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La responsabilità per insolvenza e cattiva gestione di società a totale controllo pubblico e delle società in house

Paradiso di ghiaccio
Ph. Luca Martini / Paradiso di ghiaccio

Abstract

Il presente articolo si pone l’obiettivo di ricostruire l’annoso dibattito sulla definizione e sulla disciplina delle società pubbliche. In particolare, verrà trattata la tematica del fallimento delle società pubbliche a capitale totalitario e delle c.d. società in house.

 

Indice:

1. Premessa

2. La privatizzazione formale e sostanziale

3. La natura giuridica delle IPAB

4. I privilegi degli enti pubblici

5. La fallibilità delle società pubbliche

6. Le società in house possono fallire?

 

1. Premessa

Negli ultimi decenni si è assistito ad un radicale mutamento del diritto amministrativo italiano a causa degli influssi sempre più penetranti del diritto comunitario e della globalizzazione; in particolare, dagli anni Novanta in poi è crollato il classico paradigma strutturale della pubblica amministrazione che vedeva, come soggetto principale, l’ente pubblico. La privatizzazione, prima formale e poi sostanziale, ha creato una vastità di soggetti di diritto pubblico che hanno destato numerose problematiche in ordine alla loro natura, poteri, controlli e finanziamenti. Fra i soggetti di nuovo conio è emersa, in ragione della sua natura ibrida amministrativa\privata, la società pubblica che rappresenta uno dei modelli societari più diffusi e controversi dell’ordinamento. 

Una delle tematiche più rilevanti sulle quali si è soffermata sia la Corte di Cassazione che il Consiglio di Stato è stata proprio quella concernente la fallibilità della società a totale controllo pubblico, problematica questa che comporterebbe conseguenze sostanziali e procedurali non indifferenti. 

Altrettanto controversa è stata la questione del fallimento della società in house, ovvero quel soggetto totalmente partecipato dallo Stato, che svolge funzioni di interesse pubblico quale longa manus della pubblica amministrazione.

Tali interrogativi necessitano di essere inquadrati in base ai principi fondamentali di diritto civile e amministrativo come la par condicio creditorum, il principio di legalità, frammentarietà e ragionevolezza dell’azione amministrativa. 

 

2. La privatizzazione formale e sostanziale

Sin dalla seconda metà del ventesimo secolo, anche a seguito dei trattati dell’Unione Europea, il diritto amministrativo italiano ha mutato i propri paradigmi classici.

La libera circolazione delle merci, capitali e delle imprese, quale pilastro fondamentale dell’ordinamento europeo, ha costruito le basi per una maggiore omogeneità normativa fra gli Stati appartenenti all’Unione Europea; in particolare, il modello della società per azioni è stato elevato a forma privilegiata anche nello svolgimento di funzioni di interesse pubblicistico.

Tale visione è stata accolta nel sistema italiano ed ha portato alla privatizzazione del settore pubblicistico soprattutto nell’ambito bancario, energetico e dei servizi pubblici; in particolare, il fenomeno in esame a condotto ad una frammentarietà del concetto di pubblica amministrazione anche alla luce dei numerosi interventi legislativi in materia.

Al giorno d’oggi, non esiste nell’ordinamento interno una definizione esaustiva ed unitaria di pubblica amministrazione; ciò ha portato il legislatore ad intervenire in maniera chirurgica con le leggi nr. 70/1975 sul parastato, T.U. nr. 175/2016 sulle società pubbliche.

L’assenza di una definizione unitaria è derivata principalmente da due ordini di ragioni: dalla fase di transizione da una definizione di P.A. soggettiva\formale a oggettiva\sostanziale; da una nozione rigida\tradizionale propria del diritto italiano, ad una flessibile\moderna che ha trovato il pieno accoglimento nel diritto comunitario.

Proprio la nozione di soggetto pubblico flessibile\moderna ha condotto alla teoria “delle geometrie variabili” la quale non da una definizione unitaria, ma distingue la natura privatistica o pubblicistica dell’ente in base ad una serie di parametri indicativi dell’esercizio di pubbliche funzioni.

La teoria in esame è stata accolta di buon grado nel nostro ordinamento anche mediante un coerente parallelismo con il principio del pluralismo della P.A. ex artt. 2, 5, 95, 97, 114, 118 Cost.

