La battaglia per definire il long covid
La battaglia per definire il long covid
Articolo in traduzione, pubblicato sul «New Yorker» lo scorso settembre. Dhruv Khullar, medico internista, descrive la sua esperienza al fianco di Diana Berrent, attivista e fondatrice del movimento per la difesa di chi è affetto da long covid: i Survivor Corps.
Pazienti e scettici sul piede di guerra: saprà la ricerca appianare il conflitto?
Una mattina, a marzo 2020, Diana Berrent, fotografa e madre di due bambini, di Long Island, si svegliò con la febbre. Aveva brividi, diarrea e un senso di oppressione al petto, e cominciò a preoccuparsi. Sua figlia aveva invitato delle amiche a dormire; Berrent aveva raggiunto a fatica la taverna, e chiesto alle ragazze di andarsene. Poi, si mise in isolamento per diciotto giorni.
Berrent aveva seguito le notizie sul coronavirus da Wuhan, fino alla Lombardia e a Teheran. Ma, come mi ha confessato di recente, “in periferia, nessuno si aspettava di essere la prima persona del quartiere a prendere il virus”. Aveva provato a farsi un test, ma erano in gran parte riservati a chi veniva ricoverato. Alla fine, ricevette una diagnosi di covid-19 dopo che un suo conoscente l’aveva messa in contatto con un deputato locale che le aveva rimediato un test. Su Facebook, portò avanti da sola il tracciamento dei contatti. Pochi giorni prima di ammalarsi, aveva infatti realizzato un servizio fotografico per un evento nella palestra affollata di una scuola elementare, e si era convinta di essere la Paziente Zero. In quel momento, vi erano scarse notizie sui casi di coronavirus, e poche persone ammettevano di essere infette: il suo aggiornamento sui social era diventato virale. Il «New York Post» affidò a Berrent una rubrica quotidiana in cui documentare la malattia. Diede inizio a un video-blog, descrivendo i suoi sintomi, l’isolamento, la guarigione. In un episodio toccante su HGTV, aveva dato istruzioni agli spettatori su come “organizzare la perfetta camera di isolamento”.
Durante la sua quarantena, Berrent era venuta a conoscenza del plasma convalescente, una terapia trasfusionale che i ricercatori stavano testando sui pazienti con il covid. Decise che avrebbe voluto dare una mano. “Ci era stato detto, come comunità globale, ‘il meglio che potete fare è letteralmente non fare nulla,’” diceva Berrent. “La gente stava lì, a cucire mascherine e a battere le mani ogni sera. Ho pensato, ho questi anticorpi, potrei davvero essere in grado di salvare delle vite”. Si mise in lista per ogni studio che riuscisse a trovare; si iscrisse come Partecipante 0001 alla sperimentazione sul plasma convalescente della Columbia University. Poi si era detta:
“Se ho questo potere come individuo – di contribuire alla scienza, di salvare vite – cosa potremmo fare mobilitando un esercito di sopravvissuti?”.
Berrent diede vita così a un gruppo Facebook chiamato Survivor Corps [“Plotone dei Sopravvissuti”, n.d.t.], una specie di “Tinder per il plasma”, diceva.
In una settimana, il gruppo aveva più di 100.000 iscritti. Sulla pagina, Berrent scriveva che le persone che avevano contratto il coronavirus stavano “aspettando di diventare supereroi”. Qualche tempo dopo, quando era stata dimostrata l’efficacia degli anticorpi monoclonali nel combattere il covid-19, iniziò a collaborare con la compagnia farmaceutica Regeneron e con l’azienda sanitaria Optum per aiutare le persone a ricevere la terapia in casa propria.
Survivor Corps ha ora più di 175.000 membri – il più grande movimento civile per il covid nel mondo. Ora, Berrent incontra periodicamente ufficiali di governo, illustri scienziati, gruppi di difesa del paziente, sopravvissuti al covid con le loro famiglie. Non molto tempo fa ha realizzato delle presentazioni presso il Centro per il Controllo e la Prevenzione delle Malattie (C.D.C.), l’Istituto Nazionale della Sanità (N.I.H.) e durante la task force della Casa Bianca sul coronavirus – tutto nella stessa settimana. Appare in podcast e comitati, e presiede a svariati incontri sul covid nelle università e di concerto con il governo, a volte come unica portavoce dei pazienti. “Ora mi stanno chiedendo di revisionare articoli di medicina – a me, che non tocco biologia dalla seconda superiore”, ha detto.
I Survivor Corps non hanno una sede fisica. Si tratta, in sostanza, di un enorme gruppo Facebook, con un sito associato. Le persone condividono storie di genitori e figli scomparsi; chiedono preghiere e supporto; si sfogano contro un sistema sanitario privo di umanità. Descrivono sintomi debilitanti che attribuiscono al long covid: problemi di fegato, gambe, polmoni, stomaci, pelle, denti, disturbi della memoria e dell’umore. Riflettono su teorie biologiche e si scambiano consigli medici, alcuni validi, altri non supportati da evidenze scientifiche, o di cui è stata provata l’inefficacia. (Il gruppo, abbastanza moderato, ha regole contro consigli medici “inconsistenti” e teorie del complotto.) A volte, qualcuno esprime scetticismo su quello che le persone postano. “Rimango basita nei confronti di quello che un amico mi ha appena detto,” ha scritto una componente del gruppo. L’amico l’aveva accusata di leggere “quello che un mucchio di persone scrivono” senza avere “la minima certezza che sia vero o meno. Ti dicono solo quello che vuoi sentirti dire, così puoi dare la colpa dei tuoi problemi al fatto che sei stata malata per nove mesi”.
