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La presupposizione nella dottrina e nella giurisprudenza, con particolare riferimento ad una recente pronuncia della Cassazione

Nota a Corte di Cassazione - Sezione Terza Civile, Sentenza 25 maggio 2007, n. 12235
La dottrina nega ormai che a condizionare tacitamente il contratto ad una circostanza esterna valga la semplice enunciazione del carattere determinante che questa riveste per un contraente, ovvero la conoscenza di tale carattere comunque acquisita dalla controparte; come anche che tale circostanza valga, in via di principio, a determinarne l’annullabilità per errore ovvero la risolubilità per eccessiva onerosità, o che possa incidere sulla permanenza del vincolo contrattuale in virtù dei principi della correttezza e della buona fede.

Invero, ancorché un contraente sia partecipe delle ragioni dell’altro, la circostanza esterna su cui queste si fondano, per la differente relazione che vi intercorre con le istanze interiori di ciascuno di essi, deve continuare a reputarsi come dotata di valenza assiologica differenziata per l’uno e per l’altro e, in definitiva, ancora fattore soggettivo proprio di questo e di quel contraente mai comune ad entrambi (CACCAVALE, Giustizia del contratto e presupposizione, TORINO, 2005, p. 37).

La circostanza esterna assume invece valenza giuridica quando, pur indipendentemente allora da ogni enunciazione contrattuale, si riveli essere stata il fattore in considerazione del quale si sia determinato il contenuto dell’accordo e quello sul quale si sorregge pertanto l’equilibrio economico dell’intero affare.

In tale sua veste essa diviene la base del contratto e, inerendo direttamente al pattuito programma negoziale, può finalmente reputarsi comune nell’accezione più congrua del termine e, in tal guisa, obiettiva, in relazione allo specifico contratto, e non più riferibile alle prospettazioni meramente personali dei contraenti.

Se tale circostanza o già non sussista al momento della conclusione dell’accordo o, pur presente in quel momento, in seguito venga a mancare ovvero ancora non venga ad esistenza, il contratto, privo del fondamento su cui si regge, dovrà allora caducarsi in quanto destituito di ogni ragionevolezza.

È su queste basi che nasce l’istituto della presupposizione o condizione non sviluppata o inespressa, ormai generalmente ammesso dalla giurisprudenza; la Suprema Corte ha affermato che si ha presupposizione quando una determinata situazione di fatto desumibile dal contesto del negozio risulti comune ad entrambi i contraenti, e il suo verificarsi sia indipendente dalla loro volontà; tale situazione deve avere carattere obiettivo e formare il presupposto del negozio.

Pertanto la presupposizione:

- deve essere comune a tutti i contraenti;

- l’evento supposto deve essere assunto come certo nella rappresentazione delle parti ed in questo la presupposizione differisce dalla condizione che costituisce un evento futuro ed incerto;

- deve trattarsi di un presupposto obiettivo, consistente cioè in una situazione di fatto il cui venir meno o il cui verificarsi sia del tutto indipendente dall’attività e volontà dei contraenti e non corrisponda, integrandolo, all’oggetto di una specifica obbligazione (Cass. 31 ottobre 1989, n. 4554; Cass. 21 novembre 2001, n. 14629).

La teoria della presupposizione fu elaborata per la prima volta dalla dottrina giuridica tedesca nella seconda metà del secolo scorso, quando per la prima volta Windsheid ebbe l’idea di attribuire rilevanza a motivi non espressi in una clausola: di essa si apprezzò la portata fortemente equitativa, perché mirava a stemperare il principio, oltremodo rigoroso, della vincolatività assoluta dell’accordo.

Tuttavia fu resa oggetto di forti critiche, tra le quali si può ricordare quella rivoltagli da Lenel. Si sottolineò che, nel rapporto contrattuale, non poteva esservi spazio per i fini contigenti delle parti, a meno che, naturalmente non fossero stati espressi in una clausola e che la teoria della presupposizione non tutelava adeguatamente l’affidamento che le parti riponevano nella stabilità del vincolo contrattuale.

In Italia, la recente pronuncia della Cassazione del 25 maggio 2007, n. 12235, ha affermato che “la presupposizione, non attinendo né all’oggetto né alla causa né ai motivi del contratto, consiste in una circostanza ad esso esterna, che pur se non specificamente dedotta come condizione ne costituisce specifico ed oggettivo presupposto di efficacia in base al significato proprio del medesimo, assumendo per entrambe le parti, o anche per una sola di esse, ma con riconoscimento da parte dell’altra, valore determinante ai fini del mantenimento del vicolo contrattuale”; quindi la Suprema Corte stabilisce che la figura della presupposizione, nei termini suesposti, è da considerasi quale specifico presupposto oggettivo da tenersi distinto sia dai cosiddetti presupposti causali che dai cosiddetti risultati dovuti, la cui mancanza legittima l’esercizio del recesso.

Pertanto estranei alla presupposizione vanno ritenuti i motivi, infatti sin dalle prime decisioni la Corte di Cassazione ha messo in luce tale differenziazione per non contraddire il principio dell’irrilevanza dei motivi.

Essa ha sostenuto, già in tempi lontani, che la ricerca del motivo non è ammissibile, quando esso sia rimasto nella sfera interna dell’autore della dichiarazione della volontà senza tradursi in un apparente e concreto contenuto volitivo, noto, come tale, alla parte cui la dichiarazione era diretta (Cass. 15 febbraio 1932, n. 531, in Rep. Foro It., 1932).

La Corte ha inoltre precisato che il motivo soggettivo ove non sia desumibile dalla dichiarazione negoziale non possa considerarsi parte del contenuto del negozio e quindi deve essere ritenuto giuridicamente irrilevante (Cass. 20 giugno 1958, n. 2148, in Giur. it., 1959, I, p. 330).

In realtà l’accoglimento della teoria della presupposizione incrina il principio della irrilevanza dei motivi. Tuttavia, al fine di non cadere in un pericoloso soggettivismo, la giurisprudenza ha obiettato la nozione di motivo, considerandolo come una circostanza esterna al negozio. Si è così sottolineato che “il presunto dogma della irrilevanza dei motivi discenda dalla costruzione del fenomeno del negozio giuridico quale espressione della volontà del soggetto che lo pone in essere. Inoltre, l’inesistenza con cui la dottrina ha affermato l’egemonia della volontà nella costruzione del negozio giuridico ha portato a considerare che il motivo, per poter acquistare rilevanza contrattuale, deve essere stato propriamente inserito nella convenzione contrattuale, in quanto solo in tal modo esso può entrare a far parte della struttura del negozio in funzione di specifica, anche se non necessariamente esplicita, condizione del rapporto”( Cass. 2 agosto 1977, n. 3384, in Riv. dir. comm., 1979, II, p. 92).