Invero, il combinato disposto di tali norme evidenzia, da un lato le sfumature nozionistiche e normative dello Stato amministrazione in base ai principi di sussidiarietà verticale e del decentramento amministrativo; dall’altro il sempre più rilevante ruolo dello Stato sociale basato sul principio di sussidiarietà orizzontale e di leale cooperazione tra amministrazione e privati.

Odiernamente, quindi, esiste unicamente una definizione parziale di ente pubblico che si basa su una legge di equiparazione solo in determinate materie e settori di rilevanza squisitamente collettiva.

L’articolo 4 della legge nr. 70/1975 sul parastato sancisce espressamente che nessun ente pubblico può essere costruito o riconosciuto se non per legge; tale limitazione trova il suo fondamento nel principio di certezza e stretta legalità del diritto amministrativo.

Sicché un ente, per essere definito come pubblico, necessita un riconoscimento o deve essere costituito da una legge dello Stato oppure, come è stato sottolineato dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione nel 2016, può essere desunto da specifici indici sintomatici: la presenza di controlli pubblici; il potere dello Stato di nominare o revocare dirigenti; la partecipazione statale alle spese di gestione; il potere direttivo dello Stato sulle linee strategiche dell’ente.

Preme inoltre sottolineare che nessuno degli anzidetti criteri, da solo, permette l’identificazione di un ente come pubblico ma è necessaria una valutazione casistica, salvo un atto del legislatore che qualifiche espressamente un soggetto come pubblico.

In ogni caso, il potere di qualificazione del legislatore non è illimitato, in quanto non sarebbe ammissibile una attribuzione meramente formale senza una serie di prerogative proprie dell’esercizio del potere pubblico. 

 

3. La natura giuridica delle IPAB

Su tale problematica è intervenuta la Corte Costituzionale nel 1988 in rapporto alla natura pubblica delle I.P.A.B. che venivano qualificate dallo stesso legislatore come tali in quanto esercenti funzioni di interesse diffuso e collettivo. Secondo i giudici della Consulta, tali enti, devono necessariamente essere qualificati come soggetti di diritto privato in quanto, la mera etichetta formale, se non supportata da poteri e prerogative strettamente pubblicistiche, non è in grado di cambiare la loro intrinseca essenza. In breve, secondo la Corte Costituzionale, se si permettesse al legislatore di equiparare enti sostanzialmente privatistici come pubblici si snaturerebbe la natura della P.A. portando, in certi casi, ad abusare della forma pubblicistica con conseguenze rilevanti sul piano delle competenze, procedure, e regole del mercato e della concorrenza.

 

4. I privilegi degli enti pubblici

Affermare la natura pubblica o privata di un ente ha conseguenze di particolare rilevanza su quelli che vengono definiti i c.d. privilegi della P.A. quali: L’autarchia ovvero il potere di regolamentazione interna secondo le regole del diritto amministrativo; l’agire in autotutela, ovvero mediante attività amministrativa autoritativa rispetto agli atti compiuti dall’ente; l’esecutorietà degli atti; le limitazioni al patrimonio dell’ente poiché vi sono i beni demaniali indisponibili che non sono soggetti ad esecuzione forzata; la vincolatività del fine che consiste nella cura dell’interesse pubblico; l’intera applicazione del regio decreto 241/1990 in rapporto agli atti emanati dall’ente; i vincoli di bilancio; la disciplina dei controlli pubblici.

Fra le tante differenze che intercorrono fra gli enti privati e pubblici, tra le più significative vi è l’infallibilità dei soggetti pubblici e, di conseguenza, l’assoggettamento alla procedura di liquidazione giudiziale\fallimento, R.D. 267/1942, delle società privatistiche.

 

5. La fallibilità delle società pubbliche

In particolare, per lungo tempo si è discusso sul fallimento delle società pubbliche totalmente partecipate dallo Stato; sul tema sono intervenute le Sezioni Unite della Corte di Cassazione che hanno portato chiarezza sulla questione in esame affermandone l’assoggettamento alla legge fallimentare.

Prima di entrare nel merito del dibattito giurisprudenziale e dottrinale sono necessarie delle precisazioni di disciplina sul concetto e requisiti delle predette; queste sono regolate dal T.U. 175/2016 il quale ha il preciso scopo di razionalizzare il sistema delle società a partecipazione pubblicistica stabilendone i limiti. 

Le uniche forme societarie ammesse sono le S.p.a., S.r.l., le società consortili e cooperative in quanto presentato un’organizzazione complessa, controllabile e spersonalizzata; in ogni caso tali società, non devono essere quotate in borsa.

