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Ilva di Taranto: sentenza di condanne oltre la confisca degli impianti

Accolte le richieste della procura, condannati i fratelli Riva alla pena di ventidue anni per Fabio e venti per Nicola
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Ilva: La Corte d’Assise di Taranto ha accolto le richieste della procura

Ilva: condannati i fratelli Riva: ventidue anni per Fabio e venti per Nicola.

Questa la sentenza della Corte d’Assise nel processo con 47 imputati e circa 1000 parti civili relativo al reato di disastro ambientale.

La Corte d’Assise di Taranto ha disposto la confisca degli impianti dell’area a caldo dell’ex Ilva di Taranto per il reato di disastro ambientale imputato alla gestione Riva, così come era stato chiesta dai pm. La misura è nel dispositivo di sentenza letto stamattina in aula dal presidente Stefania D’Errico.

Ilva, la confisca e il panorama normativo

La confisca degli impianti e il panorama normativo in materia, sottolineamo come questo sia profondamente mutato e risenta di interventi “plurilivello” provenienti sia dalla CEDU che dal CGCE, il che rischia di determinare una “grande confusione”. 

Per effetto del sovrapporsi di interventi normativi poco omogenei tra di loro e della conseguente elaborazione giurisprudenziale, l’istituto della confisca è divenuto poco chiaro nei caratteri strutturali e nelle sue finalità (sanzionatoria, ripristinatoria, misura di sicurezza o di prevenzione). 

Ne consegue che ove pure si voglia continuare a riferirsi alla confisca quale istituto dotato di un minimo comun denominatore, non può non considerarsi la notevole diversificazione delle diverse forme di confisca, sicchè, in concreto l’analisi giuridica dovrebbe procedere secondo un “modulo euristico di tipo strutturalista”. 

Dietro il termine di “confisca”, attualmente vi è una assoluta disomogeneità di beni attinti dall’ablazione, di finalità sottese all’istituto e, conseguentemente, anche le garanzie e le modalità attuative spesso divergono. 

Si potrebbe distinguere in considerazione della natura del bene attinto dalla confisca, come avviene nel caso dell’art.240 c.p., lì dove la confisca del prezzo, prodotto, profitto o strumento del reato si giustifica in quanto tali beni vanno “allontanati” dall’autore del reo per evitare che questi conservi il “ricordo” del mal fatto; in quest’ottica si valorizza la pericolosità in rem, valorizzando la natura special-preventiva della confisca. 

Ancor più evidente è tale funzione nel caso in cui la confisca concerna beni di per sé “pericolosi”, rispetto ai quali è irrilevante la disponibilità degli stessi da parte dell’autore del reato ovvero di terzi, assumendo valore una prospettiva meramente oggettivistica. In altri casi la “pericolosità” viene riferita ad una determinata categoria di reato, sicchè un bene la cui detenzione e circolazione è di norma del tutto lecita, diviene suscettibile di confisca nella misura in cui è collegato alla commissione di una determinata specie di reato; ciò avviene nel caso di cessione di un alloggio in favore di cittadini extracomunitari illegalmente presenti sul territorio nazionale, lì dove la confisca dell’immobile è direttamente collegata al tipo di reato. 

Analogo discorso è applicabile nel caso di esercizio abusivo della professione, lì dove la nuova previsione 348, comma secondo, c.p., prevede che alla condanna consegua la confisca delle cose che servirono o furono destinate a commettere il reato. 

Anche in tal caso, si consente la confisca dell’immobile nella misura in cui è strumentale alla commissione del reato; non è la natura dell’immobile a giustificare la confisca, bensì il collegamento con il fatto illecito

Diversa tecnica normativa è stata impiegata nella legge Merlin, con riguardo all’alloggio utilizzato per il meretricio, atteso che in tal caso non è stata prevista l’obbligatorietà della confisca, ma la norma si limita a richiamare l’art.240 c.p. 

Altro tipo di prospettiva è quello di “tipo soggettivistico”, per effetto della quale non si valuta il bene e nemmeno il classico nesso di pertinenzialità rispetto al reato, bensì il collegamento rispetto alla persona intesa quale soggetto che, per le sue qualità, “illumina in quadro di disvalore” l’oggetto da confiscare. 

Rispetto a tali ipotesi è lecito chiedersi se la confisca sottintenda ad una punibilità del tipo di autore, piuttosto che dalla specifica natura del fatto previsto come reato. Tale perplessità si pone essenzialmente con riferimento alla confisca di prevenzione, collegata al tipo di autore e finalizzata ad attuare la logica secondo cui occorre dar effettività al principio per cui il “delitto non paga”, tale impostazione, tuttavia, rischia di confliggere con il principio di personalità e colpevolezza. 

