La nascita della libertà sindacale
La nascita della libertà sindacale
Per poter analizzare il concetto di Libertà sindacale è necessario comprendere gli sviluppi del rapporto datore di lavoro–lavoratore sin dalle sue origini. La Prima Rivoluzione Industriale, nel XVIII sec.[1], è l’evento storico che apre l’Europa alla modernità industriale. Il fenomeno di industrializzazione produce effetti sia per la produzione, ove l’introduzione della macchina a vapore è la massima rappresentazione di tale processo evolutivo, sia sotto l’aspetto sociale, ove si manifesta una crescita demografica ed il trasferimento delle famiglie dalle campagne alle città.[2]
L’uso delle macchine, poste al centro di un processo di produzione in serie, mette in evidenza il sorgere di una società fondata sulla ricchezza di pochi imprenditori capitalisti, che organizzano e dirigono il lavoro altrui al fine di ricavarne il massimo profitto.
Precedentemente fondata sul modello agricolo, essa inizia ad aprirsi al modello industriale. Si ha, dunque, una trasformazione della società. “Nasce un mondo nuovo, popolato da lavoratori assai diversi dal passato, i quali lavorano a ritmi massacranti e salari da fame, in grado di assicurare la mera sopravvivenza, in condizioni ambientali e igieniche spaventose, che non garantiscono nessun rispetto della salute, dell’integrità psico-fisica, della dignità”[3].
Il lavoratore preindustriale detiene due caratteristiche importanti: la prima è il possedere la tecnica di lavorazione, ossia il saper fare una cosa, mentre la seconda caratteristica è il poter gestire i tempi di lavoro e di riposo.
La nuova organizzazione industriale impone che tutti lavorino nello stesso luogo e negli stessi tempi; l’orario di lavoro è scandito dal suono delle sirene. Il lavoratore è come una macchina, anzi per meglio dire, è un ingranaggio della produzione.
Tale sviluppo industriale si manifesta in Gran Bretagna, ma si diffonde in Europa in poco tempo. Nelle stesse fabbriche inglesi inizia a formarsi una manodopera qualificata, cd. Classe operaia, ossia lavoratori salariati, che offrono le proprie prestazioni di lavoro in cambio di un salario. Pur tuttavia, il rapporto intercorrente tra lavoratori e capitalisti non è pacifico e paritario; i prestatori di lavoro sono sottopagati, sfruttati ma soprattutto totalmente soggetti al volere dei propri padroni, appartenenti alla “middle class”.
Nelle fabbriche non lavorano solo gli uomini ma soprattutto donne e bambini, anche molto piccoli, poiché costano meno[4]. Questi ultimi, in particolar modo, sono usati sia nelle miniere, come quelle di zolfo, ma anche nelle fabbriche, dove per la loro statura possono lavorare sotto i macchinari[5].Gli stessi sono definiti “hands” ossia mani, mettendo in evidenza che ciò che interessa al datore di lavoro, non è la tutela della persona-lavoratore, bensì la funzione del suo sottoposto e la produzione del bene che aumenta la sua ricchezza. L’aumento della forza lavoro disponibile aumenta tale contrasto, facendo ridurre i salari e rafforzando il potere datoriale sempre più.
Il padrone è posto in una posizione di egemonia. Il mercato di lavoro è fortemente concorrenziale, ciò permette al datore di lavoro di sostituire eventuali lavoratori, che contestano le sue decisioni, con altri prestatori di lavoro che accettano salari inferiori e condizioni meno favorevoli.
Tale situazione permette all’imprenditore di massimizzare i profitti e ridurre notevolmente i costi. Mentre negli altri stati europei l’attività industriale si sviluppa rapidamente, in Italia si riscontrano delle difficoltà[6]. È possibile notare che prima dell’unificazione nazionale il sud Italia era industrializzato ed investiva nello sviluppo delle nuove macchine. Infatti, nel 1855 il Regno delle Due Sicilie è il terzo paese più industrializzato del mondo, dietro solo a Regno Unito e Francia.
In seguito al 1861 e all’annessione al Regno di Italia, il sud si impoverisce, poiché una nuova classe dirigente aristocratica concentra l’investimento economico e lo sviluppo dei macchinari nel nord del paese. Nel sud i grandi proprietari terrieri, detti Baroni, continuano a far praticare l’agricoltura nei latifondi, sfruttando i contadini senza alcun tipo di scrupolo, costringendoli a lavorare per salari molto bassi ed in condizioni disumane. Non esiste una legislazione nazionale volta a tutelare la posizione dei lavoratori. In un’Italia preunitaria, divisa in tanti piccoli stati autonomi, particolare rilevanza deve essere fornita al Codice di San Leucio, emanato nel 1789 dal Re Ferdinando IV di Borbone. Tale codice costituisce una delle prime fonti legislative, di uno stato preunitario, che cerca di garantire una giusta retribuzione a tutti i lavoratori della Real Colonia di San Leucio e disciplina la vita, anche extra lavorativa, dei dipendenti della suddetta seteria.[7]
Negli altri stati europei, in Francia e in Inghilterra, si sviluppa nella prima metà dell’ottocento una prima legislazione di tutela animata più da obiettivi di razionalizzazione della produzione che da reali intenti protettivi dei lavoratori: infatti, si ha una regolamentazione sulla durata della giornata lavorativa, soprattutto per donne e bambini, dette mezze forze.[8] Nonostante ciò la situazione per i lavoratori non migliora. In Italia nel 1865 viene promulgato il primo codice civile unitario, di ispirazione napoleonica, che contiene due soli articoli riferibili al lavoro di fabbrica.
