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Lavoro in malattia: il datore di lavoro deve provare che ciò pregiudica la guarigione

Analisi della sentenza n. 13063/2022 della Cassazione in merito all’onere della prova che incombe in capo al datore di lavoro
Lavoro in malattia
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Lavoro in malattia: il datore di lavoro deve provare che ciò pregiudica la guarigione


Con la sentenza n. 13063 del 26 aprile 2022, la Cassazione Civile – Sezione Lavoro ha statuito che il datore di lavoro ha l’onere di provare che la diversa attività, svolta dal lavoratore assente per malattia, sia potenzialmente idonea a pregiudicare o ritardare la guarigione. In difetto di tale prova, il licenziamento disciplinare intimato al lavoratore è illegittimo.


1. Il fatto

La società datrice di lavoro aveva proceduto al licenziamento disciplinare per giusta causa del dipendente che, in costanza di malattia, aveva postato foto e video sul proprio profilo Facebook che dimostravano, a parere della società, la simulazione della malattia o comunque lo svolgimento di attività extralavorativa che aveva pregiudicato o rallentato la guarigione.

Avverso detto licenziamento, il dipendente aveva proposto ricorso rigettato in primo grado. Nel giudizio di appello, la Corte d’Appello di Milano, in riforma della sentenza di primo grado, aveva annullato il licenziamento intimato, statuendo che il datore di lavoro non aveva assolto all’onere della prova di dimostrare che l’attività extralavorativa compiuta dal dipendente avesse pregiudicato o rallentato la guarigione.

Avverso detta sentenza, la società ha proposto ricorso in Cassazione. In particolare, con il terzo motivo di impugnazione, il datore di lavoro ha eccepito la violazione e la falsa applicazione dell’articolo 2697 codice civile per avere la Corte d’Appello ritenuto che sul datore di lavoro gravasse l’onere della prova che la condotta del lavoratore compromettesse o ritardasse la ripresa dell’attività lavorativa.

La Cassazione ritiene la censura infondata.


2. La malattia e lo svolgimento di un’altra attività

La Suprema Corte inizia il proprio ragionamento, rilevando come non sussista, nel nostro ordinamento, un divieto assoluto per il dipendente, in costanza di malattia, di prestare attività anche in favore di terzi. Pertanto, tale comportamento, non costituisce, di per sé, inadempimento degli obblighi imposti al prestatore d’opera.

Tale principio trova fondamento nella nozione di malattia rilevante ai fini della sospensione dell’attività lavorativa. In particolare, per la giurisprudenza, la malattia “ricomprende le situazioni nelle quali l’infermità abbia determinato, per intrinseca gravità e/o per incidenza sulle mansioni normalmente svolte dal dipendente, una concreta ed attuale – sebbene transitoria – incapacità al lavoro del medesimo (cfr., tra tutte, n. 14065 del 1999), per cui, anche laddove la malattia comprometta la possibilità di svolgere quella determinata attività oggetto del rapporto di lavoro, può comunque accadere che le residue capacità psico-fisiche possano consentire al lavoratore altre e diverse attività” (Cassazione Civile Sezione Lavoro n. 14065/1999).

La stessa giurisprudenza ha, però, rilevato che il compimento di altre attività da parte del dipendente, assente per malattia, possa essere disciplinarmente rilevante (arrivando persino a giustificare un licenziamento) in relazione ai doveri generali di correttezza e buona fede e i doveri specifici di diligenza e fedeltà. In particolare, la diversa attività prestata assume rilievo disciplinare, sia nell’ipotesi in cui sia sufficiente a dimostrare l’inesistenza dell’infermità addotta a giustificazione dell’assenza, sia nell’ipotesi in cui l’attività stessa sia tale da pregiudicare o ritardare, anche potenzialmente, la guarigione e il rientro al lavoro del dipendente (da ultima in tal senso Cass. Civ. Sez. Lavoro n. 13980/2020).

In altre parole, durante il periodo di malattia, in capo al lavoratore permangono tutti gli obblighi non inerenti alla prestazione lavorativa e, in particolare, il dovere di correttezza e buona fede, di cui agli articoli 1175 e 1375 codice civile, e di diligenza e fedeltà, di cui agli articoli 2104 e 2105 codice civile.

In forza di tali principi il lavoratore, prosegue la Cassazione, deve astenersi da comportamenti che possono ledere l’interesse del datore di lavoro alla corretta esecuzione dell’obbligazione principale dedotta in contratto. In particolare, la mancata prestazione lavorativa del dipendente, conseguente al suo stato di malattia, trova tutela nelle disposizioni contrattuali e codicistiche, se non sia imputabile alla condotta volontaria del lavoratore stesso, che compia scelte idonee a pregiudicare l’interesse datoriale a ricevere la prestazione.

