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Justice Machines

di Jacques Charpentier
Justice Machines di Jacques Charpentier
Justice Machines di Jacques Charpentier

Pubblicato in prima edizione italiana da Liberilibri nel 2015 nella collana Narrativa, a cura di Guido Vitiello, Justice Machines. Racconto di fantascienza giudiziaria (uscito a Parigi nel 1954 con il titolo Justice 65) è un insolito esempio di distopia giudiziaria, un grottesco quadro immaginato da Jacques Charpentier con la formula del conte philosophique settecentesco alla maniera di Voltaire e Diderot.

Ma “più che un folle balzo nel futuro fantascientifico”, scrive Aldo Canovari nella Nota dell’editore, “potrà anche esser letto come una riesumazione di un antico, provvidenziale istituto.” Quale? Quello del sorteggio dei magistrati, stabilito per ovviare alla fallacia e all’inaffidabilità del giudizio umano, a quegli errori giudiziari che possono avere a volte conseguenze micidiali: “Non abbiamo dubbi infatti che ad una incertezza giuridica frutto della parzialità di magistrati politicizzati sia preferibile una incertezza generata da un’Alea pura, imparziale, assoluta, e per questo equanime.”

 

Qui di seguito, un significativo estratto:

Il diritto aveva senz’altro subìto dei cambiamenti durante il mio lungo sonno. Non avrei dovuto aggiornarmi? «Non ho nemmeno più i codici!», dissi pietosamente.

Tutti si misero a ridere. «Gli studi», disse il bâtonnier, «oggi sono molto semplificati.»

«Potrebbe cominciare immediatamente», disse un collega, «è il giorno di storia del diritto. La passeggiata comincia alle quattro.»

«Non so se avrò il tempo di arrivare alla Facoltà», dissi consultando l’orologio.

«Non preoccupatevi, la Facoltà non esiste più. Ora i corsi si fanno al Palazzo. Il nostro insegnamento è diventato essenzialmente pratico. S’impara guardando. Non dovrete che aggiungervi al corso. Sbrigatevi: il punto di partenza è la Galerie Marchande.»

Il corso di diritto ricordava un viaggio turistico a buon mercato: celibi maggiorenni, generalmente miopi, adolescenti con i calzoni corti e molti altri individui mal lavati con il colletto aperto a scoprire il petto. Il professore aveva in testa un berretto ornato da un gallone. Era un uomo cordiale. Fin dalle prime parole, stabilì un contatto con il suo uditorio.

«Cominceremo», disse, «dalla giustizia civile. Seguitemi.» Un percorso a curve, reso necessario dagli straripamenti della piscina, ci condusse alla prima camera del tribunale. Era vuota, ma intatta. Non avevano cambiato nulla nella disposizione: notai soltanto che le panche erano coperte di polvere.

«Qui», disse il nostro cicerone, «aveva sede il tribunale: era composto in origine da tre giudici. Davanti a questa specie di pulpito, che si chiamava sbarra, gli avvocati. Laggiù il pubblico ministero, e di fronte a lui il cancelliere. Prego chi è in fondo di avvicinarsi. Ecco come si rendeva giustizia prima della rivoluzione di novembre.»

«Le udienze si aprivano con un rapporto sommario fatto da uno dei giudici per riassumere il procedimento. Sbrigava rapidamente questa formalità, senza preoccuparsi di farsi sentire, perché tanto non interessava a nessuno. Poi la parola passava agli avvocati. L’avvocato dell’attore esponeva i fatti a suo modo e sviluppava gli argomenti favorevoli al proprio cliente. Quello del convenuto dava a sua volta la propria versione, che era completamente opposta alla prima, e dimostrava che le ragioni invocate dall’avversario non valevano nulla. Soltanto allora gli atti erano rimessi ai giudici che si ritiravano in un’altra sala, detta camera di consiglio. Là deliberavano, o almeno così si suppone, perché eccetto in qualche Paese, tra cui il Brasile, queste deliberazioni erano segrete. Se non erano d’accordo tra di loro, decidevano a maggioranza. A volte rientravano subito in silenzio e davano lettura della sentenza. Ma più spesso il verdetto era emesso dopo un periodo di otto o quindici giorni, durante i quali si presumeva che il tribunale meditasse sulla causa. Noterete che in questo sistema il magistrato era passivo. Sono gli avvocati che istruiscono il processo e tracciano i confini del dibattimento. Ai giudici non è permesso uscire da quei confini, e come l’asino di Buridano devono scegliere tra il secchio d’acqua e il fascio di fieno.»

