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L’amministrazione condivisa del patrimonio culturale: una proposta

Patrimonio culturale
Patrimonio culturale

Al di là delle precipue definizioni giuridico-normative, è innegabile che il patrimonio culturale annoveri beni cosiddetti “comuni”, ossia non precludibili ad alcuno e fruibili senza rischi di consumo o detrimento da un numero indefinito di soggetti in un arco temporale non quantificabile.

Già nel 1977 Massimo Severo Giannini collocava i beni paesaggistici nell’alveo dei prefati commons, donde analogicamente di tale natura possono essere vieppiù compartecipi i beni culturali.

Se si muove da tale premessa è possibile pervenire alla constatazione della sussistenza della necessità della partecipazione dei cittadini a qualsivoglia decisione concernente la gestione del patrimonio de quo.

Venendo più specificamente al piano giuridico, il Codice Urbani ritaglia un ruolo importante in capo ai privati proprietari, possessori o detentori di beni culturali (omnes, trattandosi appunto di commons) quanto alla loro conservazione ex articolo 1 comma quinto, nondimeno imponendo allo Stato – in piena e complessiva attuazione del principio di sussidiarietà orizzontale di cui al disposto dell’articolo 118 della Carta Costituzionale – di implementare e sorreggere la partecipazione dei privati (tanto singoli quanto associati) alla loro valorizzazione ex articolo 6 comma terzo.

Numerose Amministrazioni Comunali hanno emanato regolamenti per la gestione condivisa dei beni comuni urbani, in virtù dei quali tra la P.A. e i cittadini sorgono veri e propri patti di collaborazione, sussumibili all’interno della categoria dei partenariati sociali contemplati dall’articolo 189 del Codice dei Contratti Pubblici.

Il passo da compiere adesso in vista della promozione di siffatti strumenti è la creazione di un quadro unico di regole cornice volte ad evitare onerosità di accesso, incoraggiare uniformità di trattamento, sostenere la proiettività verso centri e periferie, scongiurare discriminazioni soggettive e oggettive. L’assenza di tale auspicabile quadro implica che ogni Ente Locale possa adottare una disciplina con proprie disposizioni, disorganiche nel complesso nazionale seppur ovviamente legittime.

Del resto, come ricordato dal Tribunale Amministrativo Regionale del Lazio (sede di Roma, sezione seconda) nella sentenza 9640/2018, la valorizzazione delle attività di volontariato e il principio di sussidiarietà - in base al quale i corpi minori possono cooperare e, in taluni casi, sostituirsi a quelli di livello superiore e anche agli organismi di governo del territorio nell’esecuzione e nella prestazione di talune attività e di servizi rivolti alla collettività – non implica un’abdicazione totale da parte degli Enti rappresentativi (Comuni, Città Metropolitane, Regioni, Stato) dal compito di disciplinare tali attività, almeno per quanto riguarda gli aspetti entro i quali la loro attività va coordinata con le attività e i fini istituzionali degli Enti direttamente rappresentativi delle collettività.

Altresì la legittimazione all’emanazione di regolamenti di guisa di quelli di cui si sta discettando dovrebbe essere espressamente estesa agli Enti Parco, stante il disposto dell’articolo 12 della legge 394/1991, che affida ad essi la tutela dei valori naturali ed ambientali nonché storici, culturali, antropologici tradizionali attraverso lo strumento del piano.

E, infine, sarebbe utile prevedere incentivi fiscali a favore dei soggetti impegnati nell’amministrazione condivisa dei beni culturali.

Il tutto condurrebbe inevitabilmente a configurare prassi del genere come modelli straordinari di inclusione sociale e welfare.