Una parte della dottrina ha sostenuto che una riprova della rilevanza della presupposizione è rinvenuta nell’art. 1345 del codice civile, secondo il quale “il contratto è illecito quando le parti si sono determinate a concluderlo esclusivamente per un motivo illecito comune ad entrambe”. Si è talvolta propensi a ritenere, dunque, che tale disposizione presupponga necessariamente la rilevanza del motivo comune, inteso come afferente ad una circostanza posta a fondamento dell’affare, lecito o illecito che esso sia, in quanto non avrebbe alcun senso far dipendere l’illiceità del contratto dal carattere illecito di un elemento di per sé giuridicamente irrilevante (FERRI, Causa e tipo nella teoria del negozio giuridico, MILANO, 1966, p. 382; PIETROBON, Errore, volontà e affidamento nel negozio giuridico, PADOVA, 1990, p. 514; SCOGNAMIGLIO, Interpretazione del contratto e interessi dei contraenti, in Saggi e documenti di diritto civile, PADOVA, 1992, p. 205).

Il tema della presupposizione impone qualche riferimento, anche, al concetto della causa del negozio giuridico, e ciò essenzialmente perché spesso la dottrina e la giurisprudenza, dalla nozione di causa cui si attingono, mostrano di trarre dirette implicazioni in tema di rilevanza della presupposizione e, in generale, in tema di rilevanza degli scopi particolari delle parti non tradotti in clausole contrattuali.

La causa costituisce la funzione economico-sociale del contratto meritevole di tutela da parte dell’ordinamento e la sua estraneità ad ogni problema connesso con la presupposizione appare del tutto evidente.

La teoria della causa quale funzione economico-sociale esprime la preoccupazione di assicurare al massimo grado il controllo sociale sull’autonomia privata, e a tale risultato essa perviene sancendo, in primo luogo, la non vincolatività dei contratti non appartenenti a tipi socialmente riconosciuti, ovvero che non perseguano interessi socialmente apprezzabili.

La teoria in esame esaurisce qui il suo compito: infatti, è ad essa estranea, sia il problema delle modalità per il tramite delle quali i motivi delle parti possano penetrare nel contenuto del contratto, sia quello dell’individuazione dei congegni tecnico-giuridici attraverso cui il regolamento contrattuale possa essere integrato in vista dei motivi dei contraenti non contemplati in clausole precettive.

Innanzitutto, la nozione di causa quale funzione economico-sociale non impedisce affatto che una clausola, diretta a dare voce alle atipiche finalità dei contraenti , venga inserita nel contratto in forma tacita (CACCAVALE, op. cit., TORINO, 2005, p. 145).

In mancanza di clausola, ancorché tacita, può ipotizzarsi che i motivi individuali assumano rilevanza giuridica in fase di integrazione del contratto.

Alla presupposizione non possono essere propriamente ricondotti nemmeno i cosiddetti risultati dovuti, ed in particolare la qualità del bene, giacché in tal caso gli stessi vengono a rientrare nel contenuto del contratto, il relativo difetto conseguentemente ridondando sul diverso piano dell’inadempimento. La circostanza che il bene sia idoneo all’uso previsto dall’acquirente costituisce invero una qualità giuridica dell’oggetto, la cui mancanza se del caso rileva sul piano dell’inesattezza della prestazione, e pertanto in termini di inadempimento. Anzi, in ordine alla presupposizione come sopra specificata, non si deve poter parlare in termini di adempimento o inadempimento, perché, per definizione, si tratta di una cirocstanza obiettiva, il cui venir meno o il cui verificarsi non deve in nessun modo dipendere dall’attività o dalla volontà dei contraenti e non deve costituire oggetto di una qualche loro obbligazione. La caratteristica della presupposizione è rappresentata appunto dal fatto che il contratto viene concluso sulla base di un determinato presupposto oggettivo: con il venir meno di questo, viene oggettivamente meno anche il vincolo contrattuale, la cui persistenza era subordinata al permanere della situazione, passata o presente, assunta come presupposto oggettivo del contratto, o al verificarsi di quella, considerata allo stesso titolo, contemplata come futura ma certa.

Del pari distinta va tenuta l’ipotesi in cui i fatti e le circostanze presi in considerazione dalle parti vengano specificamente dedotti in contratto come condizione di efficacia, visto che la presupposizione costituisce fenomeno oggettivamente diverso, trattandosi di ipotesi in cui i fatti e le circostanze giustappunto non vengono dalle parti specificamente dedotti in una clausola condizionale.

Bisogna ricordare che parte della dottrina ritiene che la presupposizione acquista rilevanza in sede di interpretazione oggettiva del contratto. Essa è ritenuta lo strumento per mezzo del quale è possibile riequilibrare il rapporto tra le prestazioni quando la prestazione di una delle parti sia divenuta non più “coercibile” in base al generale principio di buona fede.

In verità la dottrina non pretende di potersi rivolgere alla effettiva volontà dei contraenti, ma assume di poter individuare una corrispondente volontà alla stregua dei cosiddetti criteri della interpretazione oggettiva, i quali non solo postulano il ricorso a parametri di normale valutazione del significato dell’atto, ma intervengono, in quanto previsti dall’ordinamento, al fine di poter attribuire all’atto significati ulteriori rispetto a quelli con i quali le parti stesse lo abbiano inteso secondo quanto si possa oggettivamente apprendere (CARRESI, Interpretazione del contratto, in Comm. Cod. civ., a cura di GALGANO, Libro IV: Obbligazioni: artt. 1362-1371, BOLOGNA-ROMA, 1992, p. 73).

Il momento decisivo della operazione ermeneutica risiede dunque nella previsione dell’art. 1366 del codice civile, a tenore del quale “il contratto deve essere interpretato secondo buona fede” (BIGLIAZZI GERI, L’interpretazione del contratto: artt. 1362-1371, in Comm. Cod. civ., diretto da SCHLESINGER, MILANO, 1991, p. 269; PONTANI, La presupposizione nella sua evoluzione, con particolare riferimento all’errore e alla causa, in Quadrimestre, 1991, p. 856; COSTANZA, La presupposizione nella giurisprudenza, in Quadrimestre, 1984, p. 606).

Il contratto in questa prospettiva è considerato come l’atto che traduce in formula giuridica l’intero piano economico delle parti (ripartizione di vantaggi, rischi, etc.), di cui le circostanze presupposte concorrono a formare la base.

