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L’autotutela del lavoratore nel caso di demansionamento illegittimo ex art. 2103 Codice Civile

Considerazioni giurisprudenziali
Montagna
Ph. Federico Radi / Montagna

Abstract

“Nei contratti con prestazioni corrispettive, ciascuno dei contraenti può rifiutarsi di adempiere la sua obbligazione, se l'altro non adempie o non offre di adempiere contemporaneamente la propria, salvo che termini diversi per l'adempimento siano stati stabiliti dalle parti o risultino dalla natura del contratto.

Tuttavia non può rifiutarsi l'esecuzione se, avuto riguardo alle circostanze, il rifiuto è contrario alla buona fede.”

Questo il dispositivo dell’articolo1460 Codice Civile, il quale prevede una forma di autotutela delle parti in ragione della sinallagmaticità del contratto; “exeptio non adimpleti contractus”, “inademplenti non est ademplendum” numerosi sono i brocardi latini che potremmo sciorinare in merito alla fattispecie, ma come si articola questa forma di tutela nel contratto di lavoro?

In contracts with corresponding services, each of the contracting parties can refuse to fulfill his obligation, if the other does not fulfill or does not offer to fulfill his own at the same time, unless different terms for the fulfillment have been established by the parties or result from the nature of the contract.

However, execution cannot be refused if, given the circumstances, the refusal is contrary to good faith. "

These are the terms of articolo 1460 of the Italian Civil Code, which provides for a form of self-protection of the parties based on the synallagmatic nature of the contract; “Exeptio non adimpleti contractus”, “inademplenti non est ademplendum” there are numerous Latin brocards that we could discern about the case in point, but how is this form of protection articulated in the employment contract?

 

L’autotutela assume le caratteristiche di un rimedio alternativo alla tutela giudiziale, istituto tipico del diritto privato, trova collocazione all’interno del libro quarto del codice civile, all’articolo 1460 il quale è rubricato “Eccezione d’inadempimento”.

Il ragionamento del legislatore al tempo della stesura della norma dev’essere stato senza dubbio volto a colorare di significato un concetto come quello di sinallagmaticità che si pone alla base del contratto di lavoro in quanto contratto a prestazioni corrispettive; inademplenti non est adimplendum, così recita un famoso brocardo latino di stampo giusromanistico, che deve fungere da lente di ingrandimento attraverso la quale provare ad esaminare da vicino questa fattispecie rimediale.

Tale brocardo esprime molto bene l’idea sottesa alla disciplina dell’autotutela, per cui ciascuna prestazione trova giustificazione nella prestazione della controparte, ma senza trascurare il dato normativo è bene partire da una attenta lettura dell’articolo 1460 Codice Civile: “Nei contratti con prestazioni corrispettive, ciascuno dei contraenti può rifiutarsi di adempiere la sua obbligazione se l’altro non adempie o non offre di adempiere contemporaneamente la propria, salvo che termini diversi per l’adempimento siano stabiliti dalle parti o risultino dalla natura del contratto”.

Autorevole dottrina[1] ha però precisato che l’eccezione di inadempimento giustifica la sospensione di adempimento ma non il cattivo adempimento, ed inoltre[2] è la buona fede il principio fondamentale cui si riconduce la valutazione comparativa dei due inadempimenti, diretta ad accertare la necessaria proporzionalità dell’uno rispetto all’altro; e più in generale, ogni altro criterio utile a decidere se l’autore dell’inadempimento-risposta usi legittimamente l’eccezione, o invece ne faccia abuso”.

Ciò detto, il primo spunto di riflessione in merito alla disciplina dell’autotutela porta ad interrogarci circa la proporzionalità dell’inadempimento, nello specifico la domanda che una lettura della norma porta a farci è la seguente: l’eccezione di adempimento richiede il rispetto di un criterio di proporzionalità rispetto all’inadempimento della controparte?

L’interrogativo può sembrare banale, ma i risvolti pratici connessi alla disciplina sono notevoli, la logica giuridica ci porta a pensare che se il datore di lavoro non ottemperasse al suo obbligo principale verso il lavoratore, ossia non lo retribuisse, sarebbe certamente proporzionata la sospensione della prestazione lavorativa, ma se la condotta illegittima del datore non riguardasse la retribuzione, bensì un mutamento di mansioni avverso la lettera dell’articolo 2103 Codice Civile, come dovrebbe strutturarsi l’autotutela del lavoratore?

