un dualismo pericoloso: l’accecante attrattività della libertà, delle infinite possibilità, della persistente connessione e condivisione da un lato e l’ottenebrante giudizio di una moltitudine incalcolabile di persone che incredibilmente si adagia su un giustizialismo creato dal superficiale e bigotto “sentir comune”.

Come se migliaia di cervelli omologassero il loro funzionamento ad attività che richiedono un piccolissimo sforzo ma permettono di raggiungere un livello di soddisfazione molto elevato, perché li pone, tutti insieme, in una posizione di superiorità rispetto all’oggetto del giudizio, giudizio che, a differenza della passata epoca storica, oggi si fa planetario e, dunque, insormontabile.

Si arriva al paradossale punto in cui la manifestazione più estrema della libertà di pensiero si traduce in una compromissione della dignità di un individuoma il giudizio implacabile della moltitudine è davvero espressione di una effettiva libertà di pensiero?

O forse - senza nessun tipo di pretesa eziologica basata su psicologia o sociologia -  in questo mare infinito di possibilità donate dalla tecnologia e dai social media, le certezze vacillano e si cerca di ritrovarle al di fuori di noi, stigmatizzando il comportamento dell’altro e facendoci così sentire di appartenere a una “comunità” che la pensa come noi?

Dopo tutto, si mette al rogo ciò di cui si ha più paura. E ciò che fa più paura sono i mostri che abitano in ognuno di noi.

Perché arrivi il Rinascimento basterà affidarci al legislatore che tipizzerà (in alcuni casi ha già tipizzato) tali comportamenti come fattispecie criminali? O gli unici che possono mettere un argine a questo “decadimento” siamo solo noi stessi attraverso l’uso consapevole delle tecnologie e dei social media e attraverso la riscoperta del “buon senso”?

Umanesimo manageriale