La Suprema Corte nel tentativo di costruire un referente codicistico all’istituto della presupposizione, ha fatto ricorso all’art. 1467 del codice civile, che disciplina l’eccessiva onerosità sopravvenuta. Nella sentenza del 3 dicembre 1991, n. 12921 troviamo traccia di questa prospettazione là dove si sottolinea che “l’istituto in argomento rinviene la sua base normativa nell’art. 1467 del codice civile, che in definitiva lo ricollega alla clausola rebus sic stantibus” (Cass. 28 agosto 1993, n. 9125; Cass. 3 dicembre 1991, n. 12921; Cass. 31 ottobre 1989, n. 4554: Cass. 2 gennaio 1986, n. 20; Cass. 11 novembre 1986, n. 6584; Cass. 9 maggio 1981, n. 3074; Cass. 17 maggio 1976, n. 1738; Cass. 6 luglio 1971, n. 2104).

Questo orientamento si muove dalla constatazione che il momento decisivo, nella scelta dell’ordinamento di accordare il rimedio della risoluzione, risiede nell’alterazione dell’economia del contratto, per concludersene che il rimedio medesimo deve trovare applicazione non solo nell’ipotesi espressamente contemplata nella disposizione del riferito art. 1467 del codice civile, ma anche nelle altre ipotesi nelle quali pure si verifichi l’alterazione dell’originario equilibrio contrattuale.

In altre parole la presupposizione assolverebbe il compito di conservare l’equilibrio del sinallagma contrattuale ed essa è quindi applicata dalla giurisprudenza per attuare la distribuzione dei rischi contrattuali nei casi in cui siano intervenuti eventi imprevedibili che abbiano alterato il rapporto tra le reciproche prestazioni così come stabilito dalle parti.

Pertanto la presupposizione non può operare quando, con apposita clausola, i contraenti abbiano già previsto gli strumenti di riequilibrio delle prestazioni per il caso del venir meno dell’evento che avevano presupposto. Ma qualora nulla sia previsto, sorge il problema di stabilire la gestione del rischio contrattuale “l’incertezza riguarda tutti gli affari, anche quelli a formazione istantanea; può essere costituita da timori e previsioni del tutto personali, oppure dalla sopravvenienza di accadimenti oggettivi futuri, oppure dalla presenza di circostanze ignote alle parti e preesistenti all’affare, o manifestatesi successivamente, o prese da esse in considerazione successivamente” (ALPA, voce Rischio, in Enc. del dir., XL, MILANO, 1989, p. 1146).

A differenza della disciplina sull’onerosità sopravvenuta, quella sulla sopraggiunta impossibilità, ex art. 1453 del codice civile, non contiene in sé già tutti gli elementi per risolvere il problema della presupposizione, ma necessita anche dell’intervento di precetti che le sono estranei e in altri termini tale disciplina legale non appare autosufficiente. Il congegno della risoluzione per impossibilità sopravvenuta è strutturato in maniera tale che operi soltanto a condizione che l’impossibilità stessa non sia imputabile al debitore dal combinato disposto degli artt. 1256 e 1463 del codice civile.

Invero l’imputabilità viene valutata con una certa severità, in quanto, nella più moderna impostazione, vi si comprendono, come si è visto, tutti gli eventi che rientrano nella sfera di controllo del debitore o, in ogni caso qualsiasi evento che il debitore stesso possa anche solo prevedere.

Ora, se può ammettersi che la colpevolezza della sopravvenuta impossibilità sia ricostruita con tale rigore rispetto a situazioni in ordine alle quali grava sul debitore uno specifico impegno, non allo stesso modo essa può configurarsi in relazione a fattori la cui sussistenza non sia doverosa o, a maggior ragione, sia lasciata alla cieca eventualità del caso.

Al debitore potrebbe derivare una responsabilità in proposito soltanto in base ai principi della correttezza e della buona fede, quando, nel caso concreto, valgano ad imporgli altresì l’obbligo di informare preventivamente della sua previsione il creditore, ovvero di attivarsi per impedire il verificarsi dell’evento da quest’ultimo preconizzato. Analogamente, sarà pur sempre alla stregua della buona fede che il debitore dovrà ritenersi responsabile, e tenuto corrispondentemente al risarcimento dei danni, quando addirittura abbia fattivamente operato affinché i fattori presupposti venissero meno.

Ebbene, se ciò è vero, poiché con riguardo all’avveramento della base economica del contratto la dicotomia imputabilità/non imputabilità non si configura nei medesimi termini sottesi alla previsione degli artt. 1256 e 1463 del codice civile, l’istituto della impossibilità sopravvenuta, se riferito anche alla presupposizione, vedrebbe in qualche modo anche alterata la sua stessa identità.

Alcune delle considerazioni svolte in precedenza, in ordine alla difficoltà di ricondurre la presupposizione alla sopravvenuta impossibilità, inducono anche ad escludere che la questione possa essere risolta in termini di impossibilità originaria della prestazione, che determina la nullità del contratto, ex art. 1346 del codice civile, quando si tratti di circostanze che erroneamente siano poste a base del contratto e, invece, sin dalla sua stipulazione siano inesistenti.

Nella succitata sentenza del 25 maggio 2007, n. 12235, la Cassazione, disattendendo la tradizionale configurazione in termini di cosiddetta condizione non sviluppata o inespressa nonché la più recentemente prospettata riconducibilità alla stessa causa concreta del contratto (v. Cass. 24 marzo 2006, n. 6631), ha delineato per la prima volta la figura della presupposizione nei suesposti termini, quale specifico presupposto oggettivo da tenersi distinto dai presupposti causali e dai risultati dovuti, la cui mancanza, quindi, legittima l’esercizio del diritto di recesso. Escludendo la configurabilità della eccessiva onerosità sopravvenuta della prestazione quale conseguenza del venir meno della presupposizione, la Suprema Corte, nel caso in esame, ha ritenuto che non ricorresse nemmeno un’ipotesi di eccessiva onerosità sopravvenuta della prestazione legittimante la risoluzione del contratto ai sensi dell’art. 1467 del codice civile, stante il difetto dei necessari requisiti della straordinarietà e dell’imprevedibilità dell’evento ravvisato e congruamente motivato dal giudice del merito, insindacabile pertanto in sede di legittimità.

La dottrina nega ormai che a condizionare tacitamente il contratto ad una circostanza esterna valga la semplice enunciazione del carattere determinante che questa riveste per un contraente, ovvero la conoscenza di tale carattere comunque acquisita dalla controparte; come anche che tale circostanza valga, in via di principio, a determinarne l’annullabilità per errore ovvero la risolubilità per eccessiva onerosità, o che possa incidere sulla permanenza del vincolo contrattuale in virtù dei principi della correttezza e della buona fede.

Invero, ancorché un contraente sia partecipe delle ragioni dell’altro, la circostanza esterna su cui queste si fondano, per la differente relazione che vi intercorre con le istanze interiori di ciascuno di essi, deve continuare a reputarsi come dotata di valenza assiologica differenziata per l’uno e per l’altro e, in definitiva, ancora fattore soggettivo proprio di questo e di quel contraente mai comune ad entrambi (CACCAVALE, Giustizia del contratto e presupposizione, TORINO, 2005, p. 37).