Secondo la dottrina maggioritaria[3] a fronte di un demansionamento illegittimo, la condotta del lavoratore che decide di non svolgere la prestazione non può essere considerata un inadempimento, per tale motivo non è tale da integrare conseguenze sul piano disciplinare, ed anzi, si è sostenuto[4] che tale condotta inadempiente del lavoratore determini la mora accipiendi del datore, sostanzialmente ritenendo che l’inadempimento del lavoratore sia conseguenza del rifiuto o della mancata cooperazione del datore di lavoro.

Molto interessante è la teoria[5] secondo la quale la condotta del lavoratore che rifiuti di rendere la prestazione non può sussumersi nella fattispecie dell’eccezione di inadempimento, in quanto la prestazione che questo rifiuta di rendere non è la prestazione alla quale si è contrattualmente obbligato, bensì una prestazione aliena, che a lui non compete e che gli è richiesta sulla base dell’esercizio di un potere esercitato illegittimamente; ne consegue che non è richiesta dalla disciplina alcuna prova dell’inadempimento datoriale, perché in quanto del tutto illegittimo, l’atto del datore di lavoro è considerato non produttivo di effetti ab initio: questo vuol dire che non occorre ricercare la legittimità del rifiuto del prestatore nell’inadempimento della controparte.

La giurisprudenza invece, in ottica limitativa, ha ritenuto di dover adottare un criterio che riprende invece il concetto espresso in precedenza in tema di proporzionalità dell’inadempimento, ha infatti considerato la fattispecie del rifiuto del lavoratore di rendere la prestazione come un’eccezione di inadempimento[6], questa considerazione implica una necessaria valutazione della condotta datoriale in termini di gravità e della reazione del lavoratore in termini di proporzionalità[7].

Alla luce di tale valutazione il rifiuto di rendere la prestazione avente ad oggetto le mansioni non spettanti al lavoratore è da ritenersi legittima solamente nella misura in cui tale comportamento sia commisurato alla gravità del demansionamento; qualora così non fosse l’articolo 1460 comma 2 Codice Civile ci ricorda che “non può rifiutarsi l’esecuzione se, avuto riguardo alle circostanze, il rifiuto è contrario alla buona fede”; semplificando potrebbe dunque dirsi che il rifiuto di rendere la prestazione trova legittimazione nella gravità dell’inadempimento datoriale e che solo in tal caso si potrebbe ritenere rispettato il principio di buona fede.

La giurisprudenza quindi ci illumina circa la necessità di distinguere tra inadempimento grave e inadempimento non rilevante del datore di lavoro: ciò dimostra che è del tutto insufficiente trincerarsi dietro un aprioristico rispetto da parte del datore della pattuizione con i sindacati, perché occorre altresì verificare se nello specifico, tenuto conto dell’interesse da proteggere (tutela della personalità) rispetto  all’interesse da sacrificare (diritto al lavoro), sia proporzionato il mutamento di mansioni, anche se astrattamente rispettoso del contratto collettivo[8].

Inoltre, entrando nel merito dell’argomento relativo all’ingiustificato rifiuto da parte del lavoratore, è possibile leggere la fattispecie alla luce di alcune sentenze[9] che hanno dichiarato illegittimo il rifiuto del  prestatore di lavoro qualora l’inadempimento del datore di lavoro incidesse sulle esigenze di vita del lavoratore, in quanto nonostante la dequalificazione questo avrebbe comunque continuato a percepire lo stipendio; questo orientamento si fonda sull’assunto per cui è solo il completo inadempimento di una parte a legittimare l’inadempimento dell’altra.

Non è, dunque, un caso se anche giurisprudenza più recente sembra muoversi in tale direzione, con sentenza del 16 gennaio 2018 n. 836 la Corte di Cassazione ha infatti avallato l’orientamento pregresso che impone proporzionalità tra gli inadempimenti.

Nel caso di specie la Corte d’appello di Firenze aveva confermato la statuizione di illegittimità del licenziamento del dipendente per assenza ingiustificata dal posto di lavoro protratta oltre i quattro giorni consecutivi, con conseguente condanna della società datrice alla reintegra nel posto di lavoro ai sensi dell’articolo 18 l n. 300 del 1970. La Corte d’appello aveva ritenuto che l’assenza del dipendente dal posto di lavoro costituisse un inadempimento proporzionato al demansionamento operato dal datore di lavoro in considerazione del protrarsi dell’adibizione a mansioni inferiori per oltre due mesi, nonostante diffida formale del legale del lavoratore.

