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La specialità e la supremazia delle convenzioni contro le doppie imposizioni rispetto alle norme di diritto interno

Suprema Corte di Cassazione
Suprema Corte di Cassazione

La specialità e la supremazia delle convenzioni contro le doppie imposizioni rispetto alle norme di diritto interno

 

Abstract

Una recente ordinanza della Suprema Corte, n. 13217,del 27 aprile 2022 ha analizzato il caso di una persona fisica, fiscalmente residente in Slovacchia, che ha prestato la sua attività lavorativa - in qualità di dirigente - in Italia e al termine del periodo di lavoro ha percepito un provento come “TFR” e “incentivo all’esodo che, in ossequio al disposto dell’art. 18 della Convenzione contro le doppie imposizioni sottoscritta tra Italia e Slovacchia, non è stato assoggettato a tassazione in Italia:  la Corte ribadisce che le Convenzioni internazionali rivestono carattere di specialità rispetto alle corrispondenti norme nazionali, e, quindi, prevalgono su quest’ultime.

 

Indice:

  1. Criteri di tassazione e necessari rimedi alle doppie imposizioni

  2. Principi ripresi di recente dalla Suprema Corte

  3. Norma interpretativa speciale e funzione del Commentario OCSE

 

  1. Criteri di tassazione e necessari rimedi alle doppie imposizioni

L’obbligazione tributaria ricade su tutti i possessori di reddito residenti o meno nel territorio dello Stato: mentre per i contribuenti residenti si applica il criterio dell’utile mondiale (world wide taxation principle) per quelli non residenti la tassazione avviene in base al criterio oggettivo della territorialità della fonte del reddito (source-based taxation principle). L’adozione di tale doppio criterio di prelievo comporta il rischio di doppie imposizioni rispetto a quei Paesi che utilizzano gli stessi criteri e, quindi, è nata nel corso degli anni l’esigenza di adottare appositi accordi tra gli Stati per evitare e vietare la doppia imposizione: le convenzioni contro le doppie imposizioni sono trattati internazionali che incidono all’interno degli ordinamenti dei singoli Stati per mezzo delle leggi nazionali di ratifica (acquistando il valore di fonte primaria) e sono, di regola, tipizzate nel Modello OCSE elaborato dal Consiglio Economico e Sociale delle Nazioni Unite per le convenzioni con i Paesi in via di sviluppo e a cui tutti i trattati stipulati dall’Italia fanno riferimento.

Le disposizioni di riferimento ai fini delle imposizione diretta sono contenute nell’art. 75 del D.P.R. n. 600/1973, a norma del quale “nell’applicazione delle disposizioni concernenti le imposte sui redditi, sono fatti salvi accordi internazionali resi esecutivi in Italia”, come a dire che nelle ipotesi di conflitto con la legislazione nazionale, prevale sempre la convenzione e nell’art. 169 del TUIR, per il quale le disposizioni dello stesso Testo Unico “si applicano, se più favorevoli al contribuente, anche in deroga agli accordi internazionali contro la doppia imposizione”.

Le convenzioni bilaterali in materia di doppia imposizione hanno la funzione di eliminare la sovrapposizione dei sistemi fiscali nazionali, che si verifica allorché una stessa situazione di fatto economicamente rilevante determina la nascita in capo al medesimo soggetto di due obbligazioni tributarie in relazione a imposte dello stesso tipo previste dalla legislazione di due Paesi diversi, con conseguente ostacolo all’attività economica e di investimento internazionale. Tale scopo viene perseguito o mediante l’attribuzione del potere d’imposizione fiscale ad uno Stato contraente e, corrispondentemente, con la rinuncia all’esercizio di tale potere da parte dell’altro Stato, oppure viene prevista una potestà impositiva concorrente dei due Stati, con il ricorso allo strumento del foreign tax credit per evitare la doppia imposizione.

Sul tema la Corte di Cassazione, con Sentenza n. 1138/2009, ha affermato il principio generale per cui le Convenzioni per il carattere di specialità del loro ambito di formazione, cosi come le altre norme internazionali pattizie prevalgono sulle corrispondenti norme nazionali, dovendo la potestà legislativa essere esercitata nei vincoli derivanti, tra l’altro dagli obblighi internazionali e ciò in base all’art. 117, comma 14 della Carta Costituzionale. Successivamente, la stessa Corte Suprema, con Sentenza n. 14476/2016, ha nuovamente statuito la supremazia della norma convenzionale/pattizia rispetto a quella di diritto interno, esaminando l’indennità di fine rapporto percepita da cittadino residente in Svizzera ma dipendente delle Ferrovie italiane: a norma dell’art. 15 della Convenzione Italia-Svizzera (“i salari, gli stipendi e le altre remunerazioni analoghe che un residente in uno stato contraente riceve in corrispettivo di un’attività dipendente sono imponibili soltanto in detto Stato”), la Corte ha affermato che “in presenza di una disposizione pattizia di indiscutibile chiarezza risulta scorretto sul piano esegetico e costituisce indubbia forzatura sul piano logico e giuridico ipotizzare che in quella sede si sia inteso richiamare, in una sorta di rinvio per relationem idoneo a modificare il senso e la portata della norma pattizia, la presunzione iuris et de iure contenuta in una norma dell’ordinamento di uno degli Stati contraenti e precisamente la previsione dell’art. 23 TUIR… Se tanto si esclude non vi è alcun motivo né strumento logico e/o giuridico per ritenere che la previsione di una norma interna possa in qualche modo incidere sul chiaro disposto di una norma pattizia condizionandone la portata, con la conseguenza che la fattispecie deve essere regolata dalla norma convenzionale, gerarchicamente sovraordinata alla legge ordinaria interna.
 