La circostanza esterna assume invece valenza giuridica quando, pur indipendentemente allora da ogni enunciazione contrattuale, si riveli essere stata il fattore in considerazione del quale si sia determinato il contenuto dell’accordo e quello sul quale si sorregge pertanto l’equilibrio economico dell’intero affare.

In tale sua veste essa diviene la base del contratto e, inerendo direttamente al pattuito programma negoziale, può finalmente reputarsi comune nell’accezione più congrua del termine e, in tal guisa, obiettiva, in relazione allo specifico contratto, e non più riferibile alle prospettazioni meramente personali dei contraenti.

Se tale circostanza o già non sussista al momento della conclusione dell’accordo o, pur presente in quel momento, in seguito venga a mancare ovvero ancora non venga ad esistenza, il contratto, privo del fondamento su cui si regge, dovrà allora caducarsi in quanto destituito di ogni ragionevolezza.

È su queste basi che nasce l’istituto della presupposizione o condizione non sviluppata o inespressa, ormai generalmente ammesso dalla giurisprudenza; la Suprema Corte ha affermato che si ha presupposizione quando una determinata situazione di fatto desumibile dal contesto del negozio risulti comune ad entrambi i contraenti, e il suo verificarsi sia indipendente dalla loro volontà; tale situazione deve avere carattere obiettivo e formare il presupposto del negozio.

Pertanto la presupposizione:

- deve essere comune a tutti i contraenti;

- l’evento supposto deve essere assunto come certo nella rappresentazione delle parti ed in questo la presupposizione differisce dalla condizione che costituisce un evento futuro ed incerto;

- deve trattarsi di un presupposto obiettivo, consistente cioè in una situazione di fatto il cui venir meno o il cui verificarsi sia del tutto indipendente dall’attività e volontà dei contraenti e non corrisponda, integrandolo, all’oggetto di una specifica obbligazione (Cass. 31 ottobre 1989, n. 4554; Cass. 21 novembre 2001, n. 14629).

La teoria della presupposizione fu elaborata per la prima volta dalla dottrina giuridica tedesca nella seconda metà del secolo scorso, quando per la prima volta Windsheid ebbe l’idea di attribuire rilevanza a motivi non espressi in una clausola: di essa si apprezzò la portata fortemente equitativa, perché mirava a stemperare il principio, oltremodo rigoroso, della vincolatività assoluta dell’accordo.

Tuttavia fu resa oggetto di forti critiche, tra le quali si può ricordare quella rivoltagli da Lenel. Si sottolineò che, nel rapporto contrattuale, non poteva esservi spazio per i fini contigenti delle parti, a meno che, naturalmente non fossero stati espressi in una clausola e che la teoria della presupposizione non tutelava adeguatamente l’affidamento che le parti riponevano nella stabilità del vincolo contrattuale.

In Italia, la recente pronuncia della Cassazione del 25 maggio 2007, n. 12235, ha affermato che “la presupposizione, non attinendo né all’oggetto né alla causa né ai motivi del contratto, consiste in una circostanza ad esso esterna, che pur se non specificamente dedotta come condizione ne costituisce specifico ed oggettivo presupposto di efficacia in base al significato proprio del medesimo, assumendo per entrambe le parti, o anche per una sola di esse, ma con riconoscimento da parte dell’altra, valore determinante ai fini del mantenimento del vicolo contrattuale”; quindi la Suprema Corte stabilisce che la figura della presupposizione, nei termini suesposti, è da considerasi quale specifico presupposto oggettivo da tenersi distinto sia dai cosiddetti presupposti causali che dai cosiddetti risultati dovuti, la cui mancanza legittima l’esercizio del recesso.

Pertanto estranei alla presupposizione vanno ritenuti i motivi, infatti sin dalle prime decisioni la Corte di Cassazione ha messo in luce tale differenziazione per non contraddire il principio dell’irrilevanza dei motivi.

Essa ha sostenuto, già in tempi lontani, che la ricerca del motivo non è ammissibile, quando esso sia rimasto nella sfera interna dell’autore della dichiarazione della volontà senza tradursi in un apparente e concreto contenuto volitivo, noto, come tale, alla parte cui la dichiarazione era diretta (Cass. 15 febbraio 1932, n. 531, in Rep. Foro It., 1932).

La Corte ha inoltre precisato che il motivo soggettivo ove non sia desumibile dalla dichiarazione negoziale non possa considerarsi parte del contenuto del negozio e quindi deve essere ritenuto giuridicamente irrilevante (Cass. 20 giugno 1958, n. 2148, in Giur. it., 1959, I, p. 330).

In realtà l’accoglimento della teoria della presupposizione incrina il principio della irrilevanza dei motivi. Tuttavia, al fine di non cadere in un pericoloso soggettivismo, la giurisprudenza ha obiettato la nozione di motivo, considerandolo come una circostanza esterna al negozio. Si è così sottolineato che “il presunto dogma della irrilevanza dei motivi discenda dalla costruzione del fenomeno del negozio giuridico quale espressione della volontà del soggetto che lo pone in essere. Inoltre, l’inesistenza con cui la dottrina ha affermato l’egemonia della volontà nella costruzione del negozio giuridico ha portato a considerare che il motivo, per poter acquistare rilevanza contrattuale, deve essere stato propriamente inserito nella convenzione contrattuale, in quanto solo in tal modo esso può entrare a far parte della struttura del negozio in funzione di specifica, anche se non necessariamente esplicita, condizione del rapporto”( Cass. 2 agosto 1977, n. 3384, in Riv. dir. comm., 1979, II, p. 92).

Una parte della dottrina ha sostenuto che una riprova della rilevanza della presupposizione è rinvenuta nell’art. 1345 del codice civile, secondo il quale “il contratto è illecito quando le parti si sono determinate a concluderlo esclusivamente per un motivo illecito comune ad entrambe”. Si è talvolta propensi a ritenere, dunque, che tale disposizione presupponga necessariamente la rilevanza del motivo comune, inteso come afferente ad una circostanza posta a fondamento dell’affare, lecito o illecito che esso sia, in quanto non avrebbe alcun senso far dipendere l’illiceità del contratto dal carattere illecito di un elemento di per sé giuridicamente irrilevante (FERRI, Causa e tipo nella teoria del negozio giuridico, MILANO, 1966, p. 382; PIETROBON, Errore, volontà e affidamento nel negozio giuridico, PADOVA, 1990, p. 514; SCOGNAMIGLIO, Interpretazione del contratto e interessi dei contraenti, in Saggi e documenti di diritto civile, PADOVA, 1992, p. 205).