Dare sostegno e voce a una così vasta platea ha condotto Berrent in acque scientifiche molto agitate. Storicamente, gli attivisti per la difesa del paziente si sono spesso trovati a doversi opporre ai ricercatori con i quali stavano cercando di collaborare; attivisti dell’aids si sono scontrati non di rado con gli scienziati, chiedendo sperimentazioni più celeri e maggiori cure: nel maggio del 1990 centinaia di membri dell’Act Up[1] protestarono davanti all’Istituto Nazionale delle Allergie e delle Malattie Infettive (N.I.A.I.D.), diretto per cinque anni da Anthony Fauci. Più di recente, gli attivisti per la difesa del paziente hanno lavorato in rappresentanza di persone che dicono di soffrire della sindrome da stanchezza cronica, di fibromialgia, della malattia di Lyme, e di altre patologie che alcuni ricercatori ritengono non ben definite.
Circolano dubbi, tra gli scienziati, sul fatto che il long covid esista. Ma la patologia è nuova, e vive per il momento nel regno della teoria e dell’aneddoto.
Nel bel mezzo di una pandemia vissuta online, questa sindrome diviene oggetto di congetture costanti. Dottori, scienziati e pazienti condividono opinioni in libertà, insieme a chiunque altro.
Anche Berrent, dal canto suo, sta cercando di dare un senso a tutto ciò.
Le ricerche necessarie sono effettivamente in corso. Le scuole di medicina disseminate sul territorio nazionale hanno iniziato a studiare il long covid, e sono stati pubblicati centinaia di articoli che tentano di demistificare la sindrome. Il Congresso ha sbloccato più di un miliardo di dollari per la ricerca sugli effetti a lungo termine dell’infezione da coronavirus; Francis Collins, direttore dell’Istituto Nazionale della Sanità, ha annunciato un’iniziativa sul long covid che includerà uno studio della malattia su larga scala, per un totale di 470.000 milioni di dollari, ideato in parte usando i dati forniti direttamente da pazienti e famiglie. “Conosciamo persone la cui vita è stata stravolta dai gravi effetti del long covid”, ha dichiarato di recente Collins.
In ogni caso, Berrent sostiene che la ricerca sta andando troppo a rilento, e che il long covid è stato a malapena definito. Collins è membro dell’Accademia Nazionale delle Scienze (N.A.S.), ed è stato premiato con la Medaglia Presidenziale della Libertà; nonostante ciò, su Twitter, Berrent si è recentemente detta in disaccordo con la sua descrizione dei processi microscopici che potrebbero causare problemi di respirazione persistenti nei pazienti con long covid. “Ciò dimostra una conoscenza superficiale del #LongCovid,” ha affermato. Berrent è poi andata avanti elencando le patologie – tra cui “l’insorgenza del diabete da covid” e l’“epilessia” – che credeva Collins stesse sottovalutando: “Forse alcuni di questi sintomi comuni sarebbero più noti se il @N.I.H. stesse portando avanti una qualsiasi ricerca concreta”. Incoraggiata dai membri del suo gruppo, Berrent ha dato il via a un flusso ininterrotto di storie sul long covid a dir poco allarmanti attraverso le sue dirette social, e ha twittato in maniera polemica riguardo al sistema con cui il C.D.C. di solito conteggia le infezioni. “Mi sembra di andare contro la direttrice del C.D.C. nel momento stesso in cui tento di collaborare con il suo staff”, mi ha confessato.
Berrent affronta un problema noto agli attivisti per la difesa del paziente: c’è un contrasto netto tra ciò che i singoli pazienti provano, vogliono, e di cui hanno bisogno, e ciò che i medici possono offrire.
Ma, con la pandemia, la portata del fenomeno è cambiata. Secondo alcune stime, più di cento milioni di americani hanno contratto il coronavirus. Molti si sentono abbandonati dai propri leader, marginalizzati dai concittadini, e sono insofferenti nei confronti dei ricercatori. Eppure è solo attraverso la progettazione attenta degli studi, le analisi metodiche dei dati, l’interpretazione scientifica dei risultati che possiamo separare speculazioni infondate dal fatto scientifico. Berrent e il suo gruppo vogliono un’azione decisa e immediata; la scienza chiede cautela. Molte persone, la cui salute è stata stravolta dal covid-19, stanno vivendo in questo limbo. A chi dovrebbero rivolgersi?
A luglio, ho incontrato Berrent per un caffè nell’Upper East Side di Manhattan. Si era trasferita da poco a Washington, D.C., ed era in città per far visita alla madre. Mi ero precipitato lì da un ospedale dall’altra parte della città, dove mi stavo prendendo cura come internista di alcuni pazienti – molti dei quali malati di covid.
All’esterno di una piccola panetteria, abbiamo deciso entrambi di toglierci le mascherine. Berrent, che ha occhi di un azzurro brillante e un sorriso genuino, parlava velocemente tra un boccone e l’altro di hummus e gazpacho, fermandosi di tanto in tanto per mostrarmi l’e-mail di uno scienziato col quale aveva cominciato a collaborare, oppure un post su Facebook di un membro dei Survivor Corps. Parlava con foga delle battaglie dei portatori a lungo termine, del dolore delle famiglie, del livore di no-vax e no-masks.
Berrent è cresciuta a circa dieci isolati da dove eravamo seduti, e ha frequentato la Trinity, prestigiosa scuola privata di Manhattan. Durante il college, alla Kenyon, ha portato avanti un tirocinio nell’ufficio del senatore Daniel Patrick, e sembrava avviarsi verso una carriera in politica. Ha partecipato alla campagna per la rielezione di Bill Clinton e più tardi ha lavorato al Dipartimento di Stato come assistente di Madeleine Albright. Lei e suo marito si sono conosciuti come membri dello staff della campagna presidenziale di Al Gore, nel 2000. Entrambi avevano frequentato la facoltà di legge alla Cornell; ha lavorato per uno studio legale, ma se ne è allontanata dopo la nascita dei figli. Nel 2007, ha iniziato la sua attività di fotografa.
