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La nullità canonica del matrimonio non sempre blocca l’assegno divorzile

Sydney
Ph. Antonio Capodieci / Sydney

In tema di divorzio, il riconoscimento dell’efficacia della sentenza ecclesiastica di nullità del matrimonio religioso, intervenuto dopo il passaggio in giudicato della pronuncia di cessazione degli effetti civili ma prima che sia divenuta definitiva la decisione in ordine alle relative conseguenze economiche, non comporta la cessazione della materia del contendere nel giudizio civile avente ad oggetto lo scioglimento del vincolo coniugale, il quale può dunque proseguire ai fini dell’accertamento della spettanza e della liquidazione dell’assegno divorzile.

Vi è infatti una sostanziale autonomia tra la causa ecclesiastica di nullità del matrimonio ed il giudizio di cessazione degli effetti civili di quest’ultimo, in quanto caratterizzati da petita e causae petendi completamente diversi tra loro, essendo la prima volta ad ottenere l’accertamento dell’invalidità originaria del vincolo coniugale, e dunque del matrimonio-atto, mentre la seconda incidente sul matrimonio-rapporto del quale mira a provocare lo scioglimento con efficacia a far data dalla sua emissione e, quindi, senza pregiudicare quanto sino a quel momento venutosi a determinare nelle relazioni, anche di natura economica e patrimoniale, tra i coniugi.

Ciò, ovviamente, determina la piena legittimità di una possibile coesistenza tra le due pronunce come avviene nel caso in cui la delibazione della sentenza ecclesiastica intervenga successivamente al passaggio in giudicato di quella di divorzio e la conseguente, quasi naturale e scontata, affermazione dell’inidoneità della sentenza canonica ad impedire, nel caso in cui lo scioglimento del vincolo abbia luogo disgiuntamente dalla determinazione delle conseguenze economiche, la prosecuzione del giudizio civile ai fini dell’accertamento della spettanza e della liquidazione dell’assegno divorzile.

 

La vicenda

La questione sottoposta al vaglio della Corte Suprema a Sezioni Unite prende spunto da un contenzioso avente ad oggetto la declaratoria di cessazione degli effetti civile di matrimonio per il riconoscimento dell’assegno divorzile in favore della moglie nel corso del quale interviene sentenza deliberativa della pronuncia di nullità del relativo matrimonio emessa dal competente Tribunale Ecclesiastico Regionale e ratificata dal Supremo Tribunale della Segnatura Apostolica.

A fronte pertanto di tale sopravvenuta pronuncia canonica il marito chiedeva che fosse dichiarata la cessazione della materia del contendere relativamente alla questione ancora dibattuta dell’assegno divorzile e, pertanto, il ricorso veniva assegnato alle Sezioni Unite per la risoluzione del rilevato contrasto di giurisprudenza avente ad oggetto la questione: “se il giudicato interno (per effetto di sentenza parziale o capo autonomo non impugnato della sentenza) che dichiari la cessazione degli effetti civili del matrimonio concordatario sia idoneo a paralizzare gli effetti della nullità del matrimonio, dichiarata con sentenza ecclesiastica successivamente delibata dalla corte d’appello (con sentenza passata in giudicato), solo in presenza di statuizioni economiche assistite dal giudicato o anche in assenza di dette statuizioni, con l’effetto (nel secondo caso) di non precludere al giudice civile il potere di regolare, secondo la disciplina della L. n. 898 del 1970 e succ. mod., i rapporti patrimoniali tra gli ex coniugi il cui vincolo sia consacrato in un atto matrimoniale nullo”.

 

La decisione

Con la sentenza n. 9004 del 31 marzo 2021 in commento la Corte di Cassazione (a Sezioni Unite), dopo avere illustrato in motivazione il vivace dibattito che si è sviluppato nel tempo nella propria giurisprudenza, ha concluso per la soluzione del contrasto di posizioni sulla base del seguente testuale principio: In tema di divorzio, il riconoscimento dell’efficacia della sentenza ecclesiastica di nullità del matrimonio religioso, intervenuto dopo il passaggio in giudicato della pronuncia di cessazione degli effetti civili ma prima che sia divenuta definitiva la decisione in ordine alle relative conseguenze economiche, non comporta la cessazione della materia del contendere nel giudizio civile avente ad oggetto lo scioglimento del vincolo coniugale, il quale può dunque proseguire ai fini dell’accertamento della spettanza e della liquidazione dell’assegno divorzile e, pertanto, nel caso specificatamente trattato, per le condizioni di fatto e di diritto che lo hanno contraddistinto, ha escluso che la sentenza ecclesiastica di nullità del matrimonio fosse idonea a precludere la prosecuzione del giudizio e, quindi, la decisione del Giudice ordinario sulla questione relativa alla corresponsione o meno dell’assegno divorzile.  