In tale prospettiva “assume peculiare rilievo l’eventuale violazione del dovere di osservare tutte le cautele, comprese quelle terapeutiche e di riposo prescritte dal medico, atte a non pregiudicare il recupero delle energie lavorative temporaneamente minate dall’infermità, affinché vengano ristabilite le condizioni di salute idonee per adempiere la prestazione principale cui si è obbligati, sia che si intenda tale dovere quale riflesso preparatorio e strumentale dello specifico obbligo di diligenza, sia che lo si collochi nell’ambito dei più generali doveri di protezione scaturenti dalle clausole di correttezza e buona fede in executivis, evitando comportamenti che mettano in pericolo l’adempimento dell’obbligazione principale del lavoratore per la possibile o probabile protrazione dello stato di malattia”.

E tale valutazione, relativa all’incidenza dell’altra attività sulla guarigione, è costituita da un giudizio ex ante, riferito al momento in cui il comportamento contestato si è tenuto ed ha per oggetto la potenzialità del pregiudizio, con la conseguenza che l’eventuale ripresa tempestiva del lavoro è irrilevante.

In maniera ancora più chiara la Suprema Corte stabilisce che: “lo svolgimento di attività in periodo di assenza dal lavoro per malattia, costituisce illecito di pericolo e non di danno, il quale sussiste non soltanto se quell’attività abbia effettivamente provocato un’impossibilità temporanea di ripresa del lavoro, ma anche quando la ripresa sia stata posta in pericolo, ossia quando il lavoratore si sia comportato in modo imprudente” (Cassazione Civile Sezione Lavoro n. 16465/2015).


3. L’onere della prova

La Suprema Corte ricorda come, in materia di onere della prova, esistono due diversi e contrapposti orientamenti giurisprudenziali:

secondo il primo, nel caso di un lavoratore in malattia sorpreso a svolgere un’altra attività, sarebbe onere dello stesso lavoratore provare la compatibilità di tale attività con la malattia e quindi l’inidoneità a pregiudicare la guarigione (tra le altre Cass. Civ. Sez. Lavoro n. 11142/1991, n. 6048/2018 e n. 9647/2021);

secondo un secondo orientamento, è, invece, il datore di lavoro a dover provare che la diversa attività ha avuto un’incidenza nel ritardare o pregiudicare la guarigione del lavoratore (tra le altre Cass. Civ. Sez. Lavoro n. 6375/2011, n. 15476/2012, n. 4869/2014, n. 1173/2018 e n. 13980/2020).

Fatta questa premessa, la Corte rileva come la questione sia stata sempre affrontata in via incidentale e che mai sia stata oggetto di un gravame specifico, come nel caso di specie.

Pertanto, la Cassazione, nell’aderire al secondo orientamento, decide di effettuare una disamina della normativa e della giurisprudenza in materia di licenziamento disciplinare sotto il profilo dell’onere della prova al fine di motivare adeguatamente la propria posizione.

In particolare, il ragionamento della Corte si basa su tre premesse:

  • il tenore letterale dell’art. 5 legge 604/1966,
  • l’interpretazione rigorosa della giurisprudenza dell’onere della prova stabilito da tale articolo e
  • il revirement giurisprudenziale sull’onere della prova in materia di impossibilità di repêchage, nel caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo.

In primo luogo, la Suprema Corte rileva come l’art. 5 della Legge 604/1966 stabilisce che: “l’onere della prova della sussistenza della giusta causa o del giustificato motivo di licenziamento spetta al datore di lavoro”. E secondo il ragionamento della Corte di Cassazione, tale onere deve interessare la sussistenza di un evento di gravità tale da giustificare la cessazione del rapporto di lavoro. In altre parole, il datore di lavoro deve provare la sussistenza di “una grave negazione degli elementi essenziali del rapporto di lavoro ed in particolare quello fiduciario, con riferimento agli aspetti concreti di esso, afferenti alla natura e alla qualità del singolo rapporto, alla posizione delle parti, al grado di affidamento richiesto dalle specifiche mansioni del dipendente nell’organizzazione dell’impresa, nonché alla portata soggettiva del fatto stesso, ossia alle circostanze del suo verificarsi, ai motivi e all’intensità del fatto volitivo” (Cassazione Civile Sezione Lavoro n. 3395/1991, n. 9590/2011, n. 13188/2003).

In secondo luogo, la Suprema Corte rileva come tale onere della prova sia inteso, dalla giurisprudenza, in senso molto rigoroso. In tal senso, è stato chiarito che il criterio della vicinanza alla fonte della prova deve comunque ritenersi superato nei casi, come quello di specie, in cui il legislatore abbia stabilito esplicitamente a priori su chi ricade l’onere probatorio.

E la giurisprudenza ha anche statuito che il datore di lavoro non possa assolvere a tale onere, limitandosi a fornire indizi delle asserite violazioni, imponendo al lavoratore di fornire la prova contraria, perché ciò darebbe luogo ad un’ingiustificata inversione dell’onere della prova (Cassazione Civile Sezione Lavoro n. 13380/2015).