L’esperienza politica di Berrent le è stata di grande aiuto quando ha lanciato i Survivor Corps. Ha cercato esperti in ogni campo e in breve ha trovato molti alleati, tra cui Micheal Joyner, anestesista rinomato della Mayo Clinic; Kavita Patel, specialista delle politiche sanitarie durante il governo Obama, ora alla Brookings Institution; David Shulkin, ex-segretario del Veterans Affairs. Ma è come outsider che sente di avere molto da offrire. “Sono in grado di guardare con occhi nuovi, e vedere quando le cose semplicemente non hanno senso”. Durante la sua presentazione al N.I.H., Berrent ha affermato: “La cosa di cui vado più fiera è che abbiamo davvero ridefinito il concetto di cittadini scienziati. Abbiamo bisogno di ascoltare i pazienti per orientare la scienza”.
Con il procedere della pandemia, è diventato chiaro che molti membri dei Survivor Corps stessero lottando contro i sintomi non per giorni o settimane ma per mesi, e Berrent ha iniziato a concentrarsi sul long covid. Ha avvertito i dottori riguardo i sintomi che i membri del suo gruppo stavano segnalando – tremori, vibrazioni interne, insonnia, dolori lancinanti. In molti casi, ha detto, ha trovato “vergognose” le risposte dei medici. L’unica cosa che sembrava sapessero rispondere, mi ha detto, era: “Davvero misteriosa la faccenda, non crede?”.
Berrent sa raccontare in maniera coinvolgente – usa frasi brevi e potenti, facendo pause nei momenti giusti. Durante la presentazione al N.I.H., sulla piattaforma Zoom, fissava la telecamera dichiarando che il sistema medico stava deludendo i pazienti affetti da long covid: “Quello che sta accadendo sul campo è che le persone subiscono gravi, gravissimi danni agli organi. Stanno avendo problemi neurologici che li portano al suicidio. Dobbiamo concentrarci sui sintomi e dare priorità alla ricerca in base alla quantità di sofferenza che causano – non in base alla loro frequenza”.
Berrent cerca di fare da tramite fra i pazienti e il sistema medico. Spesso però la comunicazione è a senso unico: Berrent riporta le preoccupazioni dei pazienti ai ricercatori, curandosi meno di ciò che preme invece agli scienziati, e cioè cosa sia o non sia supportato da evidenze scientifiche. Berrent fa frequenti sondaggi tra i Survivor Corps e, nonostante producano informazioni significative, queste ultime somigliano a ciò che rileva un partito politico quando intervista i suoi più grandi sostenitori – vengono, cioè, da una fetta non rappresentativa della popolazione. Di recente, durante un seminario online ospitato dal «Washington Post», Berrent ha descritto un sondaggio tra i Survivor Corps in cui chiedeva dei sintomi che stavano impedendo alle persone di tornare a lavoro. Hanno risposto circa 600.000 membri. “Il motivo principale che impedisce alla gente di ricominciare a lavorare è un mutamento drastico della personalità” ha spiegato. “È stato uno shock terribile”.
Berrent ha suggerito che il covid potrebbe finire per essere considerato non come una malattia respiratoria ma come una patologia neurologica. “Temo che ci sia una carica virale più alta nella variante Delta che si concentra nel naso e nella bocca”, ha detto. “ Cosa accade? A rigor di logica, la malattia risale attraverso il naso, manda fuori uso il sistema olfattivo, e cosa c’è subito dopo? Il nervo vago, che controlla tutte le nostre funzioni automatiche... Sappiamo che il virus passa attraverso la barriera ematoencefalica” – uno strato essenziale delle difese immunitarie che impedisce ai microrganismi di infettare il sistema nervoso centrale – “e abbiamo infatti casi evidenti di danni diretti al cervello”.
L’intervistatrice ha ribattuto: “Penso sia abbastanza chiaro che non sappiamo ancora se possa oltrepassare o meno la barriera ematoencefalica.” (Infatti, molte infezioni partono dalla bocca e dal naso senza infettare il sistema nervoso, e, sebbene la ricerca abbia supposto che la proteina spike possa infrangere la barriera protettiva nei topi, non c’è nessuna prova certa che il coronavirus infetti il cervello umano.)
“Ne siamo consapevoli”, ha risposto Berrent.
In un altro momento della presentazione, Berrent ha dissentito rispetto alla decisione del C.D.C. di non approfondire i primi casi di covid che non avevano avuto bisogno di ospedalizzazione. “Non c’è nulla come un caso lieve di covid”, ha detto, come dice spesso. “Lasciatemi spiegare cosa intendono con ‘lieve’. Intendono encefalite. Polmonite da covid. Intendono insufficienza degli organi all’ultimo stadio”.
L’intervistatrice si è fermata, lo sguardo interrogativo. “Quindi lei sta dicendo che l’insufficienza degli organi all’ultimo stadio viene considerata come lieve?”, ha chiesto.
Per un attimo, Berrent ha esitato. “Ne sono certa”, ha poi risposto.
Il gruppo di attivisti per la difesa del paziente di Berrent è formato in parte da sopravvissuti al covid che il pubblico, e anche molti medici professionisti, non vedono mai. Ascolta persone che dicono di star combattendo con sintomi non comuni e non legati all’apparato respiratorio, come disfunzione erettile e diarrea cronica. Un membro dei Survivor Corps è una giovane madre con un sondino nasogastrico e undici denti guasti.
Tramite Berrent, ho incontrato Nick Güthe, che è diventato un consulente di fiducia dei Survivor Corps all’inizio dell’estate. Güthe, filmmaker indipendente di cinquant’anni, mi ha raccontato la storia di sua moglie. La tragica ambiguità che la caratterizza è tipica di molte storie del movimento long covid.