  1. Principi ripresi di recente dalla Suprema Corte

Tali principi vengono ripresi di recente dalla stessa Corte di Cassazione, con l’ordinanza 27 aprile 2022 n. 13217, anallizando il caso di una persona fisica, fiscalmente residente in Slovacchia, che ha prestato la sua attività lavorativa - in qualità di dirigente - in Italia: al termine del periodo di lavoro, il medesimo soggetto percepiva un provento come “TFR” e “incentivo all’esodo” e, in ossequio a quanto disposto dall’art. 18 della Convenzione contro le doppie imposizioni sottoscritta tra Italia e Slovacchia, ha ritenuto di non assoggettarlo a tassazione in Italia. L’Agenzia delle Entrate italiana reclamava il mancato pagamento delle imposte sui redditi in Italia e accertava il contribuente e i giudici di prime e seconde cure confermavano l’impostazione dell’Agenzia sostenendo che lo scopo delle Convenzioni, in termini generici, è quello di evitare la doppia imposizione tra Stati e non certo quello di favorire la completa elusione dell’obbligo fiscale. Ciò, in quanto, in base all’art. 18 della Convezione Italia/Slovacchia, è prevista unicamente la potestà impositiva esclusiva dello stato di residenza del pensionato (Slovacchia), e, conseguentemente, le norme interne tributarie di detto Stato nulla dispongono in merito alla tassazione di tale componente di reddito.

La Corte di Cassazione, invece, “cassa” quanto affermato dai giudici di primo e secondo grado e lo fa basandosi su due ordini di ragioni:

  1. in primis, rileva che le Convenzioni internazionali rivestono carattere di specialità rispetto alle corrispondenti norme nazionali, e, quindi, prevalgono su quest’ultime (principi ripresi anche da precedenti interventi giurisprudenziali quali ad esempio la sentenza n. 11035/2021);
  2. in secundis, prosegue la Corte, se si legge con attenzione l’art. 18 della Convenzione Italia/Slovacchia, si può notare di come il documento attribuisca una potestà impositiva esclusiva allo stato di residenza del pensionato (Slovacchia), e ciò, ritiene la Corte, si coglie dall’utilizzo dell’avverbio “soltanto”. Altre convenzioni, infatti, come ad esempio quella tra Italia e Lussemburgo, non utilizzano l’avverbio “soltanto” e quindi si ritiene sussistere la possibilità congiunta di entrambi gli Stati di assoggettare a tassazione il reddito da pensione.

In definitiva, secondo i giudici, è anzitutto da prediligere l’applicazione delle Convenzioni sulle norme interne dei singoli Stati, ciò anche laddove dalla loro applicazione non derivi necessariamente l’assoggettamento a tassazione del reddito da pensione in uno degli Stati contraenti, e, in aggiunta, l’utilizzo dell’avverbio “soltanto” all’interno dell’art. 18 deve essere inteso nel senso di attribuire una potestà impositiva esclusiva ad uno soltanto degli Stati contraenti.

Per chiarire ulteriormente, la detta norma pattizia internazionale attribuisce una potestà esclusiva allo Stato della residenza e ciò è confermato dal dato letterale della stessa norma che utilizza l’espressione “…sono imponibili soltanto nello Stato…” e, quindi, dal criterio ermeneutico di interpretazione letterale dei trattati previsto dall’art. 31, par. 1, della Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati del 23 maggio 1969: il dato testuale della norma pattizia in questione (“sono  imponibili  soltanto  in questo Stato”) integra una espressa eccezione alla regola prevista dall’art. 23 della stessa Convenzione (e rubricato “eliminazione della doppia imposizione”).

Secondo i giudici di legittimità, quindi, la fattispecie de qua non può quindi essere disciplinata dalle norme nazionali eccepite dall’Ufficio, a scapito di una convenzione internazionale sottoscritta dagli Stati interessati e con la quale è stato disciplinato e ripartito ab origine l’esercizio del potere impositivo. Ciò pertanto preclude chiaramente allo Stato della fonte (l’Italia) di esercitare il proprio potere impositivo: inoltre, secondo la Corte Cassazione dinanzi ad una norma pattizia così chiara, espressiva della chiara volontà degli Stati firmatari della Convenzione in questione, è irrilevante che lo Stato cui viene attribuito esclusivamente il potere impositivo, assoggetti (o meno) effettivamente a tassazione il reddito oggetto di disputa (Ordinanze 24 giugno 2021, n. 18237 e n. 18238).
 