Analoghe considerazioni valgono per le plurime ipotesi di confisca allargata, recentemente ricondotte nell’alveo dell’art.240 bis, c.p., tutte contraddistinte dalla valorizzazione del tipo di autore, secondo una logica che potrebbe in qualche modo ricondurre alla teoria di un diritto penale del “nemico” elaborata da Jakobs. T

ali tematiche sono state affrontate dalla Corte costituzionale nelle sentenze n.24 e 25 del 2019; con tale pronuncia è stata vagliata la legittimità costituzionale della figura dei “pericolosi generici” e la compatibilità con la sentenza Di Tommaso che aveva stigmatizzato il difetto di tipizzazione.

La Consulta ha ritenuto di dover elaborare una sorta di statuto di garanzia in tema di misure patrimoniali; la confisca di prevenzione è “giusta” se raccordata ad elementi di carattere presuntivo dai quali si possa trarre il nesso di pertinenzialità con il reato; solo in presenza di elementi concreti dai quali desumere l’illegittimità dell’accumulo, è consentito un “meccanismo di compensazione” mediante il quale si sottrare la ricchezza indebitamente procurata. 

In quest’ottica, è necessario quanto meno un rapporto di “contiguità temporale” tra la condotta illecita e l’acquisto dei beni, in mancanza di un reato tipizzante. 

La prospettiva meramente soggettivistica non è di per sé sufficiente; oltre alla necessità di una previsione normativa che legittimi la confisca, occorre un oggetto giuridico della confisca che abbia una ontologica strumentalità rispetto all’interesse tutelato dal reato. Tale esigenza è ancor più avvertita in un contesto in cui ad ogni introduzione di norme incriminatrici è accompagnata dalla previsione di una corrispondente ipotesi di confisca. 

In materia ambientale  è stata introdotta una sorta di confisca sottoposta “a condizione”; in tal caso, infatti, è previsto che non si provvede alla confisca ove l’autore dell’illecito assuma una condotta collaborativa e provveda alla riduzione in pristino dei luoghi. Altrettanto singolare è la previsione contenuta all’art.187 C.d.s. che prevede l’obbligo di confisca e la successiva restituzione (non già la mera revoca del sequestro) nell’ipotesi in cui il condannato acceda al lavoro di pubblica utilità, in tal modo introducendosi una vera e propria alternativa tra “sanzioni” del tutto autonome e distinte tra di loro. 

Ben diverso è, invece, l’approccio seguito con riferimento ai reati contro la p.a., lì dove si tende a sovrapporre forme di apprensione patrimoniale, rendendo concreto il rischio di una vera e propria duplicazione di tipologie di misure patrimoniali che, pur formalmente diverse, finiscono per aggravare eccessivamente l’aspetto latamente sanzionatorio riconnesso a tale particolare categoria di reati. 

L’excursus relativo alle diverse forme e funzioni che la confisca può assumere, ci permette di indicarlo come istituto polifunzionale fin dalle pronunce della Consulta degli anni ‘60 – è attualmente ancor più poliforme, in quanto non è mutata solo la struttura, ma anche la finalità che tende ad assicurare. 

Una conferma di ciò è desumibile dall’evoluzione della confisca disposta in conseguenza dell’applicazione di misure di prevenzione, che ab origine presupponeva il contrasto alla criminalità organizzata e l’esigenza di disporre di uno strumento adeguato a fronteggiare un fenomeno di estrema gravita (soluzione ritenuta adeguata al fenomeno anche dalla CEDU); attualmente, le situazioni che possono dar luogo a confisca quale misura di tipo preventivo vanno ben al di là del tipico ambito circoscritto alla criminalità organizzata, a riprova di come l’istituto sia stato esteso anche a fenomeni contraddistinti da una gravità criminale non paragonabile a quella tipica dei fenomeni associativi. In definitiva, quindi, se si vuol dare un minimo di sistematicità deve necessariamente prendersi atto del fatto che la confisca è divenuta uno strumento trasversale ad una pluralità di finalità e di ambiti soggettivi, sicchè a seconda delle diverse ipotesi occorre procedere all’individuazione della funzione prevalente.

Parallelamente occorre anche porsi il problema della “proporzionalità” della complessiva risposta sanzionatoria, nel cui ambito occorre necessariamente tener conto anche degli effetti prodotti dalla confisca. 

Tale problematica è stata affrontata nella recente sentenza della Corte costituzionale in tema di sanzioni per il market abuse, lì dove si è ritenuta la proporzionalità della confisca del plusvalore, ma non anche quella del capitale investito, rispetto al quale non pare neppure ipotizzabile la confisca in quanto “instrumentum sceleris”, categoria che viene tradizionalmente ricollegata a mezzi intrinsecamente funzionali alla commissione del reato.