Nell’aprile del 2020, Heidi Ferrer, moglie di Güthe ed ex-sceneggiatrice di Dawson’s Creek, aveva cominciato a sentire dolori lancinanti alle dita dei piedi. Subito dopo, dolori di stomaco e diarrea. Ferrer e Güthe fecero un test rapido al drive-in, risultando negativi. (I test rapidi sono meno affidabili dei molecolari.) Nelle settimane che seguirono, Ferrer ebbe palpitazioni, dolori muscolari, e un senso di spossatezza così estremo da avere difficoltà a salire le scale.
In autunno, Ferrer era convinta di avere il long covid. Cercò dottori specializzati, ma senza risultato. Si rivolse ad agopuntori e professionisti di medicina alternativa, e cominciò a prendere l’ivermectina – un antiparassitario per cavalli, che da allora è stato dimostrato inefficace contro il covid-19. Durante la primavera, aveva sviluppato degli spasmi involontari molto evidenti. Sentiva come una vibrazione interna, e aveva detto a Güthe che era come avere delle bollicine di champagne che frizzavano nelle vene. Incapace di dormire, Ferrer cominciò a prendere dosi massicce di Ambien, a volte una pillola ogni due ore. Poiché non era mai risultata positiva al coronavirus, il dottore esitò a mandarla in una clinica specializzata in long covid aperta da poco. Aveva consultato un neurologo, il quale, mi ha detto Güthe, provò a “insinuare che fosse tutto frutto della sua mente”. Ferrer non aveva avuto episodi documentati di malattia mentale, ma la sua storia familiare era stata fortemente segnata dalla depressione: sia il padre sia la nonna erano morti suicidi. Aveva avuto problemi di alcolismo, ma era sobria dal 2017.
Il 22 maggio, Güthe andò a riprendere il figlio di tredici anni da un suo amico. Mentre tornavano a casa, Güthe aveva detto: “Dobbiamo parlare della mamma. Voglio credere che migliorerà. Ma devo anche essere onesto, con te: non so davvero come andrà a finire”.
Una volta a casa, lui e il figlio erano andati al piano di sopra, dove avevano trovato Ferrer in camera da letto appesa a un drappo del baldacchino. Güthe aveva detto al figlio di andare nella sua stanza. Aveva provato a liberare Ferrer, ma non c’era riuscito. Era corso di sotto per prendere le forbici, e alla fine era riuscito a tagliare la stoffa.
Quando arrivarono in ospedale, il cuore di Ferrer batteva ancora, ma era chiaro che non si sarebbe ripresa. Un medico chiese a Güthe da quanto la moglie fosse depressa. “Non è depressa”, aveva detto Güthe. “Il suo corpo ha collassato a causa del long covid”. Allora il dottore aveva chiesto a Güthe di cosa si trattasse. “Lo cerchi su internet”, aveva risposto lui.
A giugno, Güthe ha inviato un necrologio a «Deadline», diventato subito virale. “Heidi mi aveva detto, ‘Se succede qualcosa, fai sapere al mondo cosa mi ha fatto il long covid’”. Attraverso Twitter, Güthe si è messo in contatto con Berrent, e ha scoperto che Ferrer era stata un membro dei Survivor Corps. Negli ultimi mesi, Güthe ha preso parte con Berrent a una dozzina di eventi. Ora risponde a messaggi Facebook di persone da tutto il mondo, che raccontano la loro battaglia con il long covid e chiedono aiuto. Non di rado, qualcuno condivide pensieri suicidi. “Tiro giù qualcuno dal cornicione ogni settimana”, ha detto Güthe. “Dico loro, ‘Le cose si stanno muovendo molto più in fretta di quanto pensiate. La speranza sta arrivando. L’aiuto anche. La gente ha iniziato ad ascoltarci, ora’”.
Altri, facendo notare che Ferrer non è mai risultata positiva al virus, hanno messo in dubbio che sia stato il covid a ucciderla. Lo stesso grado di incertezza caratterizza molti casi di long covid meno drammatici di quello di Ferrer.
Giustamente, i dottori dicono che alcuni dei sintomi attribuiti al long covid possono appartenere a svariate altre patologie. Tuttavia molti pazienti – con o senza infezioni da coronavirus documentate – sono convinti che i loro problemi persistano dopo gli effetti del virus.
Definire una malattia nuova è un obiettivo complesso, pieno di rischi. Alcuni medici credono che la gravità e la portata della patologia siano state esagerate. In un articolo recente su STAT (sito di notizie su medicina e salute), Adam Gaffney, medico di terapia intensiva, ha scritto che c’è bisogno di “cominciare a pensare in maniera più critica al long covid – e a parlarne con più cautela”, sostenendo che la narrazione costruita attorno agli effetti a lungo termine dell’infezione sta “andando oltre l’evidenza”. Un recente articolo sul «Wall Street Journal» a cura dello psichiatra Jeremy Devine ha ipotizzato che molti dei sintomi del long covid potrebbero essere “generati a livello psicologico o causati da una malattia fisica non correlata all’infezione precedente”. Devine ha suggerito che il long covid sia “fondamentalmente un’invenzione dei gruppi di attivisti che danno voce al paziente”.