Il tema della presupposizione impone qualche riferimento, anche, al concetto della causa del negozio giuridico, e ciò essenzialmente perché spesso la dottrina e la giurisprudenza, dalla nozione di causa cui si attingono, mostrano di trarre dirette implicazioni in tema di rilevanza della presupposizione e, in generale, in tema di rilevanza degli scopi particolari delle parti non tradotti in clausole contrattuali.

La causa costituisce la funzione economico-sociale del contratto meritevole di tutela da parte dell’ordinamento e la sua estraneità ad ogni problema connesso con la presupposizione appare del tutto evidente.

La teoria della causa quale funzione economico-sociale esprime la preoccupazione di assicurare al massimo grado il controllo sociale sull’autonomia privata, e a tale risultato essa perviene sancendo, in primo luogo, la non vincolatività dei contratti non appartenenti a tipi socialmente riconosciuti, ovvero che non perseguano interessi socialmente apprezzabili.

La teoria in esame esaurisce qui il suo compito: infatti, è ad essa estranea, sia il problema delle modalità per il tramite delle quali i motivi delle parti possano penetrare nel contenuto del contratto, sia quello dell’individuazione dei congegni tecnico-giuridici attraverso cui il regolamento contrattuale possa essere integrato in vista dei motivi dei contraenti non contemplati in clausole precettive.

Innanzitutto, la nozione di causa quale funzione economico-sociale non impedisce affatto che una clausola, diretta a dare voce alle atipiche finalità dei contraenti , venga inserita nel contratto in forma tacita (CACCAVALE, op. cit., TORINO, 2005, p. 145).

In mancanza di clausola, ancorché tacita, può ipotizzarsi che i motivi individuali assumano rilevanza giuridica in fase di integrazione del contratto.

Alla presupposizione non possono essere propriamente ricondotti nemmeno i cosiddetti risultati dovuti, ed in particolare la qualità del bene, giacché in tal caso gli stessi vengono a rientrare nel contenuto del contratto, il relativo difetto conseguentemente ridondando sul diverso piano dell’inadempimento. La circostanza che il bene sia idoneo all’uso previsto dall’acquirente costituisce invero una qualità giuridica dell’oggetto, la cui mancanza se del caso rileva sul piano dell’inesattezza della prestazione, e pertanto in termini di inadempimento. Anzi, in ordine alla presupposizione come sopra specificata, non si deve poter parlare in termini di adempimento o inadempimento, perché, per definizione, si tratta di una cirocstanza obiettiva, il cui venir meno o il cui verificarsi non deve in nessun modo dipendere dall’attività o dalla volontà dei contraenti e non deve costituire oggetto di una qualche loro obbligazione. La caratteristica della presupposizione è rappresentata appunto dal fatto che il contratto viene concluso sulla base di un determinato presupposto oggettivo: con il venir meno di questo, viene oggettivamente meno anche il vincolo contrattuale, la cui persistenza era subordinata al permanere della situazione, passata o presente, assunta come presupposto oggettivo del contratto, o al verificarsi di quella, considerata allo stesso titolo, contemplata come futura ma certa.

Del pari distinta va tenuta l’ipotesi in cui i fatti e le circostanze presi in considerazione dalle parti vengano specificamente dedotti in contratto come condizione di efficacia, visto che la presupposizione costituisce fenomeno oggettivamente diverso, trattandosi di ipotesi in cui i fatti e le circostanze giustappunto non vengono dalle parti specificamente dedotti in una clausola condizionale.

Bisogna ricordare che parte della dottrina ritiene che la presupposizione acquista rilevanza in sede di interpretazione oggettiva del contratto. Essa è ritenuta lo strumento per mezzo del quale è possibile riequilibrare il rapporto tra le prestazioni quando la prestazione di una delle parti sia divenuta non più “coercibile” in base al generale principio di buona fede.

In verità la dottrina non pretende di potersi rivolgere alla effettiva volontà dei contraenti, ma assume di poter individuare una corrispondente volontà alla stregua dei cosiddetti criteri della interpretazione oggettiva, i quali non solo postulano il ricorso a parametri di normale valutazione del significato dell’atto, ma intervengono, in quanto previsti dall’ordinamento, al fine di poter attribuire all’atto significati ulteriori rispetto a quelli con i quali le parti stesse lo abbiano inteso secondo quanto si possa oggettivamente apprendere (CARRESI, Interpretazione del contratto, in Comm. Cod. civ., a cura di GALGANO, Libro IV: Obbligazioni: artt. 1362-1371, BOLOGNA-ROMA, 1992, p. 73).

Il momento decisivo della operazione ermeneutica risiede dunque nella previsione dell’art. 1366 del codice civile, a tenore del quale “il contratto deve essere interpretato secondo buona fede” (BIGLIAZZI GERI, L’interpretazione del contratto: artt. 1362-1371, in Comm. Cod. civ., diretto da SCHLESINGER, MILANO, 1991, p. 269; PONTANI, La presupposizione nella sua evoluzione, con particolare riferimento all’errore e alla causa, in Quadrimestre, 1991, p. 856; COSTANZA, La presupposizione nella giurisprudenza, in Quadrimestre, 1984, p. 606).

Il contratto in questa prospettiva è considerato come l’atto che traduce in formula giuridica l’intero piano economico delle parti (ripartizione di vantaggi, rischi, etc.), di cui le circostanze presupposte concorrono a formare la base.

La Suprema Corte nel tentativo di costruire un referente codicistico all’istituto della presupposizione, ha fatto ricorso all’art. 1467 del codice civile, che disciplina l’eccessiva onerosità sopravvenuta. Nella sentenza del 3 dicembre 1991, n. 12921 troviamo traccia di questa prospettazione là dove si sottolinea che “l’istituto in argomento rinviene la sua base normativa nell’art. 1467 del codice civile, che in definitiva lo ricollega alla clausola rebus sic stantibus” (Cass. 28 agosto 1993, n. 9125; Cass. 3 dicembre 1991, n. 12921; Cass. 31 ottobre 1989, n. 4554: Cass. 2 gennaio 1986, n. 20; Cass. 11 novembre 1986, n. 6584; Cass. 9 maggio 1981, n. 3074; Cass. 17 maggio 1976, n. 1738; Cass. 6 luglio 1971, n. 2104).

Questo orientamento si muove dalla constatazione che il momento decisivo, nella scelta dell’ordinamento di accordare il rimedio della risoluzione, risiede nell’alterazione dell’economia del contratto, per concludersene che il rimedio medesimo deve trovare applicazione non solo nell’ipotesi espressamente contemplata nella disposizione del riferito art. 1467 del codice civile, ma anche nelle altre ipotesi nelle quali pure si verifichi l’alterazione dell’originario equilibrio contrattuale.