La Corte di Cassazione ha invece ritenuto che il lavoratore non può rendersi totalmente inadempiente sospendendo ogni attività lavorativa, ove il datore di lavoro assolva a tutti gli altri propri obblighi (pagamento della retribuzione, copertura previdenziale e assicurativa, assicurazione del posto di lavoro) potendo – una parte – invocare una giustificazione a siffatta condotta sulla scorta dell’articolo 1460 Codice Civile soltanto se è totalmente inadempiente l’altra parte.

L’adibizione a mansioni non rispondenti alla qualifica rivestita può piuttosto “consentire al lavoratore di richiedere giudizialmente la riconduzione della prestazione nell’ambito della qualifica di appartenenza , ma non lo autorizza a rifiutarsi aprioristicamente, e senza un eventuale avallo giudiziario che, peraltro, può essergli urgentemente accordato in via cautelare, di eseguire la prestazione lavorativa richiestagli, in quanto egli è tenuto ad osservare le disposizioni per l’esecuzione del lavoro impartito dall’imprenditore, ex articolo 2086 e 2104 Codice Civile[10].

Secondo la Cassazione la semplice diffida non “riequilibra” le due forme di inadempimento, anche in virtù del fatto che nei precedenti gradi di giudizio non si è tenuto conto della tempistica cronologica degli avvenimenti e in particolare dell’assenza sul posto di lavoro nel giorno immediatamente successivo alla lettera di diffida inoltrata al datore di lavoro, trattandosi di un elemento non trascurabile, al fine di stabilire, nell’ambito della valutazione complessiva del comportamento del lavoratore, la sussistenza della buona fede richiesta dall’articolo 1460 Codice Civile.

A ben vedere, dunque, volendo cogliere il risvolto pratico di una disciplina così delineata, il rifiuto delle nuove mansioni assegnate richiede, secondo questo orientamento, un accertamento da parte del giudice che dichiari illegittima la pretesa datoriale di mutamento delle mansioni, tale accertamento può essere richiesto anche mediante strumenti processuali d’urgenza.

La critica che possiamo muovere a questa concezione è data dall’eccessivo appesantimento dell’istituto dell’autotutela, infatti questa conclusione implica l’impossibilità di ricorrere all’autotutela qualora non sussistano i presupposti per richiedere la misura cautelare; il punto è che la tutela cautelare non dovrebbe risultare ostativa di una forma di tutela, ma un quid pluris giustificato dall’urgenza e dalla necessità di sospendere gli effetti spiacevoli di una condotta illecita[11].

Anche qualora dalla richiesta di accertamento dovesse risultare legittima la condotta datoriale, la misura cautelare è comunque molto utile al lavoratore in autotutela in quanto potrà addurre a sua difesa che la sua condotta inadempiente si conformava ad un ordine cautelare, eludendo così il rischio di un licenziamento per inadempimento.

 

[1] Roppo V., Il contratto, Giuffrè, Milano,2001., p 999.

[2] Roppo V., Il contratto, Giuffrè, Milano,2001., cit. p 998.

[3] Dell’olio M., Autotutela: III Diritto del lavoro, in Enc. giuridica Treccani, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma, 1988, Ghera E., Le sanzioni civili nella tutela del lavoro subordinato, Milano, 1979, Vallebona A., Intervento in Le sanzioni nella tutela del lavoro subordinato, Milano, 1979

[4] Speziale V., Mora del creditore e contratti lavoro, Bari, 1992, Balletti E., La cooperazione del datore all’adempimento dell’obbligazione del lavoro, Padova, 1990.

[5] Zoppoli A., La corrispettività nel 251 contratto di lavoro, Napoli, 1991, 226.

[6] Cass. 20 Dicembre 2002, n. 18209, in Rep. Foro it., 2002, voce Lavoro (rapporto), n. 3890, Cass. 16 Gennaio 1996, n. 397, in Dir. lav., 1996, II, 536; Cass. 12 Ottobre 1996, n. 8939, in Lavoro nella giur., 1997, 422; Cass. 23 Novembre 1995, n. 12121, in Riv. it. dir. lav., 1996, II, 796

[7] Cass. 24 Gennaio 2013, 253 n. 1693, ivi, 2013, n. 12, 27.

[8] Catalano M., La responsabilità civile nei rapporti di lavoro. Demansionamento, Mobbing e danno differenziale, in La responsabilità Civile (a cura di) Fava P., Giuffrè Editore, Milano, 2009, p.1933.

[9] Cass. 24 Gennaio 2013, n. 1693, in Guida al lav., 2013, n. 12, 27.

[10]  Cass. 16 gennaio 2018 n. 836, in Il Foro Italiano 2018, II, p.466.

[11] Pisani C., Nuova disciplina del mutamento delle mansioni, Torino, 2015, p.290.