Come ogni campagna, il movimento dei sopravvissuti al covid deve decidere quanto è grande la tenda che vuole costruire. Ho parlato, poco tempo fa, con Emily Taylor, la direttrice della Long Covid Alliance – un’organizzazione-ombrello composta da più di cento gruppi per la difesa del paziente. Taylor mi ha detto che la battaglia per legittimare il long covid le ricorda il suo lavoro precedente come portavoce di persone, tra le quali sua madre, che soffrono di sindrome della fatica cronica, una malattia misteriosa caratterizzata anch’essa da “nebbia cerebrale”, affaticamento da sforzo e disturbi del sonno. “La cosa meravigliosa è che il long covid potrebbe dare legittimità ad altre sindromi post-virali, per le quali le persone si sentono dire che sono malattie immaginarie”, ha detto. Taylor ha convocato gruppi di esperti per creare codici diagnostici per il long covid, i quali permetterebbero ai medici di essere pagati per applicarli. Il suo team ha aiutato di recente a introdurre l’Atto dei Portatori di long covid, una legislazione federale che dovrebbe fornire quasi cento milioni di dollari per la ricerca, infrastrutture di dati territoriali ed educazione pubblica. Il gruppo sta pianificando l’introduzione di un secondo investimento, che andrebbe a sostegno di quindici “Centri di Eccellenza Post-Covid” – istituti che combinano ricerca e cure mediche– in giro per il paese. “Abbiamo iniziato a sostenere la causa del long covid lo scorso anno, quando i legislatori continuavano a dire: ‘Siamo nel bel mezzo di una crisi, le persone stanno morendo, questo è un problema del prossimo anno’”, ha detto Taylor. “Beh, ora è il prossimo anno. È tempo di agire”.
Come medico che si affacciava per la prima volta al mondo dell’attivismo per la difesa del paziente, non potevo nascondermi di essere parte del sistema medico – verso cui tanto risentimento è diretto. Sono andato via sentendo che la medicina potrebbe essere più delicata ed efficace se i pazienti fossero più presenti, non solo come soggetti di sperimentazione o persone bisognose di cure, ma come partner autentici nel progetto di miglioramento della condizione umana. Certo, trasalivo ogni volta che qualcuno menzionava vitamine o ivermectina come rimedi, o riportava aneddoti su internet riguardo studi scientifici qualificati, o metteva in dubbio con ferocia le buone intenzioni di dottori e infermieri.
Mi sono chiesto se il movimento dei sopravvissuti al covid si nutrisse dello stesso sentimento anti-elitario che attraversa gran parte del paese – una sfiducia nelle istituzioni e un disprezzo per le competenze.
Se così fosse, sarebbe in parte colpa dell’annoso fallimento istituzionale nell’incontrare i bisogni di chi soffre. I dottori hanno spesso liquidato e minimizzato le preoccupazioni dei pazienti; altri si sono approfittati delle sovradiagnosi. Se l’edificio della medicina poggia su una faglia – causata dalla sfiducia tra dottori e pazienti, e tra ospedali e comunità – allora il covid-19 è un terremoto. Tenere in piedi la struttura è responsabilità di tutti.
“Abbiamo sentito parlare tanto di ‘coinvolgimento della comunità’ e ‘coinvolgimento del paziente’, negli ultimi vent’anni”, mi ha detto Micheal Joyner, l’anestesista della Mayo Clinic. “Erano tutti termini di moda, ambiziosi. Ma durante la pandemia persone come Diana hanno accelerato i tempi”. I Survivor Corps hanno aiutato ad arruolare moltissimi pazienti per la sperimentazione sul plasma convalescente; alla fine, una serie di studi randomizzati non sono riusciti a dimostrare che la terapia fosse benefica. “La domanda per la comunità medica è: come prendiamo questo livello di coinvolgimento del paziente e continuiamo a mandarlo avanti?”. Joyner crede che la mancanza di coordinamento e di empatia tra i professionisti della sanità abbia condotto molte persone verso rimedi non dimostrati. “Ciò che vuoi impedire è che la gente entri in queste odissee diagnostiche”, dice. “Quando devono combattere con sintomi fastidiosi e poco chiari, le persone finiscono per rivolgersi a sei medici diversi. Il cardiologo dà loro una serie di spiegazioni, l’endocrinologo un’altra. Niente ha veramente senso. Poi qualcuno dice, prendi lo zinco, oppure fai questa cosa, o quest’altra, e di sicuro la proveranno”.
Joyner ha collegato lo scetticismo dei medici sul long covid alla diffidenza riguardo patologie come la sindrome da tachicardia posturale ortostatica, anche detta POTS. Le persone che hanno la POTS subiscono sbalzi atipici del battito cardiaco e della pressione arteriosa quando stanno in piedi; molti provano anche vertigini, affaticamento, e “nebbia cerebrale”. Molti dottori credevano che la pots fosse collegata all’ansia o a disturbi dell’umore. Ma Joyner ha voluto esplorare un’altra possibilità: che i cuori delle persone stessero compensando un accumulo insolito di sangue nelle gambe. Ha invitato dei pazienti nel suo laboratorio e li ha fatti distendere con le gambe inserite in un macchinario ermetico. L’aria veniva tirata fuori dalla macchina, cosicché la pressione negativa, applicata alle gambe, facesse in modo che al cuore tornasse indietro meno sangue – simulando cioè l’effetto dello stare in piedi.
Joyner ha condotto due “finti” esperimenti. Prima di tutto, ha acceso la macchina, disattivando però la funzione a pressione negativa. Le persone pensavano che fosse accesa, ma non era così. Ha attivato poi la pressione negativa, ma solo dopo che i pazienti avevano indossato dei pantaloni speciali che riducevano l’effetto del macchinario. In entrambi i casi, le persone sperimentavano niente di più che un piccolo sbalzo del battito cardiaco. Soltanto quando le loro estremità erano davvero sottoposte alla pressione negativa i loro cuori hanno cominciato a pompare più velocemente. “Vent’anni fa avrei scommesso che la POTS fosse psicosomatica”, ha detto Joyner. “Abbiamo fatto di tutto per dimostrare che fosse così. Non ci siamo riusciti”. Ad oggi, crede che i pazienti con la pots sperimentino una specie di “ipervigilanza somatica”, in cui diventano eccezionalmente sensibili ai cambiamenti fisiologici del proprio corpo.