In altre parole la presupposizione assolverebbe il compito di conservare l’equilibrio del sinallagma contrattuale ed essa è quindi applicata dalla giurisprudenza per attuare la distribuzione dei rischi contrattuali nei casi in cui siano intervenuti eventi imprevedibili che abbiano alterato il rapporto tra le reciproche prestazioni così come stabilito dalle parti.

Pertanto la presupposizione non può operare quando, con apposita clausola, i contraenti abbiano già previsto gli strumenti di riequilibrio delle prestazioni per il caso del venir meno dell’evento che avevano presupposto. Ma qualora nulla sia previsto, sorge il problema di stabilire la gestione del rischio contrattuale “l’incertezza riguarda tutti gli affari, anche quelli a formazione istantanea; può essere costituita da timori e previsioni del tutto personali, oppure dalla sopravvenienza di accadimenti oggettivi futuri, oppure dalla presenza di circostanze ignote alle parti e preesistenti all’affare, o manifestatesi successivamente, o prese da esse in considerazione successivamente” (ALPA, voce Rischio, in Enc. del dir., XL, MILANO, 1989, p. 1146). >La dottrina nega ormai che a condizionare tacitamente il contratto ad una circostanza esterna valga la semplice enunciazione del carattere determinante che questa riveste per un contraente, ovvero la conoscenza di tale carattere comunque acquisita dalla controparte; come anche che tale circostanza valga, in via di principio, a determinarne l’annullabilità per errore ovvero la risolubilità per eccessiva onerosità, o che possa incidere sulla permanenza del vincolo contrattuale in virtù dei principi della correttezza e della buona fede.

Invero, ancorché un contraente sia partecipe delle ragioni dell’altro, la circostanza esterna su cui queste si fondano, per la differente relazione che vi intercorre con le istanze interiori di ciascuno di essi, deve continuare a reputarsi come dotata di valenza assiologica differenziata per l’uno e per l’altro e, in definitiva, ancora fattore soggettivo proprio di questo e di quel contraente mai comune ad entrambi (CACCAVALE, Giustizia del contratto e presupposizione, TORINO, 2005, p. 37).

La circostanza esterna assume invece valenza giuridica quando, pur indipendentemente allora da ogni enunciazione contrattuale, si riveli essere stata il fattore in considerazione del quale si sia determinato il contenuto dell’accordo e quello sul quale si sorregge pertanto l’equilibrio economico dell’intero affare.

In tale sua veste essa diviene la base del contratto e, inerendo direttamente al pattuito programma negoziale, può finalmente reputarsi comune nell’accezione più congrua del termine e, in tal guisa, obiettiva, in relazione allo specifico contratto, e non più riferibile alle prospettazioni meramente personali dei contraenti.

Se tale circostanza o già non sussista al momento della conclusione dell’accordo o, pur presente in quel momento, in seguito venga a mancare ovvero ancora non venga ad esistenza, il contratto, privo del fondamento su cui si regge, dovrà allora caducarsi in quanto destituito di ogni ragionevolezza.

È su queste basi che nasce l’istituto della presupposizione o condizione non sviluppata o inespressa, ormai generalmente ammesso dalla giurisprudenza; la Suprema Corte ha affermato che si ha presupposizione quando una determinata situazione di fatto desumibile dal contesto del negozio risulti comune ad entrambi i contraenti, e il suo verificarsi sia indipendente dalla loro volontà; tale situazione deve avere carattere obiettivo e formare il presupposto del negozio.

Pertanto la presupposizione:

- deve essere comune a tutti i contraenti;

- l’evento supposto deve essere assunto come certo nella rappresentazione delle parti ed in questo la presupposizione differisce dalla condizione che costituisce un evento futuro ed incerto;

- deve trattarsi di un presupposto obiettivo, consistente cioè in una situazione di fatto il cui venir meno o il cui verificarsi sia del tutto indipendente dall’attività e volontà dei contraenti e non corrisponda, integrandolo, all’oggetto di una specifica obbligazione (Cass. 31 ottobre 1989, n. 4554; Cass. 21 novembre 2001, n. 14629).

La teoria della presupposizione fu elaborata per la prima volta dalla dottrina giuridica tedesca nella seconda metà del secolo scorso, quando per la prima volta Windsheid ebbe l’idea di attribuire rilevanza a motivi non espressi in una clausola: di essa si apprezzò la portata fortemente equitativa, perché mirava a stemperare il principio, oltremodo rigoroso, della vincolatività assoluta dell’accordo.

Tuttavia fu resa oggetto di forti critiche, tra le quali si può ricordare quella rivoltagli da Lenel. Si sottolineò che, nel rapporto contrattuale, non poteva esservi spazio per i fini contigenti delle parti, a meno che, naturalmente non fossero stati espressi in una clausola e che la teoria della presupposizione non tutelava adeguatamente l’affidamento che le parti riponevano nella stabilità del vincolo contrattuale.

In Italia, la recente pronuncia della Cassazione del 25 maggio 2007, n. 12235, ha affermato che “la presupposizione, non attinendo né all’oggetto né alla causa né ai motivi del contratto, consiste in una circostanza ad esso esterna, che pur se non specificamente dedotta come condizione ne costituisce specifico ed oggettivo presupposto di efficacia in base al significato proprio del medesimo, assumendo per entrambe le parti, o anche per una sola di esse, ma con riconoscimento da parte dell’altra, valore determinante ai fini del mantenimento del vicolo contrattuale”; quindi la Suprema Corte stabilisce che la figura della presupposizione, nei termini suesposti, è da considerasi quale specifico presupposto oggettivo da tenersi distinto sia dai cosiddetti presupposti causali che dai cosiddetti risultati dovuti, la cui mancanza legittima l’esercizio del recesso.

Pertanto estranei alla presupposizione vanno ritenuti i motivi, infatti sin dalle prime decisioni la Corte di Cassazione ha messo in luce tale differenziazione per non contraddire il principio dell’irrilevanza dei motivi.

Essa ha sostenuto, già in tempi lontani, che la ricerca del motivo non è ammissibile, quando esso sia rimasto nella sfera interna dell’autore della dichiarazione della volontà senza tradursi in un apparente e concreto contenuto volitivo, noto, come tale, alla parte cui la dichiarazione era diretta (Cass. 15 febbraio 1932, n. 531, in Rep. Foro It., 1932).

La Corte ha inoltre precisato che il motivo soggettivo ove non sia desumibile dalla dichiarazione negoziale non possa considerarsi parte del contenuto del negozio e quindi deve essere ritenuto giuridicamente irrilevante (Cass. 20 giugno 1958, n. 2148, in Giur. it., 1959, I, p. 330).