Le Sezioni Unite, invero, hanno precisato al riguardo come il passaggio in giudicato della pronuncia di cessazione degli effetti civili del matrimonio, verificatosi in data anteriore alla delibazione della sentenza ecclesiastica, escluda l’operatività di quest’ultima non solo ai fini dello scioglimento del vincolo coniugale ma anche e proprio in ordine alla determinazione delle relative conseguenze economiche imponendo pertanto ai Giudici di legittimità di procedere all’esame delle censure proposte con il ricorso per cassazione.

In conseguenza di tanto, anche per le restanti questioni dibattute non formanti oggetto di analisi in questa sede, la Corte rigettava il ricorso compensando tra le parti le spese della relativa fase per “l’oggettiva complessità della questione tratta, dipendente da un evento sopravvenuto nel corso del giudizio”.

 

Le riflessioni conclusive e le correlazioni tra nullità canonica del matrimonio ed assegno di divorzio

Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione con questa recentissima ed illuminante sentenza tracciano perfettamente i contorni di diritto della problematica relativa alla validità ed efficacia della pronuncia canonica di nullità del matrimonio rispetto alle statuizioni adottate, o da adottarsi, da parte del Giudice ordinario in merito all’assegno di divorzio.

La sentenza in commento, infatti, si sottopone alla nostra attenzione ed alla nostra lettura perché costituisce, sia pure nella sua necessaria brevità espositiva, la summa riassuntiva delle posizioni che nel tempo hanno assunto proprio i Giudici di legittimità sul tema, pervenendo, in conclusione, alla declaratoria del fondamentale principio di diritto secondo il quale, appunto, In tema di divorzio, il riconoscimento dell’efficacia della sentenza ecclesiastica di nullità del matrimonio religioso, intervenuto dopo il passaggio in giudicato della pronuncia di cessazione degli effetti civili ma prima che sia divenuta definitiva la decisione in ordine alle relative conseguenze economiche, non comporta la cessazione della materia del contendere nel giudizio civile avente ad oggetto lo scioglimento del vincolo coniugale, il quale può dunque proseguire ai fini dell’accertamento della spettanza e della liquidazione dell’assegno divorzile.

È anzitutto significativa la circostanza la Corte abbia rammentato, anche in questa sede, come sempre le medesime Sezioni Unite avessero ritenuto abrogata, per effetto dell’entrata in vigore della L. n. 121 del 1985 che aveva dato esecuzione allo Accordo di revisione del Concordato lateranense del 1929, la riserva di giurisdizione in favore dei Tribunali ecclesiastici in materia di nullità del matrimonio concordatario celebrato secondo le norme del diritto canonico (1) ed avessero affermato altresì che il concorso tra la giurisdizione ecclesiastica e quella civile deve essere risolto secondo il criterio della prevenzione in favore della giurisdizione civile in virtù del quale a) il giudice italiano preventivamente adito può giudicare sulla domanda di nullità di un matrimonio concordatario, b) il convenuto in una causa di divorzio può chiedere l’accertamento della nullità del vincolo, c) la pendenza del giudizio civile nel quale sia stato chiesto l’accertamento della nullità impedisce la delibazione della sentenza ecclesiastica, d) il giudizio civile può essere paralizzato soltanto dall’intervenuta delibazione della sentenza ecclesiastica, e) il giudicato di divorzio non impedisce la delibazione della sentenza ecclesiastica di nullità, ma non può ritenersi travolto dalla stessa (2).

Il primo assioma, pertanto, che viene ulteriormente ribadito è certamente quello della sostanziale autonomia sussistente tra la causa ecclesiastica di nullità del matrimonio ed il giudizio di cessazione degli effetti civili di quest’ultimo, in quanto caratterizzati da petita e causae petendi completamente diversi tra loro, essendo la prima volta ad ottenere l’accertamento dell’invalidità originaria del vincolo coniugale, e dunque del matrimonio-atto, mentre la seconda incidente sul matrimonio-rapporto del quale mira a provocare lo scioglimento con efficacia a far data dalla sua emissione e, quindi, senza pregiudicare quanto sino a quel momento venutosi a determinare nelle relazioni, anche di natura economica e patrimoniale, tra i coniugi.