Inoltre, le società pubbliche presentano sia una fase di natura amministrativa che una fase di origine privatistica.

La prima fase concerne l’atto amministrativo deliberativo a monte avente ad oggetto la creazione ovvero la partecipazione da parte dello Stato; questo è un atto in senso proprio e sottostà, di conseguenza, alle regole e procedure amministrative. In presenza di vizi del procedimento sarà, quindi, competente il giudice amministrativo.

La seconda fase ha come oggetto l’atto costitutivo della società, ovvero quell’atto di autonomia privata avente ad oggetto la stipulazione dell’atto societario funzionale al riconoscimento della società stessa e del suo ingresso nel mercato. Tale contratto e i sui vizi saranno sindacabili dinnanzi al giudice ordinario competente.

Tale natura mista pubblica\privata, derivante dalla scansione delle suddette fasi, ha portato la giurisprudenza ad elaborare due tesi contrapposte in ordine all’assoggettamento della procedura fallimentare.

Secondo una certa giurisprudenza, le società pubbliche totalmente partecipate sarebbero escluse dal fallimento dato il penetrante controllo della compagine societaria. Invero, il potere dominante permetterebbe di gestire le scelte strategiche della società in maniera pressoché assoluta, tale da renderla un ente pubblico a tutti gli effetti.

Ulteriormente, è stato sottolineato che l’esercizio di funzioni pubbliche, a maggior ragione se essenziali, giustificherebbe la loro non fallibilità anche alla luce di una definizione elastica di ente pubblico.

In senso critico la giurisprudenza maggioritaria e la miglior dottrina si sono basate sulla teoria della neutralità della forma societaria facendo leva, quindi, sulla sostanza delle funzioni e dei poteri svolti all’interno dell’organigramma aziendale. Secondo tale teoria, l’esercizio all’interno della società di poteri pubblici che influenzino in maniera rilevante le scelte societarie ne escluderebbero il fallimento. In tutti gli altri casi, come in rapporto al mero esercizio di pubbliche funzioni comporterebbe l’assoggettamento al regime dettato dalla legge 267/1942.

Ad onor del vero, a nulla rileverebbe il c.d. controllo dominante in quanto esplicazione dei poteri propri già riconosciuti secondo le regole classiche del diritto societario agli amministratori e all’organo di controllo.

In breve, la tesi in questione tende a rilevare che dalla scelta del modello societario derivano una serie di conseguenze giuridiche e di interessi che non possono essere pregiudicati dalla mera constatazione della partecipazione pubblica anche se totalitaria. Se così non fosse, ben vi potrebbero essere situazioni di abuso della forma pubblicistica al fine di eludere le regole del mercato tra cui la par condicio creditorum ex articolo 2741 Codice Civile.

L’impostazione in esame, inoltre, fa leva anche sull’interpretazione letterale dell’articolo 1 della legge fallimentare che stabilisce espressamente l’esclusione dal fallimento solo degli enti pubblici nulla dicendo in merito alle società pubblicistiche. 

Quest’ultima impostazione è stata abbracciata dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione del 2012 e successivamente ripresa da un recente intervento della Corte di Cassazione nel 2019; in quest’ultima pronuncia, inoltre, è stato precisato che il rapporto tra ente privato societario e l’ente locale non è di immedesimazione organica. I soggetti in questione sono scissi formalmente e sostanzialmente in quanto la società, salvo leggi di equiparazione in determinati settori, opera mediante le regole del diritto privato e, per tal ragione, può fallire.

 

6. Le società in house possono fallire?

Di recente, si è sviluppato un ulteriore dibattito concernente il fallimento delle società in house quale soggetto giuridico avente una disciplina e delle peculiarità radicalmente differenti dalle società totalmente partecipate dalla P.A.

L’in house rappresentano una particolare modalità di esplicazione delle funzioni pubbliche che, al giorno d’oggi, hanno riscontrato un grande successo ed utilizzo; tale fenomeno è stato pacificamente accolto a livello comunitario quale regola per l’affidamento di specifiche funzioni pubbliche. 