È possibile che qualcosa di simile stia accadendo ai pazienti affetti da long covid? Vinay Prasad, un medico e un esperto di medicina basata su evidenze scientifiche all’università della California (San Francisco), mi ha detto che, quando si tratta del long covid, ci sono due tipi di domande scientifiche. Il primo tipo si focalizza su una migliore definizione della sindrome e della sua diffusione: quali sono, esattamente, i sintomi, e come è possibile che sia un’infezione a causarli? Il secondo tipo si chiede se i sintomi siano collegati al virus stesso, o a qualcos’altro. Anche le cure contro il covid possono causare problemi: il solo essere intubati, ad esempio, è associato a debolezza prolungata, perdita di memoria, ansia, depressione e difficoltà a tornare a lavoro. “Ci vuole tempo prima di ritornare a essere sé stessi”, ha detto Prasad. Anche pazienti con una polmonite comune spesso riportano sintomi come tosse, spossatezza e dolori al petto nei tre mesi successivi.
Per rispondere a queste domande, è necessario affrontare questioni metodologiche di lunga data. All’inizio della pandemia, milioni di americani che avrebbero dovuto ricevere una diagnosi di covid non sono mai stati sottoposti al test; dovrebbero essere conteggiati come portatori a lungo termine? Nel frattempo, a causa dei gravi disagi nella routine delle cure mediche, la salute fisica e mentale di molti pazienti potrebbe essere peggiorata. E il numero di persone infette complica ancora di più le cose. La ricerca sulla malattia di Lyme – una sindrome post-infettiva controversa, con sintomi ampiamente simili a quelli del long covid – ha come base di partenza circa 4.000 casi di Lyme in America ogni anno; gli Stati Uniti hanno registrato, una volta, quasi altrettanti nuovi casi di coronavirus in un singolo giorno. Può essere vero, quindi, che alcuni portatori a lungo termine sperimentino sintomi non comuni – forse connessi al virus, o forse no –, come può essere vero che quei sintomi non siano quelli di cui la persona media dovrebbe preoccuparsi, o sui quali i ricercatori dovrebbero concentrarsi. Se lanci un dado cento volte, la possibilità che esca il sei per sei volte consecutive è estremamente bassa. Se lo lanci duecentoventi milioni di volte – grossomodo il numero di casi di coronavirus accertati nel mondo –, è giocoforza che alcune cose strane accadano.
Come sindrome post-infettiva amorfa, il long covid presenta sfide particolari. Prasad descrive un problema conosciuto come “bias dell’accertamento”.
“Se hai avuto l’influenza due anni fa rispetto al covid lo scorso anno, il modo in cui i medici guarderanno alle complicazioni sarà molto diverso”, ha detto. Un altro problema correlato è “il bias del pregiudizio”: dato che il covid è un evento molto rilevante nella vita delle persone, queste potrebbero attribuire ogni sintomo che provano nei mesi seguenti a quella infezione.
Non molto tempo fa, Berrent mi ha detto che il covid era responsabile della caduta del dente davanti del figlio, nove mesi dopo la diagnosi. Le ho chiesto come fosse certa del collegamento con il covid; mi ha risposto che aveva postato un sondaggio sulla pagina dei Survivor Corps, e che molte persone avevano riportato problemi non comuni ai denti. “Se cerchi una parola-chiave nei Survivor Corps e nessun altro ha provato qualcosa di simile, probabilmente non è collegato al covid”, ha detto Berrent. “Ma, quando controlli e ci sono migliaia di risposte in merito, realizzi che sei sulla buona strada”.
Forse, o forse no.
Ho chiesto spiegazioni a Berrent riguardo la sua frase: “non c’è nulla come un caso lieve di covid”.
Cosa dire dei milioni di persone che, essendosi a un certo punto infettate, risultano ora stare bene? Le ho detto di aver avuto in cura persone completamente guarite. Di sicuro anche lei ne conosce.
“È vero”, ha risposto. “Ma abbiamo visto che il covid può agire come una bomba a orologeria, e che può esplodere da un momento all’altro, in qualsiasi parte del corpo”.
La sovradiagnosi da long covid può dar vita a una serie a sé stante di rischi. Un secolo fa, i dottori diagnosticavano regolarmente l’“idropisia”, termine generico per indicare una patologia in cui un eccesso di liquidi causa rigonfiamenti nel corpo. Conosciuta ora come edema, tali rigonfiamenti sono tra le patologie più comuni che incontro in quanto medico. Ma il modo in cui me ne occupo dipende da cosa lo sta causando. Il rigonfiamento riflette un problema al cuore, al fegato, o ai reni? Si tratta di una carenza nutrizionale, o di un cancro esteso? A volte, l’edema richiede un trattamento semplice, come un frullato di proteine; altre volte, la terapia giusta potrebbe essere un intervento a cuore aperto. Per alcuni sintomi, una diagnosi di long covid potrebbe nascondere più di quanto riveli.
Prasad mi ha detto che, secondo la sua esperienza, sta diventando sempre più difficile fare domande basilari sulle origini e sulla gravità del long covid. Suggerire che potrebbero essere implicati fattori psicologici – o che i sintomi persistenti non siano specifici del virus – spesso solleva accuse di sviamento. “Sembra di camminare sulle uova”, ha detto. Diversi, recenti studi hanno scoperto che molte persone che riportano sintomi da long covid non hanno anticorpi contro il coronavirus. (Sebbene i livelli di anticorpi possano scendere col tempo, la maggior parte delle persone che hanno avuto l’infezione continua ad avere anticorpi per mesi.) Molti attivisti in difesa di pazienti con long covid, inclusa Berrent, insistono col dire che la sindrome deve essere considerata un disturbo fisiologico, dipendente dal coronavirus. Ma la malattia mentale è comunque una malattia; a modo loro, stanno decretando quale sofferenza conta, e quale no.