Da ultimo, la Cassazione rileva come in materia di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, nel quale opera la medesima regola di cui all’art. 5 legge 604/1966, in revisione di un risalente orientamento che richiedeva al lavoratore, che impugnava il licenziamento, l’allegazione dell’esistenza di altri posti nei quali egli potesse essere utilmente ricollocato, si è sancito, a partire dalla sentenza Cassazione n. 5592/2016, che l’impossibilità di repêchage costituisce elemento costitutivo della fattispecie del recesso per giustificato motivo oggettivo, che deve essere integralmente provato dal datore di lavoro, proprio per non alterare in modo surrettizio l’onere sancito dall’art. 5 legge 604/1996.

Alla luce di tali premesse, la Cassazione conclude che nel caso di specie, il datore di lavoro non può limitarsi a provare che il lavoratore abbia svolto un’altra attività durante il periodo di malattia, ma deve, altresì, provare che la diversa attività del dipendente fosse potenzialmente idonea a pregiudicare o ritardare il rientro in servizio. Solo in tal modo, secondo la Cassazione, non si realizza un’inversione di fatto dell’onere probatorio stabilito per legge in caso di licenziamento.

Tale principio viene mitigato dalla Cassazione chiarendo che il datore di lavoro può assolvere a tale onere, sia richiedendo al Giudice di esperire una consulenza tecnica d’ufficio, sia attivando i poteri officiosi di cui all’art. 421 codice procedura civile.

Sul punto, la Cassazione richiama la giurisprudenza, che ricorda come, nel rito del lavoro, costituisce carattere tipico il contemperamento del principio dispositivo con le esigenze della ricerca della verità materiale. In forza di tale principio, quando le risultanze di causa offrano significativi dati di indagini, il Giudice non deve limitarsi a fare una meccanica applicazione del principio dell’onere della prova, ma ha il potere-dovere di provvedere d’ufficio agli atti istruttori sollecitati da tale materiale e idonei a superare l’incertezza dei fatti costitutivi dei diritti in contestazione; solo nel caso in cui, a seguito degli ulteriori atti istruttori, permanga un’insuperabile incertezza probatoria, farà applicazione della regola residuale di cui all’art. 2697 codice civile.


4. Decisione: illegittimità del licenziamento e condanna del datore di lavoro alla reintegra del lavoratore

In conclusione, pertanto il Giudice, riconosciuto che il datore di lavoro non ha adempiuto al proprio onere di provare che la diversa attività svolta dal lavoratore abbia rallentato o pregiudicato la guarigione, respinge il motivo di impugnazione e conferma l’illegittimità del licenziamento intimato, con condanna del datore di lavoro alla reintegra del lavoratore e al pagamento dell’indennità di cui all’art. 18 comma 4 Legge 300/1970.


5. Un breve commento

La sentenza in esame sembra inserirsi nel solco di una giurisprudenza, che, in materia di licenziamento, pone in maniera rigorosa in capo al datore di lavoro l’onere di provare tutti gli elementi costitutivi della giusta causa o del giustificato motivo, sia soggettivo sia oggettivo.

Sul punto, in tal senso, è emblematico il riferimento fatto proprio al revirement giurisprudenziale sull’onere della prova in punto repêchage, in materia di licenziamento per giustificato motivo oggettivo: la giurisprudenza più recente (e ormai consolidata) ritiene che sia il datore di lavoro a dover provare l’impossibilità di collocare il lavoratore in altre mansioni.

È comunque apprezzabile l’opera della Cassazione che, nel caso in esame, non si è limitata a richiamare la propria adesione ad un orientamento giurisprudenziale, ma ha voluto ampiamente motivare le proprie conclusioni.

A parere di chi scrive, due sono gli argomenti particolarmente convincenti del ragionamento della Suprema Corte nella sentenza in esame.

Il primo: il principio pacifico per cui al lavoratore in malattia non è vietato lo svolgimento di una diversa attività, anche lavorativa.

Il secondo è proprio il tenore letterale dell’art. 5 della legge 604/1966 (che impone al datore di lavoro l’onere di provare la giusta causa o il giustificato motivo) e la rigorosa e consolidata interpretazione che di tale norma la giurisprudenza ha sempre dato.

La Suprema Corte sembra però stemperare questo atteggiamento rigorista nei confronti del datore di lavoro, chiarendo come lo stesso possa assolvere all’onere della prova, sia attraverso l’esperimento di una CTU, sia, soprattutto, attraverso l’attivazione dei poteri officiosi del giudice ex art. 421 codice civile. Qui sembra che la Cassazione, consapevole di quanto sia difficile per il datore di lavoro trovare in proprio elementi di prova che possano confermare la potenziale idoneità della diversa attività a rallentare o pregiudicare la guarigione, abbia voluto offrire un escamotage al datore di lavoro per assolvere all’onere della prova.

Alla luce di tale ultima specificazione della Corte di Cassazione e, alla luce del fatto che sussiste comunque sul punto un significativo contrasto giurisprudenziale, è auspicabile un intervento delle Sezioni Unite al fine di fornire un’interpretazione univoca e chiara sul tema.