In realtà l’accoglimento della teoria della presupposizione incrina il principio della irrilevanza dei motivi. Tuttavia, al fine di non cadere in un pericoloso soggettivismo, la giurisprudenza ha obiettato la nozione di motivo, considerandolo come una circostanza esterna al negozio. Si è così sottolineato che “il presunto dogma della irrilevanza dei motivi discenda dalla costruzione del fenomeno del negozio giuridico quale espressione della volontà del soggetto che lo pone in essere. Inoltre, l’inesistenza con cui la dottrina ha affermato l’egemonia della volontà nella costruzione del negozio giuridico ha portato a considerare che il motivo, per poter acquistare rilevanza contrattuale, deve essere stato propriamente inserito nella convenzione contrattuale, in quanto solo in tal modo esso può entrare a far parte della struttura del negozio in funzione di specifica, anche se non necessariamente esplicita, condizione del rapporto”( Cass. 2 agosto 1977, n. 3384, in Riv. dir. comm., 1979, II, p. 92).

Una parte della dottrina ha sostenuto che una riprova della rilevanza della presupposizione è rinvenuta nell’art. 1345 del codice civile, secondo il quale “il contratto è illecito quando le parti si sono determinate a concluderlo esclusivamente per un motivo illecito comune ad entrambe”. Si è talvolta propensi a ritenere, dunque, che tale disposizione presupponga necessariamente la rilevanza del motivo comune, inteso come afferente ad una circostanza posta a fondamento dell’affare, lecito o illecito che esso sia, in quanto non avrebbe alcun senso far dipendere l’illiceità del contratto dal carattere illecito di un elemento di per sé giuridicamente irrilevante (FERRI, Causa e tipo nella teoria del negozio giuridico, MILANO, 1966, p. 382; PIETROBON, Errore, volontà e affidamento nel negozio giuridico, PADOVA, 1990, p. 514; SCOGNAMIGLIO, Interpretazione del contratto e interessi dei contraenti, in Saggi e documenti di diritto civile, PADOVA, 1992, p. 205).

Il tema della presupposizione impone qualche riferimento, anche, al concetto della causa del negozio giuridico, e ciò essenzialmente perché spesso la dottrina e la giurisprudenza, dalla nozione di causa cui si attingono, mostrano di trarre dirette implicazioni in tema di rilevanza della presupposizione e, in generale, in tema di rilevanza degli scopi particolari delle parti non tradotti in clausole contrattuali.

La causa costituisce la funzione economico-sociale del contratto meritevole di tutela da parte dell’ordinamento e la sua estraneità ad ogni problema connesso con la presupposizione appare del tutto evidente.

La teoria della causa quale funzione economico-sociale esprime la preoccupazione di assicurare al massimo grado il controllo sociale sull’autonomia privata, e a tale risultato essa perviene sancendo, in primo luogo, la non vincolatività dei contratti non appartenenti a tipi socialmente riconosciuti, ovvero che non perseguano interessi socialmente apprezzabili.

La teoria in esame esaurisce qui il suo compito: infatti, è ad essa estranea, sia il problema delle modalità per il tramite delle quali i motivi delle parti possano penetrare nel contenuto del contratto, sia quello dell’individuazione dei congegni tecnico-giuridici attraverso cui il regolamento contrattuale possa essere integrato in vista dei motivi dei contraenti non contemplati in clausole precettive.

Innanzitutto, la nozione di causa quale funzione economico-sociale non impedisce affatto che una clausola, diretta a dare voce alle atipiche finalità dei contraenti , venga inserita nel contratto in forma tacita (CACCAVALE, op. cit., TORINO, 2005, p. 145).

In mancanza di clausola, ancorché tacita, può ipotizzarsi che i motivi individuali assumano rilevanza giuridica in fase di integrazione del contratto.

Alla presupposizione non possono essere propriamente ricondotti nemmeno i cosiddetti risultati dovuti, ed in particolare la qualità del bene, giacché in tal caso gli stessi vengono a rientrare nel contenuto del contratto, il relativo difetto conseguentemente ridondando sul diverso piano dell’inadempimento. La circostanza che il bene sia idoneo all’uso previsto dall’acquirente costituisce invero una qualità giuridica dell’oggetto, la cui mancanza se del caso rileva sul piano dell’inesattezza della prestazione, e pertanto in termini di inadempimento. Anzi, in ordine alla presupposizione come sopra specificata, non si deve poter parlare in termini di adempimento o inadempimento, perché, per definizione, si tratta di una cirocstanza obiettiva, il cui venir meno o il cui verificarsi non deve in nessun modo dipendere dall’attività o dalla volontà dei contraenti e non deve costituire oggetto di una qualche loro obbligazione. La caratteristica della presupposizione è rappresentata appunto dal fatto che il contratto viene concluso sulla base di un determinato presupposto oggettivo: con il venir meno di questo, viene oggettivamente meno anche il vincolo contrattuale, la cui persistenza era subordinata al permanere della situazione, passata o presente, assunta come presupposto oggettivo del contratto, o al verificarsi di quella, considerata allo stesso titolo, contemplata come futura ma certa.

Del pari distinta va tenuta l’ipotesi in cui i fatti e le circostanze presi in considerazione dalle parti vengano specificamente dedotti in contratto come condizione di efficacia, visto che la presupposizione costituisce fenomeno oggettivamente diverso, trattandosi di ipotesi in cui i fatti e le circostanze giustappunto non vengono dalle parti specificamente dedotti in una clausola condizionale.

Bisogna ricordare che parte della dottrina ritiene che la presupposizione acquista rilevanza in sede di interpretazione oggettiva del contratto. Essa è ritenuta lo strumento per mezzo del quale è possibile riequilibrare il rapporto tra le prestazioni quando la prestazione di una delle parti sia divenuta non più “coercibile” in base al generale principio di buona fede.

In verità la dottrina non pretende di potersi rivolgere alla effettiva volontà dei contraenti, ma assume di poter individuare una corrispondente volontà alla stregua dei cosiddetti criteri della interpretazione oggettiva, i quali non solo postulano il ricorso a parametri di normale valutazione del significato dell’atto, ma intervengono, in quanto previsti dall’ordinamento, al fine di poter attribuire all’atto significati ulteriori rispetto a quelli con i quali le parti stesse lo abbiano inteso secondo quanto si possa oggettivamente apprendere (CARRESI, Interpretazione del contratto, in Comm. Cod. civ., a cura di GALGANO, Libro IV: Obbligazioni: artt. 1362-1371, BOLOGNA-ROMA, 1992, p. 73).

Il momento decisivo della operazione ermeneutica risiede dunque nella previsione dell’art. 1366 del codice civile, a tenore del quale “il contratto deve essere interpretato secondo buona fede” (BIGLIAZZI GERI, L’interpretazione del contratto: artt. 1362-1371, in Comm. Cod. civ., diretto da SCHLESINGER, MILANO, 1991, p. 269; PONTANI, La presupposizione nella sua evoluzione, con particolare riferimento all’errore e alla causa, in Quadrimestre, 1991, p. 856; COSTANZA, La presupposizione nella giurisprudenza, in Quadrimestre, 1984, p. 606).