A prescindere da ciò che mostrano i dati, ha detto Prasad, abbiamo bisogno di “riconoscere la sofferenza delle persone. Quando qualcuno sente qualcosa nel proprio corpo, quel “qualcosa” esiste – sia o meno correlato al covid. La gente impiega moltissime energie mentali chiedendosi se si tratti di long covid oppure no. Ma, in sostanza, la professione del medico ha a che fare con la compassione. Come dottori, se i pazienti stanno soffrendo abbiamo il dovere di capire in che modo aiutarli”.
All’inizio dell’estate, ho partecipato a un summit virtuale sulla difesa del paziente tenuto dai Covid Survivors for Change (C.S.F.C.), un’organizzazione fondata da Chris Kocher, avvocato del Queens. Circa duecento persone si sono riunite per un corso intensivo sulla difesa del paziente; i punti all’ordine del giorno includevano dibattiti sui vaccini e l’organizzazione di marce politiche. Kocher parlava da una stanza poco illuminata, e ha aperto la sessione accendendo una candela. Dietro di lui, su un muro beige, c’era una bacheca in cui campeggiavano adesivi e braccialetti a supporto di varie cause. Ha descritto così uno degli obiettivi della difesa dei pazienti affetti da covid: “Onorare lo strazio che tutti voi avete provato, ma anche costruire qualcosa di inclusivo, resiliente, pieno di speranza”.
Prima di fondare il C.S.F.C., Kocher, che ha prestato servizio come consulente speciale presso l’ex-sindaco Micheal Bloomberg, ha gestito l’Everytown Survivor Network, sezione di quartiere dell’ Everytown for Gun Safety – ossia il più ampio gruppo di prevenzione della violenza da armi da fuoco del paese. Lo scorso anno, con i suoi amici, conoscenti e colleghi toccati dalla pandemia, ha deciso di dedicarsi alla difesa dei pazienti affetti da covid. Si è unito a gruppi Facebook e ad altri forum online per pazienti e famiglie. “C’erano così tante somiglianze tra il covid e la violenza da armi da fuoco”, mi ha detto Kocher. “La perdita improvvisa di persone care, famiglie che non hanno potuto essere loro vicino negli ultimi istanti, questa mancanza completa di una chiusura, di un addio”.
Al summit, una donna di nome Kim ha affermato che parlare con persone che non hanno dovuto lottare con il long covid l’ha fatta sentire “insignificante, nella mia esperienza, perché la loro normalità sembra contare di più delle nostre perdite. È davvero frustrante”. Un uomo, Ed, ha riportato che “le persone pensano che il covid sia acqua passata e che sia tempo di andare oltre”. C.S.F.C. sta sostenendo circa una dozzina di proposte politiche, compreso un supporto economico alle famiglie colpite dal covid; una strategia a livello nazionale per l’elaborazione del lutto e per la salute mentale; il rimborso delle spese funebri per le vittime di covid; il diritto esteso di congedo retribuito, assicurazione per la disabilità, condono del prestito e indennizzo lavorativo per i portatori a lungo termine di covid.
I primi di agosto, i C.S.F.C. sono passati dalla formazione virtuale alle dimostrazioni in presenza. Ho partecipato a un marcia dei sopravvissuti a New York City, annunciata da Kocher come “una delle giornate più partecipate, a livello nazionale, di consapevolezza e azione al fianco dei sopravvissuti al covid”. C.S.F.C. ha supportato l’organizzazione di circa trenta marche in venti stati. Più di una dozzina di edifici in tutto il paese, oltre alle cascate del Niagara, sono state illuminate di giallo, il colore dei sopravvissuti al covid.
Il nostro obiettivo era di fare 615.000 passi – uno per ogni americano morto a causa del virus. Güthe e Berrent sarebbero intervenuti durante l’evento finale: eravamo d’accordo per incontrarci prima e partecipare insieme alla marcia.
Ho incontrato Berrent nella hall di un hotel, indossando una mascherina chirurgica; ha insistito perché prendessi una delle sue FFP2. (Lei e Güthe portavano entrambi due mascherine: una FFP2 bianca e sopra una di stoffa nera, su cui era disegnato il logo dei Survivor Corps.)
Ci siamo stretti in un taxi e abbiamo abbassato i finestrini. Ho chiesto a Berrent cosa pensasse dell’annuncio del sindaco Bill de Blasio, ossia che a New York City sarebbe stato necessario esibire il certificato di vaccinazione per mangiare nei locali al chiuso, andare in palestra e assistere agli spettacoli di Broadway. “Stai scherzando? Io vorrei un mandato federale [l’equivalente di un mandato d’arresto, o perquisizione, n.d.t.]”, ha risposto. Il modo per far vaccinare gli americani, mi ha detto, sarebbe “spaventarli parlandogli del long covid. Nessun venticinquenne pensa di finire intubato. Ma tu digli: ‘soffrirai di disfunziole erettile, ti cadranno i denti, non andrai più in palestra’. Si vaccinerebbe e indosserebbe due mascherine, non una. Capisci?”.
Quando siamo arrivati al lato est del Cadman Plaza Park, ai piedi del ponte di Brooklyn, il sole splendeva allegramente. Centinaia di persone, quasi tutte vestite di giallo, si erano riunite. Molti avevano cartelli al collo con le foto dei propri cari scomparsi e le date in cui erano morti. Nonostante ciò, l’atmosfera era sorprendentemente festosa – più un incontro di football che una commemorazione. Un dj si era sistemato al centro del parco, e gli altoparlanti mandavano musica a tutto volume: i Chainsmokers, Baby Bash, Kool & the Gang. Una donna aveva un tutù giallo; un uomo portava una parrucca gialla fosforescente. Qualcuno ballava. Ognuno, quasi, di quelli che potevo vedere indossava la mascherina.
Berrent ha salutato i partecipanti alla marcia come il sindaco molto amato di una piccola città.