  1. Norma interpretativa speciale e funzione del Commentario OCSE

Nell’interpretare una norma pattizia il giudice nazionale non deve limitarsi ad applicare i criteri ermeneutici previsti dall’ordinamento interno ma va piuttosto verificato come e in quali termini le stesse Convenzioni limitino il ricorso a definizioni previste dalla normativa interna e comprendere, quali limiti lo stesso giudice incontra nella possibilità di attribuire ad un determinato termine tecnico giuridico contenuto in una Convenzione (e non espressamente definito nella stessa) il significato per Nelle Convenzioni adottate in conformità al Modello OCSE, vi è una norma “speciale” contenuta all’interno della Convenzione, oggetto di interpretazione, e che, in quanto tale trova applicazione immediata solamente con riferimento alla convenzione nella quale essa è contenuta: la disposizione interpretativa speciale è, invece, rappresentata dall’articolo 3 del Modello di convenzione OCSE. Lo strumento interpretativo delle convenzioni redatte secondo il Modello base predisposto dall’OCSE è rappresentato dal Commentario al quale è riconosciuta, un’ampia valenza interpretativa, come dimostrato dal suo costante richiamo e utilizzo sia da parte della prassi amministrativa, sia da parte della giurisprudenza e devono essere considerati mezzi di interpretazione, non vincolanti né le parti né l’interprete, avendo al più una funzione di indirizzo, capace di ispirare gli Stati membri nella conclusione di convenzioni bilaterali. In buona sostanza, secondo tale orientamento, i principi ricavabili dal Modello base OCSE e dal suo Commentario non avrebbero alcuna funzione vincolante sull’operato dell’interprete e, in particolar modo, del giudice che in base al principio di legalità, è vincolato nell’interpretazione della legge soltanto da atti aventi forza di legge. La Corte di Cassazione con Sentenza n.17206/2006 ribadì che il Commentario al Modello OCSE non ha forza di legge e deve essere considerato, al pari di una raccomandazione verso i Paesi aderenti all’Ocse, privo di forza vincolante per il giudice nazionale. Più recentemente, un’ulteriore conferma dell’orientamento consolidato, è stata nuovamente espressa nella sentenza n. 23984/2016 (in tema di tassazione di redditi di artisti prodotti all’estero) nella quale, pur dandosi atto che il Commentario non è fonte di diritto e che esso costituisce, al più, una raccomandazione diretta ai Paesi aderenti all’OCSE giunge, però, a considerarlo, come elemento di conferma di una interpretazione assunta prima facie in base al testo,

L’art. 3, par. 2 è abbastanza chiaro nel prevedere una sorta di subordinazione del ricorso al significato previsto dalla legislazione interna rispetto al contesto: l’interpretazione ottenuta tramite il contesto dovrà essere talmente solida da evitare qualsiasi altra ragionevole interpretazione e non dover ricorrere anche al significato previsto, per quella determinata espressione, alla normativa dello Stato che applica la convenzione. Tale complesso processo interpretativo, che viene definito sistematico teleologico, risulta costantemente seguito nella giurisprudenza della Corte di cassazione in materia di convenzioni contro le doppie imposizioni: nella Sentenza n. 10348/2003 la Corte, chiamata a pronunciarsi in merito al significato di un’espressione contenuta nel Protocollo integrativo della Convenzione contro le doppie imposizioni tra la Repubblica italiana e la Repubblica austriaca, in assenza di un’autonoma definizione del termine oggetto di interpretazione (“sgravio fiscale maggiore”), ne ha dapprima ricercato il significato ordinario (generale, atecnico) giungendo alla conclusione che essa aveva un significato polisenso (in quanto indistintamente interpretabile sia nell’accezione prospettata dal contribuente sia in quella dell’Amministrazione finanziaria). L’analisi sistematico-teologica ha, quindi, condotto la Corte a respingere l’interpretazione fornita dall’Amministrazione finanziaria, osservando che “ove si prestasse adesione all’interpretazione prospettata dalla ricorrente amministrazione se ne dovrebbe dedurre …che alle disposizioni del protocollo integrativo non sia riconducibile alcun effetto”. In questo caso, quindi, la Corte ha applicato i principi recati dall’art. 31 della Convenzione di Vienna, senza neanche arrivare a verificare quale fosse il significato da attribuire all’espressione “sgravio fiscale maggiore” dalla normativa domestica, proprio perché il contesto dell’espressione interpretata, quale emergente dalla volontà delle parti esplicitata nel Protocollo, era talmente rilevante da escludere qualsiasi altra interpretazione, anche se prevista dalla normativa domestica. Ai soli fini di una corretta comprensione, il citato art. 31 ha la funzione di descrivere l’iter logico attraverso il quale tutto il processo interpretativo deve svilupparsi:

  1. ogni trattato deve essere interpretato secondo buona fede;
  2. il secondo principio (dell’obiettività) introduce la presunzione per cui il significato che le parti hanno voluto attribuire ad un determinato termine coincide con il significato ordinario dello stesso;
  3. tale significato ordinario deve essere ricercato all’interno del contesto del trattato ed alla luce sia del suo scopo che del suo oggetto (criterio teolologico).