Ciò, ovviamente, determina, come ricordano opportunamente le Sezioni Unite, la piena legittimità di una possibile coesistenza tra le due pronunce come avviene nel caso in cui la delibazione della sentenza ecclesiastica intervenga successivamente al passaggio in giudicato di quella di divorzio e la conseguente, quasi naturale e scontata, affermazione dell’inidoneità della sentenza canonica ad impedire, nel caso in cui lo scioglimento del vincolo abbia luogo disgiuntamente dalla determinazione delle conseguenze economiche, la prosecuzione del giudizio civile ai fini dell’accertamento della spettanza e della liquidazione dell’assegno divorzile.

I Giudici di legittimità, pertanto, sottolineano ancora la giusta e corretta rivendicazione del potere giudiziario ordinario a decidere in materia poiché, ovviamente sempre in presenza di un’espressa domanda in tal senso da parte del coniuge che si ritenga legittimato a riceversi tale emolumento, il giudicato di divorzio non implica alcun accertamento in ordine alla validità del matrimonio, come invece è da rilevarsi in sede di procedimento canonico di nullità, ma piuttosto alla constatazione dell’intervenuta dissoluzione della comunione materiale e spirituale tra i coniugi e dell’impossibilità di ricostituirla, nonché alla necessità di un riequilibrio tra le condizioni economico-patrimoniali dei coniugi, da realizzarsi attraverso il riconoscimento di un contributo in favore di uno di essi.

La distinzione, pertanto, netta e precisa che si rinviene tra i due giudicati riflette la natura stessa del diverso intervento giurisdizionale che si richiede agli organi della Chiesa e dello Stato, poiché nel primo caso, in forza della sacralità del vincolo matrimoniale nella sua indissolubilità, si dà preminenza esclusiva all’atto costitutivo del medesimo vincolo, mentre nel secondo caso assumono rilievo le modalità ed i termini di svolgimento di quest’ultimo nella sua effettività, contrassegnata dalle vicende concretamente affrontate dai coniugi come singoli e dal nucleo familiare nel suo complesso, anche nella loro dimensione economica, la cui valutazione trova fondamento, a livello normativo, nei criteri indicati dalla L. 1 dicembre 1970, n. 898, articolo 5, comma 6, ai fini dell’accertamento della spettanza e della liquidazione dell’assegno.

In questo secondo contesto normativo ed ovviamente anche giurisprudenziale, dunque, chiaramente votato ad una lettura più laica del rapporto matrimoniale, a tutti gli effetti di legge sussumibile nell’ambito di un qualsivoglia negozio di natura obbligatoria sia pure con le sue specificità dettate dalla normativa speciale sopra ricordata, ci si riporta sempre di più ad una connotazione fattuale del rapporto matrimoniale, desumibile dalle scelte di volta in volta compiute nel corso della vita coniugale e dalle concrete ripercussioni sulle condizioni economiche dei coniugi e l’oggetto del contendere non è più, o comunque non solo, la validità dell’atto costitutivo del matrimonio ma piuttosto il fatto disgregativo di questo che porta poi alla declaratoria di scioglimento del vincolo coniugale.

La definitività, dunque, della pronuncia ordinaria di cessazione degli effetti civile del matrimonio, una volta intervenuta con il suo passaggio in giudicato, è ritenuta tale dalle Sezioni Unite da prescindere totalmente da un eventuale successivo riconoscimento dell’efficacia della sentenza ecclesiastica che abbia dichiarato la nullità del matrimonio stesso al punto da non precludere in alcun modo la prosecuzione del giudizio ai fini della decisione sull’assegno di divorzio (3).

La portata innovativa della sentenza in commento risiede nel fatto che la Corte abbia, a nostro parere correttamente, stabilito come non sia plausibile l’interpretazione, nel caso specifico operata dal Giudice remittente, secondo cui, in quanto aventi il loro fondamento nella solidarietà post-coniugale che presuppone un rapporto di coniugio fondato su un matrimonio-atto valido o quanto meno non nullo, le statuizioni economiche conseguenti alla pronuncia di cessazione degli effetti civili del matrimonio non possano sopravvivere alla dichiarazione di nullità dello stesso, a meno che non siano già passate in giudicato.