“Mi sento come se ti dovessi la vita”, le ha detto un uomo. All’inizio di quest’anno, lui e la moglie si sono ammalati di covid, e così i tre figli piccoli. I genitori della moglie erano morti entrambi a causa del virus. “Quando ci siamo ammalati, il dottore ci ha detto: ‘Ecco tre Motrin, prendeteli e tornate a casa’”, ha raccontato l’uomo. Sentendosi abbandonati, si sono rivolti alla pagina Facebook di Berrent. Lì hanno trovato una comunità, e sono venuti a conoscenza di diversi rimedi non provati, ma usati da molti: zinco, magnesio, aspirina, tè nero. La moglie ha descritto poi la sua frustrazione nei confronti dell’amministrazione Biden, la quale, ha detto, ha dato molta enfasi ai vaccini mentre “non diceva alle persone come prendersi cura di sé quando contraevano il covid. Abbiamo guardato le notizie per tutto l’anno e non abbiamo imparato nulla. La tua pagina Facebook ci ha cambiato la vita”.
Una donna con un fiore giallo nei capelli si è fatta avanti. Portava un cartello con la fotografia di sua madre, e ha detto a Berrent come si fosse sentita sopraffatta dalla sua diagnosi di covid, ad aprile dell’anno scorso. Isolata in casa, impossibilitata a vedere sua madre di persona, la donna aveva visitato il gruppo Facebook di Berrent. “C’erano più informazioni in quel gruppo che in ogni altro posto”, ha detto. “Dicevo all’ospedale, ‘Dobbiamo fare questo, dobbiamo fare quello’. Loro mi dicevano, ‘Non facciamo queste cose, qui’”. Alla fine, la madre della donna è morta. “Le persone sulla tua pagina sono state incredibilmente di supporto”, ha detto. “Seicento estranei sulla tua pagina, che pregavano per la mamma. La potenza di un gesto simile è incommensurabile”.
La marcia lungo il ponte ha avuto inizio. Berrent ha ripreso in diretta l’evento con il cellulare, fermandosi per qualche selfie. “Sono qui a marciare per ognuno e per tutti voi”, ha detto alla telecamera. Le macchine suonavano il clacson in supporto; i ciclisti ci davano il cinque, sfrecciandoci vicino. Mentre camminavo – il sudore che colava sulle tempie, il profilo di Manhattan di fronte – mi sono chiesto cosa ne sarebbe stato di questo movimento.
Durante la pandemia, l’America è sembrata spesso divisa in due tribù: una che ignora gli scienziati e l’altra che invece li ascolta.
Ora il long covid ha dato vita a un terzo gruppo: persone che prendono ogni precauzione e che al tempo stesso sono in aperta opposizione con il sistema scientifico, diffidenti riguardo le sue motivazioni, approcci e capacità.
Se il movimento dei sopravvissuti al covid non abbraccia un approccio razionale alla propria sofferenza, cadrà vittima della cattiva informazione.
Ma, dopo una pandemia ideologicamente polarizzata, i sopravvissuti potrebbero ora essere ideologici a loro volta. Un’ideologia non lascia spazio alle sfumature finché non rimangono solo sostenitori e oppositori, chi crede e chi non crede. Il dogma oscura il dato; la causa sbaraglia la verità. Quando lo scetticismo diventa un tabù, il progresso avanza a fatica.
Poco dopo mezzogiorno, ci siamo avvicinati alla City Hall. Su un palchetto in mezzo alla strada, Kocher ha introdotto alcuni di coloro che avrebbero parlato: un veterano dell’areonautica militare il cui padre veterano era morto di covid; una ragazza di quindici anni che aveva perso il nonno a causa del virus. Al mio fianco, Berrent ha preso un paio di tacchi neri dalla sua borsa. Quando è stato il suo momento di parlare, si è avvicinata al leggio e si è tolta le mascherine. “Rappresentiamo circa 135 milioni di americani sopravvissuti al covid, ma che sono lontati dall’essere guariti”, ha detto. “Il covid è stato, e continua a essere, la più grande guerra della nostra generazione. Come americani, non lasciamo i nostri compagni da soli sul campo di battaglia. Non è questo che siamo, come popolo”.
Berrent è scesa dal palco, e un altro oratore è salito. Su una panchina lì vicino, con il suo cellulare, mi ha letto qualche commento riconoscente che i membri dei Survivor Corps avevano lasciato sulla pagina del gruppo, in risposta alla sua live-stream. Poco dopo mi sono congedato, ho chiamato un taxi e mi sono diretto a casa.
Il taxi ha girato verso est, in direzione di un ospedale del centro in cui qualche volta presto servizio. Ho pensato a quegli ambulatori, alle sale conferenze, ai laboratori, e a tutte le sfide future. Il dolore di chi è sopravvissuto al covid è reale e, in alcuni casi, crescente. E ancora ci vorranno anni di ricerca scrupolosa per conoscerlo fino in fondo.
Eppure, mi sento come se fossi caduto anch’io nel limbo, assieme ai sopravvissuti, tra scienza e difesa, dottori e pazienti, dati e dimostrazioni. Avverto un senso di disperazione per quelli che ho appena lasciato e un’affinità con quelli verso cui sto viaggiando: medici e ricercatori che hanno dedicato la loro carriera, seppur in maniera imperfetta, ad aiutare i pazienti. Mi sono chiesto cosa avrebbe comportato attraversare il limbo. Ho sperato che, guardandolo, ci saremmo accorti che è lo stesso ponte, quello su cui dobbiamo camminare.
[1] “Organizzazione internazionale ad azione diretta, impegnata a richiamare l’attenzione sulle vite dei malati di AIDS e sulla relativa e possibile pandemia, per condurre a legislazioni, ricerche e trattamenti medici che portino alla fine della malattia, mitigando la perdita vite e salute umane”.