Avendo notato dei sorrisi sui volti degli uditori, il maestro riprese in tono serio: «Non bisogna prendersi gioco di queste vecchie pratiche. Questa procedura, consacrata da secoli di esperienza, era superiore a tutte quelle che hanno preceduto le J.M., ed è senza dubbio la migliore che si possa concepire in un Paese in cui esistono dei tribunali. Ma bisogna capire qual era il suo punto debole.

Chi me lo dice?»

Si alzarono molte mani, e le risposte arrivarono da ogni direzione.

«La legge della maggioranza è stupida: ci possono essere due imbecilli contro un buon giudice.»

«Senz’altro», rispose il professore, «ma era il solo mezzo di arrivare a una decisione. E il primo bisogno della giustizia è emettere sentenze. Prima di giudicare bene, è necessario giudicare.»

«La gara non era ad armi pari. Chi aveva l’avvocato migliore vinceva il processo.»

«Non sempre», replicò il maestro. «E d’altronde, la disparità sarebbe stata ancora maggiore se le parti si fossero sfidate da sole. C’è sempre più differenza tra le parti che tra gli avvocati. Coraggio!», riprese bonariamente, «chi mi dirà qual era il vizio essenziale della vecchia giustizia?

Nessuno l’ha scoperto?»

«Era amministrata da uomini», lanciò una voce stridula.

«E anche da donne», proferì una voce maschile.

«Ecco il punto!», disse il professore con soddisfazione. «La giustizia era resa da esseri umani. Tenete presente che questi magistrati dei vecchi tempi erano generalmente onesti, seri, consapevoli dei propri doveri. Ma non potevano spogliarsi della loro natura. Credevano di obbedire a ciò che chiamavano giustizia. In realtà non ascoltavano che i loro pregiudizi, o le loro opinioni.»

Una fontana di interruzioni zampillò:

«O le loro antipatie.»

«O le loro passioni politiche.»

«O il loro umore.»”

[…] «Per ben giudicare in un sistema simile», riprese il professore, «i giudici avrebbero dovuto essere dei puri spiriti. O almeno ci sarebbero voluti uomini di qualità eccezionale, poiché non c’era mestiere più difficile né più spaventoso per una coscienza scrupolosa. Ma i giovani preferivano occupazioni meno ardue o più redditizie, e si allontanavano da questa carriera. Reclutare i magistrati era ormai così difficile che molti tribunali erano stati sostituiti da un giudice unico.»

Una studentessa alzò la mano:

«Mi pare», disse, «che un giudice unico fosse meglio di tre. Perché se tutti e tre hanno dei pregiudizi, questi si cumulano.»

«Dimenticate», rispose il professore, «che raramente i pregiudizi sono gli stessi. Più che rafforzarsi, si neutralizzano.»

«I magistrati», proseguì, «erano designati per concorso. Ma questo era un ulteriore errore, poiché la conoscenza del diritto, pur necessaria, non era che una misera parte della somma immensa di virtù di cui avrebbero dovuto essere dotati. La loro missione avrebbe richiesto una cultura pressoché universale, l’esperienza della vita e la conoscenza di tutti gli ambienti sociali, delle buone maniere, una morale rigorosa, il senso del bene pubblico temperato da una grande umanità, quell’attitudine a distinguere il vero dal falso che chiamiamo giudizio, l’esprit de finesse che si acquisisce molto raramente senza un’educazione curata, e un senso della propria responsabilità che avrebbe dovuto privarli del sonno. Una prova universitaria non poteva certo dar loro tutto questo.»

 

L’editore ha effettuato, senza successo, tutte le ricerche necessarie al fine di identificare gli aventi titolo rispetto ai diritti dell’opera. Pertanto resta disponibile ad assolvere le proprie obbligazioni.

Jacques Charpentier, Justice Machines, a cura di Guido Vitiello, collana Narrativa, pagg. 104, euro 14,00, ISBN 978-88-98094-27-1