Come si vede, infatti, nella fattispecie considerata si “ gioca “, possiamo dire, intorno al concetto giuridico del “ giudicato “ ad ai noti principi in tema di efficacia ed opponibilità delle pronunce anche sotto un profilo squisitamente temporale e cronologico, poiché è evidente che il caso trattato risulta contraddistinto da una sentenza parziale di declaratoria del divorzio, passata in giudicato, cui segue una pronuncia canonica di nullità del matrimonio in costanza di giudizio di divorzio avente ad oggetto le restanti statuizioni di ordine economico-patrimoniale riguardanti i coniugi.

La regola, pertanto, che viene enunciata dalle Sezioni Unite, sempre nel doveroso rispetto dei principi generali di diritto dettati in materia di “giudicato”, è appunto quella di riconoscere la giusta considerazione giuridica alla primigenia sentenza ordinaria di impossibilità della ricostituzione della comunione tra i coniugi, tale da investire il titolo stesso del diritto all’assegno, la cui incontestabilità esclude l’operatività della dichiarazione di nullità del matrimonio.

Opportunamente, dunque, la Corte rammenta e precisa altresì come questa lettura non impedisca comunque alla sentenza canonica di nullità di spiegare i propri effetti ad altri fini quale, ad esempio, quello dichiarativo della validità di un secondo matrimonio eventualmente contratto in violazione dell’articolo 86 c.c. anteriormente allo scioglimento del primo e come la stessa non si ponga nemmeno in contrasto con gli impegni assunti dallo Stato italiano con l’Accordo del 18 febbraio 1984 che si sostanziano, ai sensi dell’articolo 8, “nell’obbligo per lo Stato italiano – alle condizioni ivi indicate, così come precisate nel protocollo addizionale all’accordo medesimo – per un verso di riconoscere gli effetti civili “ai matrimoni contratti secondo le norme del diritto canonico”, per altro verso di dichiarare efficaci “le sentenze di nullità di matrimonio pronunciate dai Tribunali ecclesiastici, che siano munite del decreto di esecutività del superiore organo ecclesiastico di controllo”“, restando invece “rimessa alla competenza dello Stato italiano la disciplina dei rapporti patrimoniali fra i coniugi derivanti dai conseguiti effetti civili dei matrimoni concordatari, come si evince dal disposto dell’articolo 8, comma 1, che sostanzialmente rimanda in proposito alle disposizioni del codice civile, mentre ogni statuizione riguardo al venire meno di tali effetti, con riferimento alla delibazione delle sentenze ecclesiastiche di nullità dei matrimoni concordatari, è rimessa dall’articolo 8, comma 2, ultima parte, esplicitamente alla giurisdizione e implicitamente alla normativa dello Stato italiano” (4).

La decisione in commento, pertanto, è certamente ineccepibile sotto il profilo della rigida applicazione dei suindicati principi di diritto, e segnatamente di quello del “giudicato”, seppur interpretato in una concezione per così dire “generale” del più ampio procedimento civile di divorzio poiché essa tiene conto del fatto che una volta intervenuta, e divenuta definitiva, la sentenza, anche parziale, di declaratoria degli effetti civile del matrimonio tutte le conseguenti statuizioni che da essa dipendano e ne siano un corollario, sia pure ancora pendenti tra le parti interessate, ricevano da quella primigenia pronuncia un imprimatur di cronologica priorità al punto da non poter essere travolte da una eventuale sentenza canonica di nullità del matrimonio che intervenga nelle more del giudizio.

Si tratta, come detto, di una chiara ed evidente rivendicazione del potere decisorio che lo Stato, attraverso i suoi Giudici, manifesta nei confronti della Chiesa e degli Organi giurisdizionali di questa, sia pure salvaguardando, proprio con l’attenzione che si dimostra rispetto alla tempistica delle due diverse sentenze, il principio del giudicato a prescindere dal fatto che l’atto-matrimonio sia stato poi dichiarato definitivamente nullo.

 

1. Vedi Cass. Sez. Un. n. 1824 del 13 febbraio 1993.

2. Vedi Cass Civ. Sez. I, n. 3345 del 18 aprile 1997; n. 12671 del 16 novembre 1999 e n. 12867 del 19 novembre 1999.

3. Così si era espressa di recente la Cass. Sez. Prima Civile, con sentenza n. 1882 del 23 gennaio 2019.

4. Vedi Cass. Civ., Sez. I, n. 4202 del 23 marzo 2001.