In Italia, questa realtà è stata disciplinata nel codice dei contratti pubblici D.L. nr. 50/2016 che, al proprio articolo 5, ne ha tipizzato i requisiti fondamentali che devono sussistere congiuntamente per la configurazione di una società in house: l’esercizio del c.d. controllo analogo, ovvero quel controllo penetrante sulle line strategiche della società, da parte dell’amministrazione aggiudicatrice; la detenzione, da parte dell’ente pubblico, dell’almeno l’80 % del capitale sociale; l’assenza in capo alle partecipazioni private, se presenti, di eventuali di poteri di veto e di partecipazioni dominanti.

In sostanza, la società in house funge da longa manus della pubblica amministrazione in base ad un rapporto di stretta strumentalità con l’ente pubblico di riferimento. Tale interdipendenza è assimilabile al concetto al rapporto interorganico che lega l’ente pubblicistico con i suoi uffici ed organi.

Sicché, appare evidente che il Comune, la Provincia o altro ente che ha costituito la società in house potrà decidere, nei minimi dettagli, le scelte strategiche, operative ed aziendali che rappresentano l’essenza della stessa società.

Alla luce di tali constatazioni, si è posto il problema dell’assoggettabilità dell’in house al regime sancito dalla legge fallimentare; in particolare, sul punto, si sono contrapposti due orientamenti.

Secondo una prima tesi giurisprudenziale, la società in house esorbita dal perimetro applicativo del regio decreto nr. 267 del 1942 in base ad un’interpretazione teleologica\sostanziale; secondo l’orientamento in questione, la società in house sarebbe parificata, a tutti gli effetti di legge, ad un ente pubblico proprio in ragione del rapporto di interorganicità fra l’ente pubblico e la società stessa e del fine collettivo che persegue.

L’esercizio dell’influenza dominante, infatti, permea lo statuto societario e lascia, al socio pubblico, poteri talmente vasti e decisivi da rendere la società stessa a mero organo dell’amministrazione.

Inoltre, tale influenza dominante rappresenta lo specchio del rapporto di stretta strumentalità dove la società in house è un soggetto totalmente servente alle scelte pubblicistiche.

Sempre secondo tale teoria, a nulla rileverebbe la mera forma societaria in quanto veste “neutra”, poiché l’unico requisito dirimente è l’esercizio sostanziale del potere in mano alla P.A.

Di diverso avviso è la giurisprudenza, ad oggi maggioritaria, che fa leva sul profilo formale del paradigma societario; secondo l’impostazione in questione l’in house, in quanto società, è soggetta alla disciplina fallimentare proprio perché agisce a tutti gli effetti secondo le regole del diritto privato.

Tale tesi è stata sposata da una recente pronuncia della Corte di Cassazione a Sezioni Unite la quale ha sottolineato come a nulla rileva l’esercizio del controllo analogo da parte dell’ente pubblico poiché, tale prerogativa, non conferisce poteri autoritativi alla società in house; di fatti, il controllo analogo si sostanzia in un potere societario assoluto e dominante da parte dei soci ma che non è munito di poteri pubblici in senso proprio. 

Inoltre, non è decisivo nemmeno lo stretto rapporto di strumentalità che intercorre tra ente pubblico e la società stessa, in quanto, è un effetto che deriva proprio dal concetto di “controllo analogo”; di fatti, nell’in house non si riscontrano poteri propri degli organi ed uffici pubblici quali l’autodichia, l’autarchia o l’autotutela amministrativa.

Da ciò ne deriva che, sia nella sostanza che nella forma, l’in house è un soggetto di diritto privato a tutti gli effetti salvo una eventuale legge di equiparazione che, in determinati settori, le conferisca pubblici poteri.

In sintesi, i giudici della Corte di Cassazione aderiscono ad una impostazione squisitamente formale che si posa su una lettura restrittiva del concetto di “ente pubblico” escludendo, in tal modo, dall’applicazione dell’articolo 1 della legge fallimentare solo gli enti pubblici e non anche l’in house. 

Quest’ultima si pone rispetto alla P.A. in un rapporto di alterità soggettiva che ne evidenzia l’assoggettamento ai principi e regole del diritto civile e, quindi, anche del fallimento, concordato preventivo, amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi (Decreto Legislativo nr. 175 del 2016, articolo 14); infatti, tale impostazione trova la sua spiegazione alla luce, da un lato, del principio di legalità che sancisce la necessaria legge di equiparazione, ex articolo 4 Legge 70/1975, per considerare una società un ente pubblico; dall’altro, il principio della concorrenza e della par condicio creditorum propri del diritto civile e del processo fallimentare.