Il contratto in questa prospettiva è considerato come l’atto che traduce in formula giuridica l’intero piano economico delle parti (ripartizione di vantaggi, rischi, etc.), di cui le circostanze presupposte concorrono a formare la base.

La Suprema Corte nel tentativo di costruire un referente codicistico all’istituto della presupposizione, ha fatto ricorso all’art. 1467 del codice civile, che disciplina l’eccessiva onerosità sopravvenuta. Nella sentenza del 3 dicembre 1991, n. 12921 troviamo traccia di questa prospettazione là dove si sottolinea che “l’istituto in argomento rinviene la sua base normativa nell’art. 1467 del codice civile, che in definitiva lo ricollega alla clausola rebus sic stantibus” (Cass. 28 agosto 1993, n. 9125; Cass. 3 dicembre 1991, n. 12921; Cass. 31 ottobre 1989, n. 4554: Cass. 2 gennaio 1986, n. 20; Cass. 11 novembre 1986, n. 6584; Cass. 9 maggio 1981, n. 3074; Cass. 17 maggio 1976, n. 1738; Cass. 6 luglio 1971, n. 2104).

Questo orientamento si muove dalla constatazione che il momento decisivo, nella scelta dell’ordinamento di accordare il rimedio della risoluzione, risiede nell’alterazione dell’economia del contratto, per concludersene che il rimedio medesimo deve trovare applicazione non solo nell’ipotesi espressamente contemplata nella disposizione del riferito art. 1467 del codice civile, ma anche nelle altre ipotesi nelle quali pure si verifichi l’alterazione dell’originario equilibrio contrattuale.

In altre parole la presupposizione assolverebbe il compito di conservare l’equilibrio del sinallagma contrattuale ed essa è quindi applicata dalla giurisprudenza per attuare la distribuzione dei rischi contrattuali nei casi in cui siano intervenuti eventi imprevedibili che abbiano alterato il rapporto tra le reciproche prestazioni così come stabilito dalle parti.

Pertanto la presupposizione non può operare quando, con apposita clausola, i contraenti abbiano già previsto gli strumenti di riequilibrio delle prestazioni per il caso del venir meno dell’evento che avevano presupposto. Ma qualora nulla sia previsto, sorge il problema di stabilire la gestione del rischio contrattuale “l’incertezza riguarda tutti gli affari, anche quelli a formazione istantanea; può essere costituita da timori e previsioni del tutto personali, oppure dalla sopravvenienza di accadimenti oggettivi futuri, oppure dalla presenza di circostanze ignote alle parti e preesistenti all’affare, o manifestatesi successivamente, o prese da esse in considerazione successivamente” (ALPA, voce Rischio, in Enc. del dir., XL, MILANO, 1989, p. 1146).

A differenza della disciplina sull’onerosità sopravvenuta, quella sulla sopraggiunta impossibilità, ex art. 1453 del codice civile, non contiene in sé già tutti gli elementi per risolvere il problema della presupposizione, ma necessita anche dell’intervento di precetti che le sono estranei e in altri termini tale disciplina legale non appare autosufficiente. Il congegno della risoluzione per impossibilità sopravvenuta è strutturato in maniera tale che operi soltanto a condizione che l’impossibilità stessa non sia imputabile al debitore dal combinato disposto degli artt. 1256 e 1463 del codice civile.

Invero l’imputabilità viene valutata con una certa severità, in quanto, nella più moderna impostazione, vi si comprendono, come si è visto, tutti gli eventi che rientrano nella sfera di controllo del debitore o, in ogni caso qualsiasi evento che il debitore stesso possa anche solo prevedere.

Ora, se può ammettersi che la colpevolezza della sopravvenuta impossibilità sia ricostruita con tale rigore rispetto a situazioni in ordine alle quali grava sul debitore uno specifico impegno, non allo stesso modo essa può configurarsi in relazione a fattori la cui sussistenza non sia doverosa o, a maggior ragione, sia lasciata alla cieca eventualità del caso.

Al debitore potrebbe derivare una responsabilità in proposito soltanto in base ai principi della correttezza e della buona fede, quando, nel caso concreto, valgano ad imporgli altresì l’obbligo di informare preventivamente della sua previsione il creditore, ovvero di attivarsi per impedire il verificarsi dell’evento da quest’ultimo preconizzato. Analogamente, sarà pur sempre alla stregua della buona fede che il debitore dovrà ritenersi responsabile, e tenuto corrispondentemente al risarcimento dei danni, quando addirittura abbia fattivamente operato affinché i fattori presupposti venissero meno.

Ebbene, se ciò è vero, poiché con riguardo all’avveramento della base economica del contratto la dicotomia imputabilità/non imputabilità non si configura nei medesimi termini sottesi alla previsione degli artt. 1256 e 1463 del codice civile, l’istituto della impossibilità sopravvenuta, se riferito anche alla presupposizione, vedrebbe in qualche modo anche alterata la sua stessa identità.

Alcune delle considerazioni svolte in precedenza, in ordine alla difficoltà di ricondurre la presupposizione alla sopravvenuta impossibilità, inducono anche ad escludere che la questione possa essere risolta in termini di impossibilità originaria della prestazione, che determina la nullità del contratto, ex art. 1346 del codice civile, quando si tratti di circostanze che erroneamente siano poste a base del contratto e, invece, sin dalla sua stipulazione siano inesistenti.

Nella succitata sentenza del 25 maggio 2007, n. 12235, la Cassazione, disattendendo la tradizionale configurazione in termini di cosiddetta condizione non sviluppata o inespressa nonché la più recentemente prospettata riconducibilità alla stessa causa concreta del contratto (v. Cass. 24 marzo 2006, n. 6631), ha delineato per la prima volta la figura della presupposizione nei suesposti termini, quale specifico presupposto oggettivo da tenersi distinto dai presupposti causali e dai risultati dovuti, la cui mancanza, quindi, legittima l’esercizio del diritto di recesso. Escludendo la configurabilità della eccessiva onerosità sopravvenuta della prestazione quale conseguenza del venir meno della presupposizione, la Suprema Corte, nel caso in esame, ha ritenuto che non ricorresse nemmeno un’ipotesi di eccessiva onerosità sopravvenuta della prestazione legittimante la risoluzione del contratto ai sensi dell’art. 1467 del codice civile, stante il difetto dei necessari requisiti della straordinarietà e dell’imprevedibilità dell’evento ravvisato e congruamente motivato dal giudice del merito, insindacabile pertanto in sede di legittimità.