Il primo è l’art. 1627 ove “le persone obbligano la propria opera all’altrui servizio”; il secondo è l’art. 1628, in cui si precisa che il contratto non può essere stipulato a tempo indeterminato. Tali disposizioni mettono in evidenza che l’impianto del primo codice italiano si fonda sulla proprietà fondiaria e che si superano i rapporti servili a vita, retaggio dell’età feudale. Ciò nasce dal fatto che i principi della Rivoluzione francese avevano attribuito grande rilevanza ai rapporti tra soggetti liberi ed uguali. Questi possono disciplinare il rapporto di lavoro autonomamente mediante lo strumento del contratto. Inoltre, i codici ottocenteschi ritengono che lo Stato debba garantire l’ordine pubblico e non interessarsi dei rapporti di lavoro. Pur tuttavia, la libera determinazione delle parti mette in evidenza una forte disuguaglianza tra i contraenti.
Il rapporto di lavoro tra padrone e singolo lavoratore è totalmente asimmetrico, poiché il lavoratore è un contraente estremamente debole.
“Chi cerca lavoro ha molta più necessità di trovarlo di quanta ne abbia chi è in cerca di chi possa lavorare per lui”.[9] In un sistema fortemente concorrenziale il padrone propone al lavoratore di lavorare anche 18 ore al giorno, di accontentarsi di una retribuzione misera, di lavorare in condizioni disumane e di non ottenere alcun tipo di tutela. La libertà del lavoratore non consiste nello stipulare il contratto con il padrone in un rapporto paritario, bensì di accettare di sottoscrivere un contratto scritto e voluto dal solo imprenditore.
Per sua natura il contratto è uno strumento giuridico che rappresenta eguaglianza, ma in questo caso mostra un “diritto eguale in un sistema diseguale”.
I lavoratori, sfruttati e affamati, iniziano ad unirsi sperando di poter ottenere un miglioramento delle condizioni di lavoro ma soprattutto della paga. Si forma un fenomeno che prende il nome di “Associazionismo dei lavoratori”. Mentre in altri stati europei tale fenomeno inizia a manifestarsi e si sviluppa con maggiore rapidità, nell’Italia preunitaria esso si forma con particolare difficoltà[10]. La ragione è legata alla tipologia di lavoro prevalentemente terriera, ove i grandi proprietari fondiari, con forza, reprimono ogni tipologia di protesta dei propri coloni. In seguito all’unificazione nazionale e con il formarsi delle prime grandi fabbriche, soprattutto nel nord dell’Italia, si costituiscono le prime manifestazioni di aggregazioni tra operai.
Alla fame ed alla sofferenza dei lavoratori si contrappone la forza del padrone, che considera i prestatori di lavoro come proprietà privata e non come controparti.
Il comune sentimento di disagio pone in evidenza l’esigenza massima per tutti i lavoratori di trovare soluzioni alternative alla mera sottoposizione al padrone. Iniziano a sorgere i primi gruppi di fatto rappresentativi di operai o contadini. Già nella prima parte del 1800, quasi esclusivamente al Nord e in Toscana, iniziano a costituirsi i primi organismi di tutela in caso di malattia, infortuni o perdita del posto di lavoro; tra questi organismi possiamo ricordare le Società di mutuo soccorso [11].
Nascono anche le leghe di resistenza, le società operaie come le prime associazioni di mestiere (la prima in Italia è quella dei tipografi) con lo scopo di promuovere la solidarietà di classe e la tutela dei diritti. I primi movimenti operai iniziano una vera e propria lotta sociale con i padroni. È necessario evidenziare che non esiste nell’ordinamento italiano ottocentesco una normativa volta a tutelare la classe dei lavoratori. Anzi, tale anomia è conforme al pensiero liberale dello “Stato Minimo”, ove si predilige salvaguardare l’iniziativa economica del singolo e la tutela della proprietà privata. L’ordinamento tutela gli imprenditori e non riconosce, anzi combatte, le prime forme di aggregazione di lavoratori.
L’ideologia liberale economica individua il salario del lavoratore come il frutto del rapporto contrattuale tra parti e non come il simbolo della “innaturale pressione esercitata da coalizioni con il ricorso a strumenti di lotta sociale come lo sciopero (il rifiuto collettivo di prestare l’attività lavorativa), il quale, per tale motivo, veniva configurato come illegittimo e addirittura perseguito come reato”.[12]